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 2015  settembre 20 Domenica calendario

IL MIGRANTE CONVIENE MEGLIO SE È ISTRUITO


Una certezza possiamo averla: i buoni sentimenti hanno il fiato corto, quando si viene ai rifugiati. Sicuro: dare asilo a chi è in pericolo è un obbligo. Quindi si deve fare. Punto e basta. Solidarietà. Già: il guaio è che il mondo non funziona così. Ci si deve riuscire, a dare rifugio. I buoni propositi, invece, da soli, ci lasceranno nei pasticci. Perché, finita l’onda emotiva (e finirà), resterà la triste economia. Vengono per il nostro welfare state – si sente da tempo dire in molti parti dell’Europa –, puntano ai servizi sociali per i quali il Vecchio Continente è famoso; così non si può andare avanti. Una soluzione dice: dobbiamo fermare le migrazioni per salvare il welfare. Un’altra controbatte: dobbiamo ridurre il welfare per disincentivare le migrazioni. Una terza: welfare per tutti.
Tra solidarietà a parole e paure a fior di pelle, è un caos di sentimenti. Forse, meglio parlare di soldi. Poco calore. In compenso, occhi più asciutti. Prendere in considerazione il lato economico delle migrazioni – si tratti di rifugiati o di chi cerca una vita migliore – continua a sembrare volgare, in Europa. Negli Stati Uniti non è così. Ma da noi non fa chic. Invece è ciò di cui probabilmente dovremmo discutere. Non solo perché gli italiani e gli europei hanno paura di perdere il lavoro rubato da un siriano, di avere stipendi più bassi perché un etiope disperato costa meno, di vedere peggiorare i servizi sociali per troppa folla. Soprattutto perché i cancelli sono ormai aperti, non li chiuderà davvero nessuno e uno dei modi per cercare di gestire la situazione è rispondere a queste paure.

Dal punto di vista strettamente economico, le migrazioni dovrebbero essere una benedizione. Una decina d’anni fa, il professor Philip Martin dell’Università della California, Davis, fece una simulazione assurda, ma utile a inquadrare la questione. Volle calcolare che effetto avrebbe avuto sull’economia del mondo considerare l’ipotesi che le persone si muovessero tra un Paese e l’altro come merci, senza restrizioni e dazi. Libera migrazione. Considerando 179 Paesi e immaginando che i salari e la produttività si sarebbero livellati, stimò che il Prodotto lordo del pianeta sarebbe più che raddoppiato. Si sarebbe cioè creata un’enorme ricchezza.
Un’astrazione. La quale però serve a chiarire due cose: i movimenti migratori possono nascere dalla povertà, o dalle guerre e dalle carestie, ma non sono necessariamente destinati a produrre povertà, guerre e carestie, anzi; secondo, chiudere le frontiere alle persone è peggio che chiuderle alle merci, anche dal punto di vista economico. Dani Rodrik, professore a Harvard, più modestamente e realisticamente ha calcolato che l’effetto dello spostamento di cento milioni di persone dai Paesi poveri a quelli ricchi farebbe crescere il Pil mondiale dell’8%. Più di quanto possa fare qualsiasi liberalizzazione del commercio di merci e servizi. Ovviamente, ogni dislocazione non ha solo un effetto globale, ma al proprio interno crea differenze e problemi.
La questione del welfare, complessa, per esempio è da tempo discussa. Chi arriva in una società con un sistema di protezione sociale avanzato, ne approfitta? A parte il fenomeno molto europeo e specifico dei «turisti del welfare» che irritano David Cameron – per lo più giovani che si stabiliscono in Paesi della Ue non per lavorare o studiare, ma per goderne i benefit pubblici – uno studio dell’Ocse del 2013 ha stabilito che il contributo degli immigrati alle casse degli Stati è in genere positivo: cioè il loro contributo in termini di tasse dirette e indirette è superiore a quanto ricevono in termini di aiuti.
Qui c’è una differenza interessante tra Stati Uniti ed Europa. Mentre in America gli Stati proteggono il welfare dal possibile assalto dei migranti, ma lasciano aperto il mercato del lavoro (anche agli illegali), da noi succede l’inverso: siamo generosi (nei limiti) nel fornire servizi e assistenza, ma creiamo ostacoli all’ingresso nel mondo produttivo. Il risultato è che per ogni immigrato raccogliamo meno tasse di quanto potremmo e spendiamo parecchio. Ciò nonostante, l’Ocse ha calcolato che gli immigrati contribuiscono ai bilanci nazionali europei positivamente, anche se di poco: dello 0,3% in media, dello 0,98% in Italia (in Francia e Germania hanno invece un impatto leggermente negativo, dello 0,52 e dell’1,13%). Il centro studi dei Paesi ricchi conclude che per le casse pubbliche non si tratta «né di un guadagno né di un drenaggio significativi». Se gli immigrati potessero trovare più facilmente lavoro, il vantaggio per i bilanci degli Stati sarebbe più consistente (soprattutto in quei Paesi a limitata economia in nero).
L’altra grande paura, in effetti, è però proprio il lavoro. Gli immigrati rubano posti? Abbassano i salari? Praticamente tutti i maggiori studi sull’argomento indicano che in genere non sottraggono lavoro ai locali. Spesso occupano posti non voluti – l’esempio famoso sono le badanti dell’Est europeo in Italia – e soprattutto creano economia: l’idea che fa pensare a una sostituzione della manodopera locale con manodopera straniera nasce dal concetto errato secondo il quale l’economia è una torta data e quindi non si può che ridurne le fette se ci sono più commensali; in realtà, come abbiamo visto, nuovi arrivi nel mercato del lavoro e nella società fanno crescere l’economia e, pur in una distribuzione a più soggetti, ci sono buone probabilità che le fette siano più consistenti.
Per quel che riguarda il livello dei salari, invece, l’effetto degli immigrati è meno univoco. Gli esperti non sembrano arrivati a conclusioni certe. La tendenza prevalente è dire che i lavori a qualificazione alta subiscono un impatto basso, o inesistente. Il problema è più serio, invece, per i lavori non qualificati, dove la spinta verso il basso è più sentita: ma anche qui ci sono differenze a seconda dei settori. Infine, la questione demografica. Paesi come l’Italia e la Germania, con popolazione autoctona in declino, avranno bisogno di immigrati, probabilmente anche economici, non solo rifugiati in cerca di asilo, per mantenere un minimo in equilibrio il rapporto tra chi lavora e chi invece è in pensione.

Se sommiamo il fatto che l’ondata di profughi in arrivo in Europa è probabilmente impossibile da fermare con il fatto che altrettanto probabilmente non sarà economicamente negativa – anzi –, occorre chiedersi che tipo di migranti sia meglio attrarre, E come. Anche di fronte ai rifugiati, che arrivano in Europa per ottenere asilo, l’apertura di Angela Merkel ai siriani, mediamente piuttosto istruiti, indica che una gara per attrarre i più utili è già in corso. La Germania avrà una carenza di più di un milione di lavoratori qualificati nei prossimi 5-7 anni: comprensibilmente apre a chi ritiene possa essere d’aiuto. Ma anche gli altri europei dovrebbero porsi il problema. Sapendo che – ha stabilito uno studio basato sui Paesi Ocse – a parità di mercato del lavoro, i sistemi sociali che privilegiano i benefici pensionistici attraggono immigrati a bassa istruzione; mentre chi ha maggiori competenze tende a cercare sistemi che offrono garanzie nella sanità e nell’istruzione.
Ovviamente, non tutto si spiega con le statistiche. E non tutto si riduce a scelte di economia. L’integrazione culturale non è meno complicata. Ma sapere che adeguare il mercato del lavoro e il welfare ai nuovi arrivati darà vantaggi a tutti è una spinta ai governi: non è la solidarietà, la chiave.