Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 20 Domenica calendario

BONATTI, CITTADINO DEL BIANCO ESPLORATORE DELL’IMPOSSIBILE

L’ignoto e l’impossibile. Parole chiave per Walter Bonatti, alpinista, esploratore che le interpretava. Ruvido nella parole «perché così è la verità», indicava con loro nascita e morte dell’alpinismo. «Senza non c’è avventura. L’alpinismo muore quando invece di affrontare l’impossibile lo addomestica, come oggi», diceva. Il più raffinato conoscitore di geometrie verticali e il più grande alpinista per metodo, intuito e ricerca di vie, se non per tecnica o velocità, aveva come vita l’avventura, e come casa il Monte Bianco. «E’ il simbolo d’Europa, dell’incontro dei popoli» diceva nel 2010 a Punta Helbronner. Ignorava la querelle sui confini. Era sulla piattaforma panoramica dell’ultima stazione della funivia per ricevere commosso dai sindaci di Courmayeur e Chamonix la pergamena che lo faceva primo e unico «cittadino del Monte Bianco». Non saliva lassù da 30 anni. Di solito s’infilava da solo su ghiaccio e granito del Frêney, nei luoghi del tragico tentativo al Pilone centrale nel 1961. Ne parla in un libro introvabile, Montagne di una vita, che ora ricompare edito da Rizzoli in veste arricchita da foto e appunti delle conferenze di Walter. Copertina rossa, elegante, con all’estrema destra l’alpinista sotto un casco candido e tondo, impegnato su uno spigolo di granito, venata d’arancio e grigio-azzurro.
IMPRESE E POLEMICHE
A quattro anni dalla morte di Bonatti le 400 pagine fanno rivivere l’emozione del racconto e quella delle immagini che l’alpinista correlava con didascalie e appunti per il pubblico. È facile ritrovarsi nelle imprese dense di polemica (è durata 50 anni) come il K2, o di avventura verticale impensabile (la solitaria al Petit Dru, la prima scalata alla Est del Grand Capucin), nell’addio all’alpinismo estremo con la Nord del Cervino in solitaria, nell’insuccesso al Cerro Torre con Carlo Maurio al loro successo al Gasherbrum IV; più difficile ricordare quel percorso del 1984 al Frêney «nella magia del Bianco». Dal canalino dell’Innominata Bonatti scende sul ghiacciaio. Scrive: «Non v’è ghiacciaio sul lato Sud del Bianco che appaia più travagliato di questo». Ancora: «La rapidità è la sola difesa per chi si appresti ad attraversarlo». E Bonatti corre. Restituisce così quell’affanno dai piedi sicuri «sull’ammasso scricchiolante di dorsi ispidi, di spire scagliose, detritiche, di biechi inghiottitoi pronti a ricevere tutto ciò che crolla convogliandolo fin giù nelle viscere della montagna».
Non c’è impresa. L’alpinista calca la sua montagna per ritrovarsi, respirare gli anni dell’impossibile. Gli era accaduto di ritorno dal K2, quando, ignorato da Compagnoni e Lacedelli, aveva rischiato la vita per una notte trascorsa in una buca di neve a 8.000 metri. Era salito solo nelle braccia selvagge del Frêney per riprendersi identità. E riemergono dalle pagine e dalle foto usate in conferenza (offrono una sorta di percorso parallelo) le grandi salite sul Bianco: la Nord delle Grandes Jorasses d’inverno, con Cosimo Zappelli, compagno di parecchie scalate che in quel gelo e negli abissi della Walker ha un problema in più, un feroce mal di denti. Ma la rinuncia era impossibile: troppi alpinisti avevano gli occhi su quel rovello di parete, lo sperone che fu scalato d’estate per la prima volta dalla cordata di Riccardo Cassin, nel 1938. Ma un’altra Nord, meno celebrata, riaccende la memoria degli anni in cui Bonatti sorprendeva il mondo dell’alpinismo, quella del Grand Pilier d’Angle. È il contrafforte di granito che regge la testa del Monte Bianco, dopo la lunga cresta di Peuterey. Descrizione di Bonatti: «La più grande massa rocciosa che si affaccia sul bacino della Brenva». Ancora: «La sua forma ricorda curiosamente la chiglia rovesciata di una nave».
DIFFICOLTÀ E PERICOLO
Bonatti aprirà tre grandi itinerari e in Montagne di una vita descrive la salita alla Nord, parete verticale di granito disegnata dal gelo tra due ghiacciai pensili: difficoltà e pericolo. Mille metri da salire «dentro un imbuto gigantesco, cupo e freddo di luci filtrate, da dare angoscia». Nel 1961 Bonatti è al colle Moore, di fronte alla grande parete. Condizioni ottimali, eppure rinuncia. Per l’orrore. È notte, il Pilier gli appare «un’assurda lavagna di mille metri». Tornerà nel 1962 quando Zappelli resisterà al crollo di una lastra di ghiaccio e lui sarà sfiorato da una valanga. In vetta alle 18,05 del 22 giugno. Alba in cima al Bianco.
Enrico Martinet, La Stampa 20/9/2015