Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 23/9/2015, 23 settembre 2015
SE L’EUROPA HA BISOGNO DELLA TURCHIA
Se l’Europa trema è perché la sua trascurata ma strategica periferia barcolla. I leader europei oggi prometteranno ad Ankara 1 miliardo di euro per tenersi due milioni di profughi siriani (solo 300mila vivono nei campi), come ha già fatto Cameron stanziando un miliardo di sterline per la Giordania e il minuscolo Libano, 4,3 milioni di abitanti e oltre un milione di rifugiati.
Ma i soldi non bastano a placare il nervosismo della Turchia che vede avvicinarsi le elezioni anticipate del primo novembre con una tensione sempre più forte nei territori curdi (il partito curdo Hdp è uscito ieri dal governo) e due guerre in corso, una contro il Pkk e l’altra, assai meno convinta, contro il Califfato. La Turchia vuole un ripresa del negoziato di adesione che la vede relegata da anni in una sorta di limbo e Bruxelles medita per il 5 ottobre un vertice con il presidente Tayyip Erdogan. La Turchia di Erdogan, sempre meno libera e affidabile, potrà anche non piacere ma con i suoi 900 chilometri di confine è essenziale per la stabilizzazione del Levante. Per la verità Ankara in questi anni ha lavorato in direzione opposta: il crollo del regime di Bashar Assad, un bersaglio perseguito con il passaggio di migliaia di jihadisti dalla sua frontiera. Sarebbe scorretto dire che la colpa del flusso dei rifugiati è da addossare alla Turchia ma vi ha contribuito con la partecipazione delle monarchie del Golfo, degli Stati Uniti e dei loro partner occidentali che pensavano a un rapido crollo del regime alauita. La Turchia ha voluto essere protagonista di quello che accade ai suoi confini con davanti un obiettivo preciso: evitare che si possa formare l’embrione di uno stato curdo. E anche i rifugiati siriani sono entrati nella partita: gli arabi, che fuggivano prima dalla repressione di Assad e poi la violenza del Califfato, dovevano costituire una sorta di “esercito di riserva”, un cuscinetto umano per impedire che i curdi del Pkk, quelli iracheni del Kurdistan e del Rojava siriano, costituissero una sorta di continuità territoriale dell’etnia curda. Ecco perché per partecipare alla guerra contro l’Isis, i turchi hanno ripetutamente chiesto agli americani di costituire una “no fly zone” e una “buffer zone” nel Nord della Siria, puntando ad Aleppo come a una sorta di futuro “protettorato”. Per la Turchia, alle prese con le marce dei migranti, la contropartita sui profughi non è soltanto economica ma comprende la cosiddetta “profondità strategica” in Siria, un po’ come lo è l’Afghanistan per il Pakistan. C’è da considerare che la Turchia, dalle guerre di Saddam in poi e soprattutto dopo l’occupazione americana nel 2003 dell’Iraq, ha subito i contraccolpi dell’instabilità ai suoi confini: afflusso di profughi e insicurezza, solo in parte compensati dai traffici di petrolio con Kurdistan e Siria. Un tempo la Turchia era terra di emigrazione: sono 3 milioni i turchi in Europa e ora è meta di immigrazione e transito. Dopo le delusioni europee e le tensioni con gli Usa, non c’è da meravigliarsi che Erdogan oggi incontri Putin a Mosca, dove arrivano i leader musulmani per l’inaugurazione di una grande moschea. Sulla Siria Russia e Turchia - come del resto Israele - hanno visioni assai diverse: Ankara è impaurita dalla presenza dei militari e degli aerei russi. Ma sa anche che può negoziare con Putin interessi strategici comuni, oltre che economici come il gasdotto Turkish Stream. C’è una Turchia atlantica, storico membro della Nato, ma anche una Turchia euro-asiatica. Perderla per l’Europa sarebbe un grave errore.