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 2015  settembre 20 Domenica calendario

BASTA UN’EMAIL A SCUOTERE LA DITTATURA DELLA BADESSA

Angela è una donna di incredibile vivacità malgrado la stazza minuta: allegra, piena di energia, con una voce squillante. Nessuno se la immaginerebbe in un monastero, immersa in un’esistenza fatta di silenzi, preghiere e meditazioni. Eppure è proprio questa la vita che ha condotto fino a un paio d’anni fa, prima di uscire e dedicarsi a un’impresa di tutt’altro genere. In monastero lei ci è entrata a vent’anni, finito il liceo nella bella città veneta dove è nata. A farle prendere quella decisione sono state due suoi amori sfrenati: il primo per la preghiera, il secondo per la vita comunitaria. Passioni divenute, col tempo e con l’aiuto di un sacerdote suo insegnante di lettere, talmente travolgenti da spingere Angela a considerare il matrimonio una prospettiva che non faceva per lei.
“Il mio fidanzato di allora – mi racconta – che sognava una vita in comune con me e una casa piena di bambini dovette farsene presto una ragione. Lo lasciai ed entrai in convento”. Le chiedo perché mai, negli anni Novanta, una ragazza di vent’anni intelligente, vivace e appassionata alla cultura come lei abbia fatto quella scelta così radicale, di forte isolamento dal resto del mondo. I monasteri femminili, almeno in Italia e a differenza di quelli maschili (dove le persone escono, girano, insegnano all’esterno) sono tutti di clausura. Angela mi risponde che ad animarla era stato il desiderio di raggiungere un equilibrio, quello che una regola monastica dà al corpo e all’intera vita. “In convento – mi spiega – c’è un tempo per tutto: uno per lo spirito, uno per il corpo, uno per lo studio”. Mentre Angela parla penso che l’impegno costante di tanti di noi da giovani suoi coetanei è consistito nell’andare tenacemente in direzione opposta rispetto a quella imboccata dall’ex monaca che mi sta dinanzi. Volevamo liberarci dalla disciplina imposta dall’esterno, emanciparci dalla violenza di una vita regolata da altri: dai padri, dagli insegnanti, dai capoufficio, da tutte le autorità. Il monastero assomiglia invece a una caserma, un’istituzione totale all’interno della quale Angela appena entrata ha dovuto lottare per avere spazi di libertà minimi, ad esempio perché le fosse consentito di usare la posta elettronica. “Nei monasteri la consuetudine prevedeva che la posta in uscita fosse consegnata aperta alla superiora, che la poteva così facilmente ispezionare. La posta in entrata veniva invece consegnata chiusa a ogni monaca, ma era abitudine di tutte noi chiedere alla superiora se volesse leggere quello che vi era scritto. La mi richiesta di usare la posta elettronica destabilizzava quel sistema. Le altre monache ripetevano con terrore: ma così la posta non è più controllata! Alla fine cedettero e mi fu permesso di usare l’email”.
In monastero, ad Angela viene data la possibilità di studiare e di passare occasionalmente una giornata all’esterno delle mura. Quando però lei avanza la richiesta di accogliere l’invito di alcuni professori e andare a studiare a Milano la risposta della superiora è secca: ci puoi andare, Angela, ma a patto che tu prima vada in psicoterapia, perché non si tratta di un desiderio normale”. La superiora, la badessa. Nei conventi la sua autorità è assoluta. La venerazione affettiva che le monache nutrono per lei, suggerisce Angela, è paragonabile a quella delle bambine per una madre. O a quella, talvolta ossessiva, nutrita per la Madonna. Le monache sono eterne fanciulle, la superiora è l’ape regina, la sovrana indiscussa, colei che tutto decide nella vita delle sue subalterne.
Una vita non allegra quella che si conduce nei monasteri femminili oggi, segnata dalle malattie e dalla morti continue. Quando Angela arrivò nel suo monastero friulano, vent’anni fa, le sue consorelle erano circa trenta. Quasi tutte anziane, necessitanti di quotidiana assistenza. Sono morte quasi tutte negli anni successivi, in uno stillicidio doloroso. “La prima volta che vidi il corpo morto di una sorella fu durissima – confessa Angela – ma mi dovetti abituare”. E a nulla valeva, per liberare Angela dalla sua angoscia, la liturgia festosa, quasi pasquale, che seguiva la morte di ogni monaca, condotta all’insegna del sospirato ricongiungimento con lo sposo e della fine della vita terrena come occasione di liberazione.
Quello della morte non è certo un evento raro nei conventi, se si pensa all’altissima età media delle monache e al fatto che più dei quattro quinti di quelle strutture non vedono vocazioni da decenni e si avviano ad una fine istituzionale certa e nemmeno troppo lontana. Nel 1960 c’erano in Italia poco meno di tredicimila monache e quasi mille novizie, divenute circa ottomila e trecento nel 1990. Nel 2013, il numero si è ancora notevolmente assottigliato superando di poco le cinquemila unità, con solo 146 novizie.
Non è felice nemmeno la vita affettiva dietro quelle mura. “Mi sono mancati gli uomini – dice Angela – e tra le sorelle si instaurava molto spesso una forma di dipendenza affettiva ai limiti della morbosità”. Una patologia che mi sembra il segno evidente di un’omosessualità vissuta in forma distorta e non serena. “Nel mondo cattolico – dice ancora Angela – l’avversione per l’omosessualità è ancora fortissima. In particolare per quella femminile, pensata come una forma di gravissimo tradimento dell’amore per Cristo e quindi di negazione della vocazione”.
E poi ci sono i preti che dovrebbero formare le monache e che spesso sono di una qualità disastrosa. “Mi si spezza il cuore a dirlo – prosegue Angela – ma certe omelie sono stupri a cielo aperto, recitate da persone che non si preparano, che non sanno cosa dire, che riempiono i venti minuti dell’omelia di parole vaghe. E noi donne, spesso più colte e preparate di loro, dobbiamo ascoltare i pazzi di turno, senza neanche poter uscire”.
Il monachesimo femminile è l’espressione di un mondo che non esiste più. Un mondo nel quale le donne potevano trovare un’alternativa a una vita matrimoniale molto spesso infelice e segnata dalla miseria, dalle violenze coniugali e dalla cura di una teoria infinita di pargoli. Un mondo nel quale il convento diveniva un luogo di cura delle donne, dove anche quelle tristemente maritate potevano ricevere, al di là della grata, il conforto e l’incoraggiamento di una monaca. O anche una preghiera per i propri defunti. Oggi molti di noi, pur continuando a credere in Dio o in qualcosa di simile, di tutto questo sembrano non aver più bisogno.
I segni di questa trasformazione sono innumerevoli. Un amico cattolico mi ha raccontato di recente di essere entrato in una libreria di Strasburgo e di avervi trovato uno scaffale di “religione” smunto e popolato solo di libri su Papa Francesco. In compenso quello accanto, dedicato alla “spiritualità”, era ricolmo di volumi su ogni genere di meditazione e di buddismo. Così come fornitissimo era quello più a destra dedicato all’esoterismo. “Venivo da una settimana passata in Belgio, un tempo terra cattolicissima – proseguiva il suo racconto il mio amico – Nella cattedrale di Gand alla messa principale della domenica non eravamo più di venti. E non c’era nemmeno un giovane. L’immagine di quelle navate deserte è quella della fine di un’epoca”. Un’epoca, aggiungo io, fatta di badesse, regole e discipline varie che è impensabile voler ricostruire. E che non vale certo la pena di rimpiangere.
Marco Marzano, il Fatto Quotidiano 20/9/2015