Vito Tartamella, Focus 10/2015, 23 settembre 2015
PIÙ FORTI DI NOI
Quando calano le tenebre, sbucano furtivamente dai tombini e invadono la città, aggirandosi a piccoli gruppi in cerca di cibo. Si muovono rapidi, come ombre inquietanti che zampettano lungo i marciapiedi deserti... L’estate scorsa i ratti sono tornati al centro delle cronache: additati come il sintomo clamoroso del degrado di Roma, ma anche di Milano, Cagliari, Ivrea, Trani. Dobbiamo preoccuparci? Rischiamo di essere messi in scacco da questi roditori, che già nella Storia hanno portato morte e distruzione con la peste? Oggi la lotta ai ratti, priva di nuove armi chimiche, si è potenziata con la tecnologia: alle trappole elettroniche, capaci di inviare un sms quando hanno ucciso un roditore, si è aggiunta la potenza di calcolo dei computer, che ne stimano le presenze con nuova precisione. Ma il futuro appare inquietante. Secondo Jan Zalasiewicz, docente di paleobiologia all’Università di Leicester (Uk), se il riscaldamento globale dovesse far estinguere i grandi mammiferi, sopravviverebbero solo i roditori, che potrebbero ingrandirsi fino a 1 metro di lunghezza per 80 kg di peso. Arriverà l’era dei super topi?
No, obiettano invece gli zoologi: se il clima dovesse surriscaldarsi, in realtà sarebbero avvantaggiati gli animali piccoli. Di certo i ratti sono davvero resistenti: dal 1948 al 1958, sulle isole Eniwetok (Isole Marshall, oceano Pacifico), furono testate 15 bombe nucleari. Quando, 4 anni dopo, gli scienziati della Marina militare Usa – protetti da tute anti radiazione – sbarcarono sulle isole, non c’era traccia di vegetazione e di animali. Tranne i ratti, che circolavano indisturbati.
«Nessuna città è immune da loro», avverte Dario Capizzi, zoologo della Regione Lazio e fra i maggiori esperti di roditori. «E di certo i tagli alla spesa pubblica (meno derattizzazioni, edifici abbandonati, cattiva gestione dei rifiuti) hanno reso più evidente il problema. Ciò vale per Roma ma anche per le altre città».
Fra i mammiferi, i roditori sono l’ordine con più specie sulla Terra: sono il 42% dei mammiferi, con 2.277 specie su 5.419. Ma quelle che hanno impatti negativi sulle attività e sulla salute dell’uomo sono per lo più 3: il topo domestico (Mus musculus), il ratto nero (Rattus rattus) e il ratto grigio (Rattus norvegicus, i ratti di fogna). Sono i ratti, in particolare, i più sgraditi abitanti delle città. «Arrivano dall’Asia e hanno avuto grande successo evolutivo perché sono molto resistenti e adattabili, oltre che intelligenti: hanno un alto tasso riproduttivo (una coppia può generare 108mila discendenti in un anno), si adeguano a ogni clima (vivono a qualsiasi latitudine, da -40 a oltre 50 °C), mangiano di tutto (possono rosicchiare perfino il piombo, il cemento, l’alluminio) e sono capaci di muoversi sotto terra, in acqua e di arrampicarsi», aggiunge Capizzi.
CACCIATORI. Il loro successo risale a 66 milioni di anni fa, quando apparvero i primi roditori, che impararono a cacciare di notte affinando l’udito, l’olfatto e il tatto, e sostituendo l’istinto con l’apprendimento. Come tutti gli animali piccoli, i ratti consumano molta energia e vivono poco, compensando questo limite con una grande prolificità. Possono avere 20 rapporti sessuali al giorno e, grazie a una gestazione breve (20-24 giorni), generare migliaia di discendenti in poco tempo. Ecco perché sono diventati anche i simboli del sesso, come testimoniano i termini topa, zoccola, sorca.
La capacità di moltiplicarsi in fretta è uno dei segreti del loro successo: in poco tempo si selezionano roditori sempre più adattati all’ambiente. Quelli sopravvissuti ai test nucleari, pur colpiti da mutazioni genetiche, le hanno diluite rapidamente da una generazione all’altra. Ed è per questo (e perché condividono quasi il 90% dei nostri geni) che questi roditori sono stati scelti per sperimentare nuovi farmaci: grazie alla loro prolificità, gli scienziati possono osservarne subito gli effetti su diverse generazioni.
A PIRAMIDE. I ratti vivono in colonie guidate dai maschi dominanti. Poiché dormono 20 ore al giorno, alcuni di loro fanno da sentinelle per vigilare sui numerosi predatori: colpa loro se il 95% dei ratti muore a 6-12 mesi, mentre la loro vita media sarebbe di 2 anni. E in caso di pericoli sono solidali: nel 1962, in Danimarca, una nave infestata dai ratti fu saturata di gas velenosi. Molti di loro riuscirono a salvarsi perché i più anziani si erano sacrificati otturando le condutture in cui scorreva il veleno.
Altrettanto raffinate le strategie che usano per procurarsi il cibo. Per rubare un uovo senza spaccarlo, ad esempio, un ratto lo prende e si capovolge a pancia in su; poi interviene un altro ratto che gli afferra la coda fra i denti e lo trascina fino alla tana senza rompere il prezioso bottino. In Breve storia della vita privata (Guanda), il saggista Bill Bryson racconta che i ratti riuscivano – non si sa come – a mangiare pezzi di carne appesi ai ganci di un alto soffitto in un impianto di imballaggio negli Usa. Un derattizzatore, spiandoli di notte, ha capito come: si mettevano l’uno sull’altro formando una piramide. Uno saliva in cima al mucchio e saltava sulla carne, scavandosi una galleria a morsi finché il pezzo cadeva a terra. E gli altri lo divoravano.
Sono anche abili cacciatori e nuotatori: «Sul lungomare di Palermo», aggiunge Graziano Dassi, derattizzatore di Saronno, «avevamo scoperto che la loro tana era nel frangiflutti al largo. Una sera ci siamo immersi e li abbiamo seguiti: uscivano a nuoto e raggiungevano i tramagli a un centinaio di metri; si avventavano sui pesci intrappolati, li ghermivano e li portavano a riva per mangiarli».
GRANAI E FOGNE. Non a caso, “ratto” ha la stessa etimologia di razzia: si stima che i roditori mangino fino a 1/5 delle riserve di cibo mondiali (oltre ai cavi elettrici: 1/4 degli incendi sono causati da loro). Sono state proprio queste riserve ad avvicinare i ratti agli uomini, dopo che per millenni avevano vissuto separati: «Nessun osso di roditore è stato trovato nelle caverne dell’uomo preistorico», sottolinea Francesco Santoianni nel saggio Topi (Giunti). La fastidiosa convivenza cominciò 11mila anni fa con l’invenzione dell’agricoltura: permise all’uomo di abbandonare il nomadismo e di vivere in comunità stanziali. «Nel 3000 a.C. i re della Mesopotamia accumulavano i raccolti nei granai per sostentare l’esercito: furono queste riserve di cibo ad attirare i ratti, che dalle aree del Mar Caspio raggiunsero l’Europa e l’Africa al seguito delle carovane di viaggiatori, via terra e via mare», racconta Santoianni.
Il temibile Rattus norvegicus (così chiamato perché avvistato per la prima volta 3 secoli fa in Nord Europa), in realtà, è originario di Cina e Mongolia: forse questa specie arrivò in Occidente per fuggire da un devastante terremoto avvenuto nel 1727 in Iran. Trovò rifugio nelle fogne delle città europee, che offrivano un habitat riparato, ricco di cibo, acqua e di vie di fuga. E proprio nelle fogne i ratti – di per sé animali puliti – diventano portatori di oltre 30 malattie trasmissibili all’uomo, dal tifo alla leptospirosi: ospitano parassiti, batteri, protozoi, virus. Ecco perché, da secoli, si tenta di debellarli con trappole e veleni.
ARMI CHIMICHE. La svolta risale al 1948, quando furono scoperti gli anticoagulanti: sostanze letali (provocano emorragie interne, facendoli morire in 5 giorni) e non percepibili dal loro sensibile olfatto. Oggi, però, la chimica segna il passo: per tutelare altri animali (uccelli, cani, gatti) dall’avvelenamento da esche per ratti, le leggi europee hanno ridotto il numero di molecole e di formulazioni utilizzabili. In più, già 12 anni dopo l’introduzione degli anticoagulanti, i primi ratti (in Scozia) vi si sono assuefatti. Così, oggi si usano i veleni di seconda generazione: ma è difficile dire per quanto ancora funzioneranno. «La strategia più interessante», aggiunge Capizzi, «sarebbe renderli sterili: dagli Anni ’60 sono state sperimentate varie sostanze, ma finora non hanno dato risultati efficaci. E comunque c’è il problema di come somministrarle in modo continuativo e senza contaminare altri animali».
Altri sistemi, invece, si sono rivelati un buco nell’acqua: dagli ultrasuoni (all’inizio li tengono lontani, ma poi si abituano) fino ai predatori: «Alle Hawaii», ricorda Capizzi, «furono introdotte le manguste, che sono predatori diurni, mentre i ratti circolano di notte. Risultato: le due specie non si incontrarono mai, e le manguste distrussero i raccolti». In realtà hanno successo, nella caccia ai ratti, furetti e cani addestrati, usati in Spagna, Usa, Germania. Ma i killer più infallibili sono i rapaci: un gufo può catturare anche 100 roditori in una notte.
ALGORITMI. Ma se la guerra chimica è arenata, «l’elettronica ha aperto nuovi orizzonti», racconta Dino Gramellini, direttore tecnico di Anticimex, una delle 3 multinazionali di disinfestazione in Italia. La nuova frontiera sono le trappole intelligenti. Ne esistono di due tipi: la “smart trap” per le fognature, con un rilevatore di movimento e di calore, che fa scattare una ghigliottina quando un ratto vi passa sotto; e la “smart box” per le ville, alimentata a pannelli solari: cattura i ratti e li folgora con una scossa elettrica. «Entrambe le nostre trappole», spiega Gramellini, «inviano un sms o una mail per segnalare l’avvenuta esecuzione».
Intanto, il Dipartimento di salute pubblica di New York ha lanciato nel 2014 il “Rat information portal”, un sito che visualizza le segnalazioni di ratti su mappe interattive, per monitorarne la concentrazione e programmare interventi mirati. E a Chicago, grazie a uno studio sulle denunce degli ultimi 12 anni, hanno elaborato un software capace di prevedere, sulla base di 31 variabili (attività, traslochi, stagione...) dove appariranno i roditori con 7 giorni di anticipo. Un algoritmo sconfiggerà i ratti? «Qualsiasi cosa inventeremo», risponde Gramellini, «dobbiamo farcene una ragione: hanno comunque già vinto loro».
Vito Tartamella