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 2015  settembre 20 Domenica calendario

QUEL MARCHIO MAFIA IN VERSIONE CATTIVO GUSTO

Povero piccolo, affiliato a sua insaputa. Antonio Felice Rapisarda, battezzato mafioso dal papà a Paternò, provincia di Catania, Sicilia. Un predestinato. Con questi boss da strapazzo, continuando di questo passo, avremo anche cannoli Cosa Nostra, cassate Cosa Nostra, arancine e sarde a beccafico Cosa Nostra. Tutto “firmato”, la linea della casa o della Cosa, esibizionismi che a loro – quei galantuomini – fanno più danno (ma come non se ne rendono conto, come si può essere più coglioni?) che un mandato di cattura o una misura patrimoniale.
Ma sono ”tasci”, pacchiani, questi mafiosi vecchio stampo che non solo non si mimetizzano come quelli veri e più contemporanei ma vantano quarti di nobiltà criminale davanti al mondo intero. Parenti e perdenti. Marchiano loro stessi e condannano al patibolo i loro eredi. Un pomeriggio di tantissimi anni fa, almeno venticinque, ci siamo ritrovati fra gli stucchi e gli specchi dei sontuosi saloni di Villa Igiea – l’albergo palermitano sul mare dell’Arenella restaurato alla fine del XIX secolo dal famoso architetto dell’Art Nouveau Ernesto Basile su commissione della famiglia Florio – con le note de “Il Padrino” che arrivavano fin nel giardino, dove era posteggiata una Rolls Royce color panna dalla quale erano appena scesi marito e moglie. Lei era Vincenzina Marchese (sorella dell’autista di Totò Riina che poi si è pentito), lui Luchino Bagarella, il cognato dello “zio Totò” che momentaneamente per qualche aggiustatina di un processo era ergastolano a piede libero. Viva gli sposi. Poco corleonese come matrimonio, Totò e Ninetta avrebbero preferito sicuramente più discrezione. Ma così è andata. Il Padrino e la sua musica sono irresistibili per alcuni di loro, come quell’assessore regionale siciliano – in governi di centrosinistra e di centrodestra, tanto per farvi capire cos’era e cos’è la politica nei palazzi dell’isola - che sempre su quelle note girava per le vie di Canicattì a fare campagna elettorale. Nome all’anagrafe Vincenzo Lo Giudice, nome riconosciuto da tutti Mangialasagna per la sua voracità in tutti i sensi, amico di boss («Io non faccio parte della chiesa ma i parrini li rispetto») e condannato a svariati anni di carcere per 416 bis. È più forte di loro, sembrano tutti controllati e «strutturati» e poi scivolano sulla buccia di banana. Come Rosalia Messina Denaro, la sorella dell’imprendibile Matteo, “Testa dell’Acqua”, il presunto capo della mafia (scriviamo presunto non per peloso garantismo ma perché crediamo che i veri capimafia della Sicilia oggi siano altri), che fa sposare la figliola alla Cappella Palatina – basilica palermitana a tre navate all’interno del complesso architettonico di Palazzo dei Normanni, chiesa dedicata al santo Pietro Apostolo – e poi scoppia il bordello. Inutile dimostrazione di potere. Chi se lo sarebbe mai aspettato dai “Trapanesi”, i più riservati di tutti, a volte ancora di più dei “Palermitani”, che la materia – mafiosa - la conoscono e se la cantano e se la suonano? Fra gli Anni Cinquanta e Sessanta un trapanese, tale Fazio, che nessuno conosceva (figurarsi se era «attenzionato» dagli sbirri o dai magistrati, che con i boss ci andavano a braccetto) era il capo della Commissione regionale, il governo della Cosa Nostra. Eppure tutti in Sicilia, e in Italia grazie ai reportage di Bernardo Valli e di Indro Montanelli, in quell’epoca sapevano che il boss dei boss della Mafia era un contadino semianalfabeta di Mussomeli, Giuseppe Genco Russo. Era un pezzo grosso della politica – la Democrazia Cristiana – e un pezzo grosso del crimine. Si pavoneggiava come una star, rilasciava interviste, si faceva fotografare dai reporter dell’Ora, quotidiano indipendente della sera, «L’Ora, morti e feriti», «L’Ora, quanti ni cadiru, quanti ni muriru», quanti ne sono caduti, quanti ne sono morti, urlavano gli strilloni agli angoli delle strade di Palermo. E dunque, questo Genco Russo sapete come lo chiamavano dentro Cosa Nostra gli altri uomini d’onore? «Per noi Genco Russo era Gina Lollobrigida», raccontava il pentito Antonino Calderone al giudice Falcone nel gennaio del 1988. Attrice straordinaria, sex symbol di mezzo secolo fa, la Lollo era esuberante e appetitosa, ma nell’immaginario mafioso il vecchio e puzzolente “zù Pe’” risultava tanto popolare che l’accomunavano a lei. Insomma, uno che alla fin fine parlava assai e ostentava troppo.
Mettersi in mostra non paga mai in quel mondo. Prendete i Casamonica di Roma e quell’indecente funerale celebrato ad agosto. Cavalli e cocchieri, i fiori e l’elicottero. Il prefetto Gabrielli ha detto quello che tutti volevamo sentirci dire: «La pagheranno cara ». È così, la pagheranno loro e – indirettamente – tutti quei vampiri della politica di Mafia Capitale. L’hanno fatta grossa. Danneggiamento incalcolabile per le consorterie criminali fra il Campidoglio e Ostia. Alla fine di questo articolo, ci viene in mente un video che un paio di anni fa abbiamo girato per Rep.it con Salvo Palazzolo sui nuovi boss di Palermo. La mafia e il loro mangiare. Anche quella volta ci siamo trovati di fronte a fanfaroni che preferivano ostriche e Monsciandò (Moët et Chandon) piuttosto che un piatto di pasta con le sarde e vino bianco di Salaparuta. Li abbiamo pure visti che si baciavano in bocca quei nuovi boss. Si baciavano in bocca «ma senza lingua».
Attilio Bolzoni, la Repubblica 20/9/2015