Anna Bandettini, la Repubblica 20/9/2015, 20 settembre 2015
GABRIELE LAVIA
È stato Edipo, è stato Macbeth, soprattutto è stato Amleto (“oltre settecento volte, come fare un incontro di pugilato con Cassius Clay”) e ora sarà Galileo (“ma non sono io che voglio farlo, è lui che vuole essere fatto”). A settantré anni, jeans, maglietta e non un capello bianco ne dimostra cinquanta: “Dormo poco e lavoro molto. E poi mi muovo, durante le prove salgo e scendo continuamente dal palco. È che preferisco sempre stare in fondo alla platea: quando faccio la regia per non vedere le porcherie, e quando sono un semplice spettatore perché non voglio guardare in faccia gli attori. Io voglio vedere Otello, voglio vedere Ofelia”
FIRENZE
Per fortuna è un pignolo. «Pignolo è poco. Sono malato. Non mi si può sopportare». Anche l’occasione di questo incontro sembra preparata con una regia ad arte. «Appuntamento al Teatro La Pergola di Firenze, il più antico teatro all’italiana del mondo», dice Gabriele Lavia con l’orgoglio del neo-direttore artistico. E la prima immagine è d’effetto: platea vuota, Lavia seduto in una poltrona delle ultime file, nella semioscurità, assorto, lo sguardo rivolto verso il palcoscenico. «È guardando il boccascena che mi vengono le idee», confesserà. Poi si va in camerino. Non uno qualunque. «Lo volle qui, vicino al palcoscenico, Eleonora Duse per la prima di Rosmersholm.
E glielo fecero. Ecco la lapide: “Il 5 dicembre 1906 Eleonora Duse e Gordon Craig qui univano nel nome di Henrik Ibsen la loro arte e il loro genio”. Qualche vibrazione di quei genii sento che è rimasta», sussurra prendendo posto davanti allo specchio dove la sera si prepara prima di andare in scena. Sul tavolo, in bella mostra, ricordi e ossessioni di una vita: una foto della nonna, quelle dei figli, i quadernetti con appunti di ricerche e studi, i carillon di varie fogge. «Quanti me ne hanno rubati, c’è stato un periodo che mettevo carillon in tutti i miei spettacoli».
Come faccia Gabriele Lavia a opporsi agli anni con tanta freschezza è un segreto. Ne compirà tra poco, il 10 ottobre,settantatre: non ha un capello bianco, niente pancia, in jeans e maglietta pare un cinquantenne. E poi è un fiume di parole, mescola energia a attimi di spaesamento, timidezza a frenesia, vitalità a nichilismo. «Dormo poco, lavoro molto e quando preparo uno spettacolo, come adesso, non c’è sosta. Ma ora l’età comincio a sentirla. Fare una regia per me vuol dire andare continuamente avanti e indietro dalla platea al palcoscenico, perché per seguire quello che fanno gli attori preferisco stare in fondo, così non vedo le porcherie. Anche se vado a assistere a uno spettacolo mi faccio mettere in ultima fila. Non voglio vedere le facce degli attori. Voglio vedere Ofelia, voglio vedere Amleto...». Umberto Orsini, l’amico più caro, quasi ogni mattina si incontrano al bar Faustini nella zona di Monteverde a Roma («un paesino»), dice di aver contato fino a milleduecento «su e giù» di Lavia dal palcoscenico fino al fondo della platea in una normale giornata di prove, e la sera magari deve anche recitare. «Il teatro è la mia vita». Lo dice come fosse una maledizione. «Lo è, perché noi non decidiamo nulla. È la vita che decide. Io mi sono incastrato nel teatro, senza essere più capace di andarmene».
Il teatro gli ha dato soddisfazioni, il teatro lo ha fatto innamorare, il teatro lo arricchisce di stimoli, pensieri, lo ha reso famoso. Negli anni Ottanta, quando in scena si vedevano lavori distaccati, riflessivi, lui da regista faceva spettacoli roventi per irrequietezza e voglia di sensazione. Da attore imponeva ai personaggi forza e intatta convinzione, e anche se una parte della critica arricciava il naso, il pubblico faceva le code, trentamila abbonati solo all’Eliseo di Roma durante la sua direzione: Otello, Masnadieri, Il principe di Homburg, Don Carlos, e poi Misura per misura hanno fatto un pezzo di storia teatrale. «Ero stanco di quel teatro in punta di penna, tutto “biri biri biri”... La gente si rompeva le palle e io mi dicevo non può essere questo il teatro. Era morto, gli ho dato una scossa. E sì che i miei spettacoli erano lunghi. Feci un Amleto
di sei ore. Mi ricordo che al Manzoni di Milano Berlusconi veniva una sera sì e una no, finché una volta mi disse: “Scusi Lavia, ma io lo porterei a cinque”. Fu un consiglio utile».
Gabriele Lavia è un milanese per sbaglio. «I miei erano siciliani. Mio padre lavorava al Banco di Sicilia e per un periodo lavorò a Milano, dove nacqui. Ma quando cominciarono i bombardamenti tornammo in Sicilia. Ancora oggi è Catania quella che sento come la mia città. Eravamo tre figli, ma il cocco ero io. Specie di mia nonna, nipote di Don Josè Martinez de la Rosa, il più grande autore drammatico romantico di Spagna. Mi leggeva testi teatrali che non capivo, L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello in siciliano che anche dopo, nel ricordo, mi piaceva di più fatto da mia nonna che da Randone. Con mia madre erano loro le fondamenta della casa. Nonostante mio padre fosse un colosso di due metri, era mia mamma a tenere in mano tutto, una donna piccola ma con una forza assoluta. Mi ha sempre sostenuto quando andai in Accademia a Roma. Le donne guardano le cose con distacco. Mi diceva “Bravo Gabriellino” e mia nonna mi allungava 500 lire. Mio padre, invece, non fu felice della mia scelta. Ma pensò che ero “arrivato” quando su Bolero Teletutto per via di uno sceneggiato fecero un servizio su di me. Distribuì copie a tutto il condominio». E Lavia con i suoi figli? Due dei tre, Lucia e Lorenzo, sono attori: «Non hanno ancora capito in che guaio si sono cacciati. Come perché? Non è una vita semplice questa. Mi commuovono per la passione che hanno. E poi sì, hanno un rapporto affettuoso con me». Più complicato, intermittente, quello con le donne. «Ho tradito, ho sofferto, amato molto. Se non vengo tradito resto legato».
Da qualche mese si è trasferito a Firenze, per via della direzione al Teatro Nazionale della Toscana. Alla Biblioteca nazionale è già un habitué.«Ho scovato i quaderni di Galileo, Petrarca, Macchiavelli, una lettera di Ugo Foscolo a una certa signora Albrizzi di Venezia per un contatto tipico foscoliano che credo sia anche andato a buon fine». Il tempo libero è preso dallo studio vero. «Tutti i giorni. E se non lo faccio sto male, devo recuperare. No, non studio teatro, ma studio per fare teatro. La mia passione è la filosofia». Adesso sta leggendo Gilles Deleuze Differenza e ripetizione, «che c’entra col teatro che è ripetizione», dice inerpicandosi verso sue filosofie: «Nella possibilità di ripetizione c’è l’eterno, una eternità che è una costante morte e una costante rinascita. Ma è qui che nascono i problemi, perché morire è facile ma rinascere no. Rifare con la stessa emozione la stessa vita è la cosa più difficile. Viene in soccorso quella cosa considerata a volte in maniera negativa che è la tradizione. La tradizione vuol dire trasferire dalla nostra origine al nostro presente, guardare l’anteriore, cioè davanti. Noi possiamo guardare solo quello che è già stato. È il futuro che sta dietro le spalle, è posteriore». Si sente un maestro? «No, mi imbarazza molto quando mi chiamano così, anche se potrei esserlo perché saprei insegnare, per la semplice ragione che ho fatto tanti ruoli difficili. Ho recitato per oltre settecento volte l’Amleto, che è come fare un incontro di pugilato con Cassius Clay, Edipo, Macbeth... Non impari a suonare il piano con Il cielo in una stanza ma con Liszt, Beethoven, non ci sono scorciatoie. È la scuola di oggi che crede di farti conoscere la Divina commedia con un canto o L’Odissea solo col primo capitolo. Io accetto di fare cose difficili perché mi voglio divertire». Non per niente sta lavorando a Vita di Galileo di Brecht: debutterà il 6 ottobre al Carignano di Torino e sarà il grande spettacolo di questo inizio di stagione, coprodotto tra Firenze e Torino, ventisei attori, più i musicisti, più i tecnici, ottanta personaggi. Un testo che fa paura, tanto più dopo la leggendaria regia di Giorgio Strehler al Piccolo del ‘63. «Lo vidi almeno dodici volte. È lo spettacolo più bello della mia vita, forse quello che mi convinse a fare teatro. Con Tino Buazzelli, il protagonista, divenni amico. E quanto a Strehler, con Orazio Costa, è stato il mio maestro. Aveva una umanità profonda e mascherata, nutriva affetti che non dimenticava. Avremmo dovuto fare insieme ma non aveva risolto il problema dello spettro, perché da materialista dialettico, diceva, non poteva accettare un fantasma. Perché io faccio questo Brecht? Perché un testo che dice “la verità è figlia del suo tempo, la verità non è mai figlia dell’autorità, la verità è figlia della libertà” non dovremmo farlo? Certo che dobbiamo. Non sono io che voglio fare il Galileo. È Galileo che vuole essere fatto».
Anna Bandettini, la Repubblica 20/9/2015