Marco De Martino, Vanity Fair 23/9/2015, 23 settembre 2015
MI CHIAMO JEFF, SOLLEVO PESI
Lo studio di Jeff Koons a Manhattan è in un enorme hangar a temperatura controllata lungo il fiume Hudson. Dentro ci sono 140 giovani scultori, pittori, grafici 3D e programmatori che eseguono ogni giorno una lista di compiti come quelli elencati sulla lavagna bianca che noto quando entro: «Coppia di ballerini: rifinire la superficie». Da anni Jeff Koons non tocca più le sue opere che sono spesso enormi, costosissime da realizzare e sempre molto care: nel 2013 il suo levigatissimo Balloon Dog (Orange) venne battuto a un’asta di Christie’s a New York per più di 58 milioni di dollari, cifra record per un’artista vivente.
C’è chi calcola che il portfolio delle sue opere valga un miliardo di dollari. Le statue in acciaio inossidabile vengono fatte in Germania, le sculture di pietra in un altro studio in Pennsylvania. Eppure, quando gli chiedo se non gli manca produrre direttamente la sua arte, lui mi risponde: «In realtà il mio è un lavoro molto fisico. Controllo ogni dettaglio e interagisco intellettualmente con ogni pezzo che produco: tutto deriva dalla mia visione. Penso alle mie opere in ogni momento, anche quando prima di venire in studio vado ad allenarmi sollevando pesi: anche quello è al servizio della mia arte, del tenere mente e corpo coordinati. Creativamente, io sollevo pesi enormi».
Davanti a me c’è un modello per la statua Ode all’amore alto più di tre metri, quanto l’Ercole Farnese che quattro ragazzi con le mascherine sulla bocca stanno scolpendo nel gesso nella stanza accanto. In un angolo ci sono borse Louis Vuitton, in un altro cigni gonfiabili di plastica. Per un attimo penso alle botteghe rinascimentali di cui leggi nei libri di storia, e mi domando se anche Leonardo o Botticelli avessero la capacità di sedurre di Koons, che mi viene incontro dicendomi che ha una giacca esattamente uguale a quella che indosso. È in sneaker, pantaloni neri e una polo a righe azzurra: il viso è levigato, i capelli lunghi. Sembra molto più giovane dei suoi 60 anni.
Un attimo dopo sono seduto con lui al centro di un’altra sala piena di collaboratori a cui nel corso della nostra conversazione chiederà di recuperare una rivista, un suo disegno, una frase che mi vuole citare. Sul tavolo Koons ha un catalogo di Fragonard, uno degli artisti a cui si è ispirato per la prossima serie di lavori. Accanto, due foto di Palazzo Vecchio che simulano quello che si vedrà a partire dal 26 settembre a Firenze. Sulla piazza della Signoria, accanto al David di Michelangelo arriverà Pluto e Proserpina, un pezzo in acciaio inossidabile giallo di Koons. Che nella Sala dei Gigli ha invece scelto di mettere Gazing Ball (Barberini Faun) di fronte alla Giuditta e Oloferne di Donatello. «Esibire il mio lavoro accanto a Michelangelo e Donatello è il sogno di una vita», mi dice, raccontandomi che il giorno prima è tornato dalla Grecia. «Amo l’età classica e mi eccita l’idea di mostrare un pezzo policromo nella monocromia della scultura che prese piede proprio con Donatello».
Ascoltare Jeff Koons è un’esperienza ipnotica: la voce è bassa e soave, ogni parola è accompagnata da un lampo degli occhi azzurri. «I fiori nella statua di Pluto e Proserpina esprimono la tensione tra l’organico e l’inorganico, il desiderio di eternità, che in una delle sue forme è biologica».
Il Fauno Barberini è sensuale, quasi pornografico, pensava a quello quando l’ha scelto? «Ho riflettuto su quale dei miei lavori avrebbe funzionato meglio nella Sala dei Gigli, ma anche all’equilibrio tra le passioni e il corpo».
Koons chiede a un’assistente di recuperare dalla memoria di un computer un suo pastello dei tempi della scuola che mostra una testa di uomo tra le braccia di una ragazza. «Ho sempre avuto un interesse quasi intuitivo per queste forme di iconografia cristiana», dice riferendosi alla decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta. Perché il sesso è così centrale nelle sue opere? «Mi interessa la conversazione sull’essere umano. L’estasi assoluta dell’energia vitale, la procreazione e la gioia».
Il Fauno Barberini che verrà esposto a Firenze ha sulla gamba sinistra la palla ornamentale di vetro blu caratteristica della serie Gazing Ball. Jeff Koons vedeva queste sfere nei giardini delle case di York, la cittadina della Pennsylvania dove è cresciuto: «Per me rappresentano un atto di generosità, quello che i vicini di casa facevano per rendere la vita più interessante: quando le vedi sono eccitanti perché riflettono la tua immagine, ti dicono dove sei nell’universo».
Da dove è partito lui? «Da una famiglia della classe media che credeva nell’ascesa sociale: le cose erano sempre destinate a migliorare, e in effetti succedeva. Mamma era una sarta, mio padre aveva un negozio di mobili ed era un decoratore d’interni. Mi ha insegnato l’estetica, ma l’arte che vendeva lui non era quella che si trova nelle gallerie di New York. Quindi cominciai a disegnare senza sapere cosa fosse l’arte, ed ero molto bravo, al punto che cominciai a prendere lezioni formali dall’età di sette anni. Quando fu il momento di andare al college, l’unica scelta possibile fu la scuola d’arte».
La rivelazione sul suo futuro venne quando lo portarono per la prima volta al museo di Baltimora: «Mi resi conto di non sapere assolutamente nulla di arte, ma in qualche modo sopravvissi a quel momento, e quando il mio professore parlò per la prima volta di Manet e dei suoi simbolismi io mi sentii la persona più felice del mondo, perché all’improvviso capii che tutte le discipline umane confluiscono nell’arte, che facendola avrei potuto parlare di filosofia, teologia e sociologia».
Prima di imporsi, però, Koons dovette guadagnarsi da vivere in altri modi. Fece il venditore porta a porta di cioccolata e carta da regalo, vendette abbonamenti al Museo d’arte moderna, fu anche un trader di Borsa: «Mio nonno da parte di madre era un politico, i suoi fratelli erano mercanti: ho imparato da loro a essere autosufficiente, e l’importanza di entrare in comunicazione con gli altri».
Gli chiedo se sta insegnando la stessa cosa ai suoi figli, che sicuramente vivono in un ambiente molto diverso dal suo. Alle pareti della casa di Koons nell’Upper East Side sono appesi quadri di Picasso, Courbet, Poussin, Lichtenstein, e in un’intervista uno dei suoi figli ha raccontato del gioco dell’arte che si fa in famiglia la sera: «Papà dice di cercare il Dalí o il Picasso, e chi lo trova può stare sveglio cinque minuti più degli altri».
Koons ci pensa un attimo e poi dice: «Sto cercando di dare loro le stesse cose che motivavano me quando ero ragazzo: nuove esperienze che ti diano entusiasmo. Ricordo ancora quando papà mi portò a visitare Philadelphia, o a vedere gli spettacoli dei delfini a Miami. Lo stesso con i miei figli: siamo appena tornati da una vacanza di snowboarding sulla neve del Cile. E andiamo spesso nella fattoria in Pennsylvania che mio nonno ha venduto quando avevo 4 anni e che ho ricomprato da adulto».
Racconta che lui e la moglie Justine, un’artista ed ex collaboratrice con cui vive da vent’anni, hanno cercato a lungo una fattoria senza trovare niente che gli piacesse prima di ritrovare quella della sua infanzia: «È spettacolare: abbiamo più di 300 ettari, coltiviamo mais e soia, cresciamo pecore e mucche. La comunione con la natura ci dà il senso della nostra mortalità, e i nostri figli possono sperimentare la vita agreste. È il luogo della fantasia».
Koons ha otto figli e, quando ne parla, sorride sempre: «Shannon, la maggiore, ha 40 anni. Sua madre era una mia fidanzata al college: quando a 20 anni seppi che era incinta offrii di sposarla ma lei non volle e diede nostra figlia in adozione. L’ho conosciuta quando a 20 anni andò in cerca dei suoi genitori biologici e sua madre le disse che io avevo sempre voluto averla con me: visse con me fino al suo matrimonio, ora abita a Long Island».
Colpisce che abbia avuto un’altra esperienza di separazione prima della guerra legale con Ilona Staller per la custodia di suo figlio Ludwig: «La verità è che, anche se eravamo geograficamente lontani, con Ludwig siamo sempre stati vicini. Ma certo ora che ha 23 anni è fantastico, possiamo vederci ovunque».
Mi elenca nomi ed età degli altri sei figli e quando gli dico che al contrario di altri artisti sembra ispirato dalla famiglia risponde: «Mi fa pensare a Picasso: dopo tutte le relazioni che ha avuto, sul letto di morte ha raccomandato al dottore che lo curava di sposarsi, perché per lui era stato fantastico essere sposato a Jacqueline. Ogni relazione può essere importante, quello che conta è come viene espressa. È per questo che è fondamentale non dare giudizi: se pratichi l’accettazione puoi coinvolgere tutto nel tuo lavoro. Quando si giudica invece si chiudono delle possibilità».
Jeff Koons non si è mai curato dei critici o di chi esce dalle sue mostre offeso per le immagini di lui che fa sesso con Cicciolina nella serie Made in Heaven. All’inizio della nostra conversazione mi mostra un progetto del 1987: si chiama Baptism, ed è una sorta di manifesto della sua arte. Inizia con un’immagine di Don Chisciotte, e dice: «Essere. Sempre libero. Nel potere, gloria, spiritualità e amore. Liberato nella cultura di massa. Senza critiche». Sotto a questa parola c’è l’immagine di un vaso di fiori fatto a pezzi con un martello.
Mi racconta che da giovane passò un pomeriggio con uno dei suoi modelli, Salvador Dalí: «Indossava un’enorme pelliccia di bufalo, un diamante all’attaccatura della cravatta, qualche farfalla e altri insetti qua e là. Aveva i baffi all’insù e un bastone d’argento. Qualcuno disse che si vestiva sempre per dare l’impressione a chi lo incontrava che quello fosse il momento più importante della sua vita. È un’osservazione fondamentale, no?».
Gli chiedo: anche lei vuole che le sue opere restino nell’eternità come quelle di Dalí? «No, a me interessa la battaglia: tanti di quelli che hanno cominciato con me non lavorano più». Perché? «Perché non avevano abbastanza motivazione. Ci vuole desiderio, voglia di partecipare: i miei artisti preferiti migliorarono tutti con l’età, e mi piace pensare che sto facendo lo stesso».