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 2015  settembre 23 Mercoledì calendario

BANCHE POPOLARI, CRISI DI UN (FALSO) MITO

Se ci fosse ancora bisogno di una prova di quanto fosse opportuno il decreto con cui il governo 8 mesi fa ha imposto entro l’estate 2016 la trasformazione in società per azioni a 10 grandi banche popolari, basterebbe guardare quello che sta succedendo a Nord-Est.
Due di quelle grandi popolari che per anni si sono considerate, e spesso sono state considerate, virtuosi modelli di finanza locale e di legame con una forte e diffusa imprenditoria locale come quella veneta, soffrono adesso sotto la duplice pressione di una vigilanza bancaria passata alla Bce – e diventata evidentemente più rigorosa – e delle inchieste della magistratura.
Veneto Banca e la Popolare di Vicenza, la seconda perquisita ieri dalla Guardia di Finanza, sono state negli anni acerrime concorrenti, spesso candidate a nozze e altrettanto spesso pronte a dichiararsi single a vita, in nome appunto del sacro legame con il territorio. Adesso si ha la conferma che in realtà erano molto più simili di quanto volessero far credere: valore delle azioni degli istituti gonfiato un anno dopo l’altro, senza che ci fosse mai un riscontro di mercato; soci finanziati perché acquistassero azioni della stessa banca, pratica ovviamente vietata dalla legge; una politica del credito i cui limiti si vedono adesso, con la necessità di forti svalutazioni e di aumenti di capitale dell’ordine di un miliardo e mezzo per i vicentini e di uno per Veneto Banca che invece sta a Montebelluna. Ovvio che adesso, sempre in nome del legame con il territorio, si levino alte le proteste di chi contesta gli aumenti di capitale e teme una svendita del proprio istituto. Peccato che quelle stesse voci non si siano sentite negli scorsi anni, quando le stesse banche si dedicavano a gonfiare come pneumatici le loro azioni. Non è certo un caso che dopo il decreto del governo, e in vista di una prossima out azione, sia Vicenza sia Veneto Banca abbiano dovuto svalutare le loro azioni di quasi un quarto del valore che era stato loro assegnato.
Non è che vicende di questo genere siano monopolio delle sole popolari, né che da questi due casi estremi si possa ovviamente ricavare un giudizio negativo su tutto il settore del credito cooperativo. Ma è un dato di fatto che, passati quasi metà di quei diciotto mesi che il governo ha dato alle grandi popolari per trasformarsi in Spa, poco si è fatto per avviare le aggregazioni che sembravano necessarie, segnalando così una certa renitenza al cambiamento. Tutte le banche, nei loro progetti, sono soggetti «aggreganti», ossia disposte solo ad annettersi altri istituti; nessuna vuole essere soggetto «aggregato». Pesano orgogli di campanile, ma anche inconfessabili affezioni alle tante poltrone garantite dalle tante banche locali, magari per decenni interi.
Sta di fatto che sarebbe opportuno trovare per le popolari una terza via tra una vigilanza occhiuta della Bce, che come ha fatto notare la stessa via Nazionale rischia di penalizzare particolarmente le banche italiane, e l’intervento delle Procure. Purtroppo quella strada di mezzo finora non si è trovata, anche perché l’autoriforma del settore è rimasta una chimera. Possibile adesso che la crisi delle popolari venete spinga a rendere più veloci – non senza qualche scossone – le aggregazioni: una volta che si deciderà la prima combinazione tra banche le altre non potranno tardare a muoversi. Il (falso) mito delle Popolari muore a Nord-Est, ma non gode di ottima salute nemmeno nel resto d’Italia.