Fabrizio Salvio, SportWeek 19/9/2015, 19 settembre 2015
CHE BELLO GUARDARVI DA QUASSÙ
[Antonio Floro Flores]
A volte non trovi la risposta e ti ostini a cercarla. Forse non vuoi vederla. Forse, semplicemente, non esiste.
Antonio Floro Flores, 32 anni e una vita da attaccante di scorta, ancora non ha smesso di chiedersi perché la sua carriera sia andata in una direzione invece di un’altra. Perché abbia proseguito in salita, indurita da una serie ininterrotta di curve, senza mai prendere una linea retta, chiara, evidente. Perché, infine, a dispetto del talento riconosciuto da tutti, della capacità di segnare in ogni modo e di una tecnica che avercene, di giocatori così, anche adesso non è una prima scelta nel Sassuolo secondo a sorpresa nella classifica della Serie A. Nonostante i tre gol in altrettante gare di campionato più un altro in Coppa Italia, per una media di una rete ogni 42 minuti.
Per tutte queste ragioni, Antonio Floro Flores, napoletano venuto su dal niente, di nuovo si volta per vedere se la risposta è lì, da qualche parte. Scoprirla significherebbe avere pace. Intanto, questa è la sua verità.
La Gazzetta ha scritto di lei: calciatore estroso e dotato, ma che, per vari motivi, non ha mai reso fino in fondo. Quali sono questi motivi?
«Io credo che, perché un giocatore renda, alla base debba esserci la fiducia dell’allenatore. Se questa viene a mancare crolla tutto il resto. Sarà stata anche colpa mia, ma in questi anni quella fiducia mi è stata negata. Oggi me ne sono fatta una ragione, ma una cosa è sicura: la mia carriera è stata frenata».
Parlava di colpe anche sue: quali?
«Quella di aver mollato quando mi sono sentito poco considerato. Quella di essermi intestardito a cercare la lealtà anche quando sapevo di andare a sbattere contro un muro».
Ma perché, dal 2000 a oggi, non ha ricevuto fiducia, tranne qualche parentesi, dalle 7 squadre nelle quali ha giocato, dal Napoli al Sassuolo?
«Magari perché non davo le giuste garanzie. Perché non si fidavano di me. Eppure io ho dimostrato coi fatti che quando ho sentito la stima dell’allenatore ho fatto gol dappertutto. La verità è che la risposta non me la so dare».
Cosa fa più male?
«Sentirsi dire dal mister: “Sei il giocatore più forte che ho”, e però restare fuori».
Chi glielo ha detto, tra i tecnici che ha avuto?
«Non faccio nomi, ma le garantisco che sono stati parecchi».
A fregarla può essere stato l’aspetto? Tatuaggi, orecchini, i capelli portati in un certo modo...
«Non voglio crederlo. La serietà non si giudica da queste cose e io mi reputo una delle persone più serie nel mondo del calcio perché rispetto il lavoro degli altri e prima di tutto me stesso. Se la gente pensa male di me a causa della mia immagine, non me ne frega niente. A me interessa solo il giudizio della mia famiglia».
Ma ha chiesto ai suoi allenatori il perché delle esclusioni?
«Ci ho provato. Domandavo: scusa, mi dici che sono il più forte di tutti, allora perché non gioco?».
Risposta?
«Nessuna».
E a Di Francesco, due settimane fa, dopo il gol decisivo al Bologna, glielo ha chiesto?
(ride) «Glielo devo chiedere».
Ha segnato e, invece di esultare, ha gridato: e nun me faie juca’(e non mi fai giocare).
«È stato lo sfogo di un momento: la domenica prima col Napoli avevo giocato bene e segnato. Perciò mi aspettavo di partire titolare a Bologna. Ma con Di Francesco c’è un gran rapporto. Siamo stati compagni di squadra a Perugia e non dimentico che è stato lui a chiamarmi per chiedermi di venire a Sassuolo in un momento difficile come quello successivo al mio ritorno al Genoa, dove speravo di ripartire e invece... E comunque, prima della partita gliel’avevo detto: tanto, se mi fai entrare faccio gol».
E lui?
«Mi ha risposto alla fine: “Se ti facevo partire titolare con Napoli e Bologna, li facevi 2 gol?”. Il mister ha sempre ragione».
Forse Di Francesco e gli altri prima di lui pensano che lei renda di più entrando dalla panchina, perché è arrabbiato.
«Spero di no. Vorrebbe dire che non mi hanno capito».
Ma ha mai mandato a quel paese platealmente un allenatore?
«Una volta, a Udine. Avevo concordato un premio con la società se fossi arrivato in doppia cifra nei gol. Ero a 9, giocavamo l’ultima giornata di campionato e il mister che fa? Mi sostituisce quasi a fine primo tempo. Non a 20 minuti dalla fine, dopo 40 minuti dall’inizio!».
Sembra una persecuzione...
«Sono esperienze che aiutano a crescere. Se avessi avuto a 20 anni la mentalità che ho oggi, tutte queste domande non me le sarei poste».
Perché, a 20 anni che testa aveva?
«Quella di uno che gioca nella sua città, Napoli, esce la sera e si sente il re del mondo. Ho fatto qualche cazzata».
È questa l’etichetta che le hanno messo addosso e che le ha impedito di avere una carriera diversa?
«Non penso, perché sono padre da 10 anni e da allora mi comporto in un certo modo, per rispetto della mia famiglia».
E allora che etichetta darebbe a se stesso?
«Quella di eterno incompreso».
Con Ballardini allenatore, nel Genoa fece benissimo: 10 gol in 18 presenze da gennaio. Era il 2011.
«Perché sentivo di essere considerato. Sarei rimasto là, ma l’Udinese, proprietaria del mio cartellino, mi ha rivoluto indietro. Non sarei mai dovuto tornare: quando una storia è chiusa, va chiusa per sempre. L’esperienza di Genova la rimpiangerò tutta la vita. Lì avrei fatto il salto di qualità, Palacio e io eravamo una coppia affiatata. Sono convinto che avrei raggiunto la Nazionale. A Udine mi sentii inutile, insignificante. Fu uno dei peggiori periodi della mia vita sportiva. Mi furono fatte promesse mai mantenute e non c’è niente di peggio. Oggi non mi fido più di nessuno. Ma voglio essere chiaro: tifosi e società mi hanno sempre trattato bene, con i Pozzo mi sento ancora. I problemi erano solo con l’allenatore Guidolin».
La sera a letto l’ultimo pensiero prima di dormire è felice o somiglia a un rimpianto?
«È un pensiero felice. Ho 4 figli, quale rimpianto posso avere nella vita?».
È vero che è stato a tanto così dalla depressione?
«Quando sono tornato da Granada, 2 anni fa, ero distrutto. Non mi era piaciuto nulla: il posto, la gente, la squadra. Mi chiama il Genoa, ho una voglia da spaccare il mondo e mi faccio male. Riprendo e mi faccio male di nuovo sulla cyclette. Ero arrivato a pensare di smettere. A casa mi sedevo sul divano e guardavo nel vuoto senza parlare. Ne sono uscito grazie a mia moglie e al Sassuolo».
Qualche tempo fa diede un’intervista al mensile dell’Associazione Calciatori in cui parlò della sua infanzia, le partite per strada al Rione Traiano dove è cresciuto, le sparatorie tra clan mentre voi bimbi giocavate...
«Quelle parole mi hanno creato problemi. Negli Anni 90 la realtà era diversa, oggi al Rione Traiano si vive bene. Ci torno tutte le volte che posso e lì abitano ancora tutti i miei parenti. Ho letto Gomorra di Saviano: non mi è piaciuto. Si sa che Napoli ha dei problemi, non ammetto che uno faccia i soldi parlandone male. Chi non conosce Napoli non può giudicarla, chi la conosce non la giudicherà mai».
Ha sempre detto che fin da piccolo il calcio è stato la sua vita, ma a 14 anni, per 3 mesi, mollò tutto.
«Non c’è niente di peggio per un ragazzino che vivere di illusioni. E io ormai sentivo di essere un illuso. Ero alla scuola calcio del Posillipo, facevo provini in tutta Italia, a Torino, a Venezia... E dappertutto facevo 2-3 gol ogni volta. Le società mi chiamavano a casa, poi scomparivano. Dopo anni ho capito perché: il Posillipo voleva troppi soldi per lasciarmi andare. Così a un certo punto dissi a mio padre: basta. Quando però arrivò l’offerta del Napoli non ci pensai un attimo. Era l’unico club col quale non avevo provato».
Non avesse fatto il calciatore?
«Non lo so. So che mia moglie Michela mi ha insegnato i congiuntivi. Da come parlavo una volta a come parlo oggi, mi sembra di essere diventato Einstein. E so che mio padre lavorava in una conceria di pelli poi fallita, per due anni e mezzo a casa portava i soldi soltanto mamma, parrucchiera. Papà si arrangiava raccogliendo i cartoni di notte, i miei primi guadagni andavano alla famiglia. Quando ho avuto il primo buon contratto da professionista ho detto a papà: hai faticato tanto, adesso ti godi la vecchiaia grazie a me».
I 5 migliori attaccanti oggi in Italia?
«Totti, Di Natale, Toni. Non ne ho altri, a parte il mio compagno Berardi, ma è ancora giovane».
I 5 migliori di sempre?
«Maradona, Baggio, Zola, Van Basten e Ronaldo».
Vorrebbe il piede destro di...?
«Mio».
Il sinistro di...
«Mio».
Il colpo di testa di...
«Mio».
La tecnica di...
«Mia».
La mentalità di...
«Roberto Baggio».
Il suo cognome ha origine spagnola: come mai?
«Sinceramente: non lo so. Evidentemente mia nonna in passato avrà fatto qualche danno di troppo».