Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 23 Mercoledì calendario

LA COPPIA CHE MANCAVA

Maria Sole Tognazzi è un puntino su un divano, in fondo all’immensa sala d’ingresso dell’Hotel Mediterraneo di Roma. Non un hotel qualsiasi, ma un albergo di proprietà, da diverse generazioni, della famiglia di sua madre Franca Bettoja.
Nel bar, tra specchi e pannelli di radica, hanno girato Wes Anderson e Paolo Sorrentino. Dall’altra parte della strada, c’è l’altro albergo di famiglia, dal nome risorgimentale: Massimo D’Azeglio.
Maria Sole mi guida tra i saloni con entusiasmo, dice «sono quasi più orgogliosa dei miei alberghi che dei miei film. Che poi non è che siano miei, faccio un po’ il conte Mascetti della situazione, capisce?».
Il riferimento al personaggio del nobile decaduto e senza un soldo reso immortale dal padre Ugo in Amici miei le viene spontaneo. Del resto, il cinema è il lessico familiare di Maria Sole.
Adesso, soprattutto dopo il grande successo, anche commerciale, di Viaggio sola (2013), il film dove Margherita Buy interpretava, non a caso, un’ispettrice di hotel, Maria Sole è diventata una regista molto corteggiata. Ammette di aver ricevuto in abbondanza copioni e libri e proposte per la televisione, e di averne rifiutate molte. «Non per snobismo, ma perché non ero sicura di essere in grado di farle. Amo il rischio, ma solo fino a un certo punto», dice con un timidissimo sorriso.
Il 1° ottobre uscirà in sala il suo quarto film: Io e lei. Le protagoniste sono Margherita Buy e Sabrina Ferilli, per la prima volta insieme sullo schermo. Ma, soprattutto, è il primo film italiano che racconta la storia d’amore tra due donne. Non aspettatevi La vie d’Adèle e tenete a freno le curiosità morbose. Buy e Ferilli si baciano appassionatamente una sola volta nel film, ma quel che più colpisce è la credibile ricostruzione, nei piccoli gesti e nelle conversazioni minimaliste, della vita quotidiana della coppia. Non un film di denuncia, ma un film che normalizza l’idea delle unioni omosessuali e quindi spunta gli argomenti di chi, ancora oggi, non le trova legittime e degne degli stessi diritti di quelle eterosessuali.

Perché questo film, perché questo tema?
«Oh, mille ragioni. Volevo lavorare di nuovo con Margherita, volevo lavorare per la prima volta con Sabrina che conosco da sempre ma che ho incontrato di nuovo per caso a Cannes, nella hall di un albergo, l’anno della Grande bellezza. Perché mentre riflettevo su un soggetto che potesse coinvolgerle entrambe, ho acceso la Tv e stava andando in onda 
Il vizietto, quello del 1978, quello con mio padre. Un segno, non crede?».
Direi. In realtà, in Io e lei del Vizietto c’è ben poco, a parte il cameriere gay un po’ folcloristico, interpretato dal divertentissimo attore non professionista Dennis Olazo. Il suo film è una storia d’amore, mi ha ricordato I ragazzi stanno bene, con Julianne Moore e Annette Bening.
«Eh, gran film, ma quelle sono due donne omosessuali sposate e con figli, che vivono in California, perfettamente risolte. Nel mio film, solo Marina (Sabrina Ferilli) lo è. Federica (Margherita Buy) è alla sua prima relazione con una donna, e piena di paure. Ci sono ancora tante donne così in Italia, che vivono la loro omosessualità di nascosto».
Io e lei arriva in un momento in cui il dibattito sulle unioni civili è più vivo che mai.
«So che potrebbe sembrare un progetto molto furbo, pensato a tavolino. La verità è che un racconto sull’omosessualità femminile mancava, nel cinema italiano. Decidere di farlo interpretare a due star aggiunge forza al messaggio, almeno io lo spero. E poi mi interessava che queste due non fossero ragazzine nella fase sperimentale della vita, magari in situazioni socialmente marginali, ma adulte consapevoli e realizzate».
Nel film c’è anche un minuscolo «cameo» di Vanity Fair con un’intervista al personaggio della Ferilli, un’ex attrice che ha fatto coming out per poi ritirarsi dalle scene. Per le celebrità omosessuali, secondo lei, c’è una sorta di dovere a dichiararsi pubblicamente?
«Dovere, mai. È un diritto. Capisco che per molti gay non famosi il coming out dell’attore o del cantante celebre sia una sorta di incoraggiamento e aiuto, ma nessuno dovrebbe sentirsi in obbligo di parlare della propria vita privata. E poi io ho un’idea molto precisa riguardo alla privacy delle persone popolari, diciamo che me ne intendo. Le mie prime foto uscite sui giornali mi ritraggono a pochi giorni, nata prematura, dentro un’incubatrice. Pesavo meno di un chilo, rischiavo la vita, ma ero la figlia di Ugo Tognazzi e quindi qualcuno, non so come, si infilò in clinica a fotografarmi. Sei pagine di rotocalco».
Una neonata scoop che adulta diventa?
«Non ho mai nascosto nulla di me, ho vissuto come volevo, anche se non ho mai parlato in pubblico delle mie relazioni. La sessualità non ha mai avuto una grande importanza nella mia vita. Mi è capitato di innamorarmi di uomini e donne, mi è andata male in entrambi i casi e, infatti, sono sola da un sacco di tempo. Ma non posso dire di stare male. Probabilmente è questa la mia dimensione. E probabilmente in questo somiglio a mia madre che, dopo la morte di Ugo, non si è mai rifatta una vita».
Che rapporto ha con sua madre?
«È la persona con cui mi diverto di più e con cui parlo di più al mondo. Il personaggio della Ferilli, che nel film ha lasciato il cinema al momento di massima popolarità, è anche un omaggio a lei. Franca era bella ed era una brava attrice, aveva fatto film importanti, chissà che carriera avrebbe potuto avere. Ne abbiamo parlato tante volte, ma non è affatto pentita della sua scelta, dice che non era un lavoro adatto a lei, che era troppo timida, che non si sentiva a suo agio. Adoro mia madre. Non la ringrazierò mai abbastanza per tutto quello che ha sempre fatto per me, sostituendosi a mio padre che non c’era mai, standomi sempre vicino e, sì, anche per avermi portata a Sanremo, quando avevo tredici anni, a vedere da vicino John Taylor dei Duran Duran, il mio idolo».
Lei non ha figli. Ne desidera, ne ha desiderati?
«Se me lo avesse chiesto quando avevo 25 o 30 anni, le avrei risposto ma certo, non vedo l’ora di restare incinta. Ma, nel momento in cui ho avuto un compagno, non è capitato, e quando mi sono trovata sola non ci ho pensato né, probabilmente, ho avuto quel desiderio così impellente di maternità che porta molte donne ad avere figli anche da single. Non voglio sembrarle fragile perché non lo sono. È andata così, senza rimpianti. In Viaggio sola c’è una scena in cui Margherita Buy risponde a Stefano Accorsi sul perché non abbiano avuto figli. Non è successo e basta, lei dice. Aggiungo che, non per questo, una donna deve sentirsi incompleta o può essere giudicata difettosa. Anche questo è un tabù da distruggere».
Maria Sole, lei adesso ha molto successo in proprio. Nessuno potrà più dire figlia di, sorella di…
«Non ho mai avuto quel complesso. Non ci sono mai stati conflitti interiori con una figura, un cognome, da cui smarcarsi a tutti i costi. Magari per i miei fratelli è stato più difficile, somigliano a Ugo, hanno la stessa voce di Ugo, hanno fatto gli attori. Alla vigilia dell’uscita del mio primo film, Passato prossimo (del 2003, ndr), certamente c’era chi pensava che fossi una raccomandata e, guardi, lo trovavo normale, umano, persino giusto. Il film poi non incassò granché ma ricevette parecchi premi e, da allora, mi sono sentita accettata e rispettata per chi sono e per quello che faccio».