Giorgio Terruzzi, Flair 9-10/2015, 9 ottobre 2015
WANDA FERRAGAMO
«VEDO TUTTO, metto becco su tutto, mi bastano cinque minuti per capire cosa non va». La definizione vale come perfetto autoritratto. Wanda Ferragamo percorre i saloni meravigliosi del suo palazzo, osserva, nota, corregge. Fiori da sostituire, il taglio della luce sulle poltrone. Sistema le due bandiere americane, donate dal governo Usa in segno di riconoscimento, siede, sorride, non perde un colpo. Mai perso un colpo, viene da dire, di fronte a questa signora classe 1921, protagonista di una storia che pare una favola.
Figlia di un medico colto e illuminato, Fulvio Minetti; ragazzina cresciuta a Bonito, piccolo paese in provincia di Avellino; giovane moglie di un genio della calzatura, della moda, dell’intraprendenza, Salvatore Ferragamo; madre di sei figli, vedova, imprenditrice dal tocco magico, capace di infondere nell’azienda di famiglia la sua energia, un intuito infallibile: «Ma vede, ho avuto fortuna, ho incontrato due uomini straordinari. Mio padre è stato il custode dei valori che più contano nella vita, una mente eccezionale per me, soprattutto dopo aver perso mia madre quando avevo quindici anni. Salvatore mi ha trasmesso il suo entusiasmo, la sua curiosità per tutto, il valore del lavoro, della generosità. Alla fine è sempre questione di amore e di cuore. Quando morì, nel 1960, aveva 62 anni. Io di anni ne avevo 39. Si trattava di portare avanti una impresa rilevante. Ero spaventata ma fu un attimo perché avevo attorno persone formidabili. Al funerale ogni dipendente ripeteva: “Non si preoccupi signora, l’aiuteremo noi, ce la faremo”. Be’, è accaduto davvero così». È accaduto che Wanda Ferragamo ha afferrato il timone e ha navigato con il piglio di un comandante di lungo corso. In solitudine prima, assistita dai figli poi, Fiamma (scomparsa nel 1998), Giovanni, Ferruccio, Fulvia, Leonardo, Massimo. Il risultato è una azienda che ha oggi 4mila dipendenti, 630 punti vendita, un bilancio smaltato, così come il marchio. Dunque, non soltanto una corrispondenza con la straordinaria forza propulsiva di Salvatore ma anche una storia di emancipazione femminile cominciata in un’Italia fresca di dopoguerra: «La verità è che Salvatore non mi ha mai abbandonata. Lo vedo, lo ritrovo ogni giorno anche perché mi coinvolgeva su ogni cosa, spiegava, raccontava. Provo molta gratitudine per lui. Mio padre teneva una certa distanza con i propri figli. Lo ricordo al ritorno da un viaggio, mentre scende dalla sua Fiat 509, si toglie gli stivali aiutato da un garzone. Mi avvicinai, lo abbracciai contenta di rivederlo. Disse: “Cosa sono tutte queste smancerie? Una donna deve saper stare al suo posto”. Salvatore era affettuoso, il suo entusiasmo contagiava chiunque. Mi torna in mente un’immagine precisa, stavamo in campagna, lui tutto preso nel tentativo di innestare due tipi differenti di spighe. Osservava, cercava di capire, provava a fare con quelle mani magiche. Donava agli altri in continuazione. Talvolta mi sembrava persino esagerato in quanto a generosità. Un giorno acquistai questa piastrella di ceramica... vede cosa c’è scritto? “Non far male che è peccato / Non far bene che è sprecato”. La misi in bagno, in modo che potesse osservarla ogni mattina. Lui corresse la seconda frase a mano: “Far bene anche se è sprecato”.
Cuore e amore, come dicevo. Tutti, qui dentro, per prima, abbiamo conservato non soltanto il nome Salvatore Ferragamo ma un desiderio, una aspirazione che gli era propria».
Era nato il 5 giugno 1898, a Bonito, pure lui, “un vicolo cieco senza alcuna possibilità di espansione”, come scrisse nella sua biografia. Titolo: Il calzolaio dei sogni. Campagna, vita agra, undicesimo di quattordici figli, una misteriosa e precocissima vocazione per le calzature. Apprendista sotto casa, da bambino, poi a Napoli, poi l’America. Boston e quindi California. Nel 1923 aveva già aperto il suo Hollywood Boot Shop. Scarpe, sandali, stivali come creazioni uniche, eleganti, caratterizzate da una artigianalità preziosa. Qualcosa che conquistò registi, produttori cinematografici e, soprattutto, dive e divine. Il primo a usare il sughero, il primo a usare il cellophane, il primo a usare il nylon. Scarpe come simboli universali, 1400 modelli, 350 brevetti, realizzati studiando l’arco plantare, abbinando eleganza a comodità. Le sue creazioni compongono oggi un museo sorprendente, scandito dalle fotografie di chi le volle a ogni costo, per camminare sulle passerelle del mondo. Da Greta Garbo a Audrey Hepburn; da Anna Magnani a Marilyn Monroe. Un calzolaio, certo. Un uomo dotato di una visione larga, moderna, sicuro di determinare il proprio destino. Tornò a Firenze nel 1927 per lavorare in mezzo ad artigiani di prim’ordine. Il primo manifesto dell’azienda che porta il suo nome venne realizzato dal pittore futurista Lucio Venna. La sede? Palazzo Spini Feroni. Un totem della cultura fiorentina e italiana, che risale al 1289. Salvatore lo vide, lo volle. Come dire: il mio posto è questo, questo sarà. Coraggio e visione, appunto: «Era determinatissimo, anche se non aveva il denaro sufficiente all’acquisto. Firmò un contratto a rischio, convinto di rispettarne le clausole. Riuscì a mantenere ogni impegno, a trasformarlo in una sede unica e destinata a resistere, a segnare». Wanda Ferragamo si lascia scappare un’espressione di orgoglio, la memoria attraversata dai fotogrammi di un kolossal in bianco e nero e poi in 3D: «Qui passano principesse, regine, personalità eccellenti. Per la signora Hepburn avevo una ammirazione speciale. Venne a cena da noi, a casa, stavamo seduti a tavola. Il cameriere lasciò cadere un forchettone enorme, che provocò un gran fracasso urtando il pavimento di legno. Lei, nemmeno un gesto, come nulla, mentre tutti gli altri si voltavano per capire cosa fosse successo. Ecco, sì, una vera signora. Elegante, sempre, perché poi l’eleganza è una questione personale, un’attitudine intima. Di tutte queste belle donne ero gelosa. Senza alcun motivo per la verità, perché Salvatore pensava alla sua famiglia, al suo lavoro punto e stop. Però, insomma, donne celebri ovunque, a provare scarpe, con quelle gambe bellissime sollevate. Un giorno feci portare nella sala da pranzo delle fotografie a grandezza naturale di molte attrici, le sistemai attorno al tavolo e me ne andai. Come dire: mangia con loro, chiacchiera con loro, io esco. Era una provocazione, un momento di insofferenza risolto con un sorriso. Salvatore entrò in casa e fece il suo fischio inconfondibile. Credeva di trovare me, trovò la sala da pranzo gremita di volti noti e muti. Piuttosto, mi dispiace che quelle foto vennero gettate via da un dipendente dissennato. Erano uno spettacolo, autografate, con dedica. Le aveva portate Salvatore dalla California». Dice ancora: «Ricordo i viaggi, moltissimi. Soprattutto una traversata in piroscafo verso l’America. Il comandante scopre che sulla nave viaggia Christian Dior e fa in modo di riunirci tutti allo stesso tavolo. Ricordo New York, la sua curiosa magia che ti prende all’istante e poi la cordialità delle persone. L’assenza di invidia. Un sentimento quasi assente laggiù e così presente qui». E aggiunge: «Ora sto bene a casa mia, vado a letto presto la sera, verso le dieci, mi sveglio alle sette. C’è solo una cosa che tollero malvolentieri: la solitudine. Vorrei che ci fosse qualcuno sempre con me». Prosegue: «Non ho rimpianti e sono innamorata dell’Italia. Siamo nella città di Matteo Renzi che considero un’ottima persona. Lui e l’intera sua famiglia. Ma sì, il mondo attorno a me è cambiato, ma io credo che ci sia sempre una possibilità per fare e per fare bene. Lo vedo guardando i miei nipoti che sono tanti e mi sembrano dotati di una saggezza salutare. A loro scrissi una lettera ispirata dalla morta prematura di Andrea Pininfarina. L’avevo intitolata Come è bello essere per bene. Scrissi: non conformatevi a quanto di brutto accade nel mondo ma lasciatevi trasformare, migliorando il vostro modo di pensare, di agire e di essere in armonia con tutto ciò che è buono e gradito al Signore». Si guarda attorno, si domanda se può fare di più per chi non ha avuto la sua fortuna, un’opportunità: «Il lusso segna una barriera sottile, oltre la quale sta il troppo, la volgarità». Tiene tra le mani il libro che raccoglie gli scritti del padre Fulvio, il suo sguardo vola in alto tra gli affreschi del palazzo: «Siamo nel 2015... ma lo sa che tra poco arrivo a cento anni? Beh, c’è il tempo per fare moltissime cose».