Andrea Di Biase, MilanoFinanza 19/9/2015, 19 settembre 2015
CHI SI È FATTO LA BANCA
A Wall Street e nella City è una prassi molto diffusa. Sia in passato che in tempi più recenti si è assistito a casi di top manager che, lasciata la guida della banca o dell’istituzione finanziaria di cui avevano la responsabilità operativa (in qualche occasione anche a seguito di un evento traumatico), hanno deciso di mettersi in proprio, aprendo una propria attività nel settore finanziario e replicando così da imprenditori il successo ottenuto come executive di un grande gruppo.
Emblematico il caso dell’investment banker americano Joseph R. Perella che, dopo essersi affermato nell’allora First Boston nella ruggente Wall Street della prima metà degli anni 80, decise di mettersi assieme a Bruce Wasserstein (il banker scomparso nel 2009 che portò Lazard alla quotazione in borsa) fondando la Wasserstein Perella & Co. Casa d’affari che nel 2000 (quando Perella se ne era già andato a Morgan Stanley) era arrivata al quinto posto nella classifica delle operazioni di M&A in Usa. Ma Perella e Wasserstein non sono gli unici esempi. Di recente è stato l’ex responsabile delle attività di investment banking di Barclays, l’ex Lehman Brothers, Hugh McGee, a fare qualcosa di analogo, facendo ritorno da New York nel nativo Texas per lanciare la sua Intrepid Financial Partners, una banca d’affari specializzata nella consulenza alle società del settore petrolifero.
E in Italia? A Piazza Affari la situazione sembra essere un po’ diversa.
Forse per le dimensioni della piazza finanziaria, non certo paragonabile a New York e Londra, ma anche per una diversa attitudine nei top banker italiani, più propensi ad accettare incarichi in altre istituzioni finanziarie (magari estere), che garantiscono visibilità e alte remunerazioni, sono pochi i casi di manager che hanno reinvestito su se stessi la propria liquidazione. Dei 20 top banker, tra amministratori delegati e direttori generali in uscita dalle principali banche e assicurazioni quotate a Piazza Affari tra il 2005 e il 2015 (non si tiene conto di quelli usciti a seguito di veri o presunti scandali finanziari), solo sei di loro hanno avviato, pur con tempi e modalità profondamente differenti, una propria attività nel settore finanziario. L’antesignano è stato nel 2005 Gerardo Braggiotti, che dopo aver lasciato Lazard, ironia della sorte, proprio per una differente visione della banca d’affari rispetto a Wasserstein, rilevò il controllo di Banca Leonardo, costruendo nel tempo un gruppo internazionale presente non solo nell’investment banking ma anche nel wealth management. Gruppo che oggi, a dieci anni dall’arrivo di Braggiotti, sembra pronto a una nuova trasformazione, visto che l’ex banchiere di Mediobanca e Lazard e i suoi soci (tra cui figura l’Exor degli Agnelli) starebbero valutando l’opportunità di dare un nuovo assetto proprietario all’istituto o addirittura di aprirne il capitale al mercato, attraverso la quotazione in borsa dell’intera Banca Leonardo o di alcune sue branch.
Chi, invece, una banca quotata già ce l’ha è Matteo Arpe. Nel 2007, l’ex amministratore delegato di Capitalia, allora 43enne, invece di puntare sull’ingresso di una grande banca d’affari internazionale, come aveva fatto dopo l’uscita da Mediobanca quando approdò per qualche mese a Lehman Brothers, decise di investire gran parte dei 37,4 milioni di liquidazione ricevuti dall’istituto capitolino, per lanciare il fondo Sator. Con questo veicolo Arpe è riuscito a costruirsi nel tempo una piccola galassia che spazia dalla finanza di Banca Profilo (attiva nel wealth management e nell’advisory) ed Extrabanca (istituto retail rivolto ai cittadini extracomunitari) all’editoria (nel portafoglio del fondo figurano Il Foglio e News 3.0, società cui fa capo il sito di informazione Lettera 43), dall’immobiliare (Aedes e la Sgr Sator Immobiliare) all’industria (99 Technologies, Boccaccini e la internet company specializzata nell’e-commerce Banzai).
Chi il salto dal ruolo di manager a quello di imprenditore l’ha compiuto solo ora è Alessandro Profumo, un altro dei grandi protagonisti del banking made in Italy degli anni 2000. Dopo aver lasciato la presidenza di Mps (carica per la quale non ha voluto compensi), Profumo, che nel 2010 si dimise dalla carica di ad di Unicredit con una liquidazione di 40 milioni, ha investito di tasca propria diventando azionista di Equita, la principale broker house italiana indipendente sul mercato azionario, ormai consolidata anche nell’investment banking. A fine luglio i manager di Equita e Profumo (che ne diventerà presidente accanto all’ad Francesco Perilli) hanno rilevato la maggioranza della società dal fondo Jc Flowers. «Questa partnership», ha spiegato l’ex ad di Unicredit, «si sposa perfettamente con il mio progetto di agire a supporto della media impresa italiana».
Media impresa cui guardano, seppur da punti di vista differenti, l’ex ad delle Generali, Giovanni Perissinotto, e l’ex dg del Banco Popolare, Massimo Minolfi. Quest’ultimo, nel 2010, assieme all’ex ad di Unicredit corporate banking, Gianni Coriani, ha dato vita a FiveSixty, una società di consulenza specializzata nella ristrutturazione del debito delle aziende, ma attiva anche nella consulenza strategica, organizzativa e finanziaria. L’ex ceo del Leone di Trieste ha invece fondato assieme a Stefano Core, ex manager di Telecom e Value Partners, Italian Creation Group, una holding industriale che intende fornire capitali e supporto manageriale alle realtà artigianali e manifatturiere del made in Italy di eccellenza. I primi investimenti hanno riguardato Driade, brand del settore dell’arredamento d’alta gamma, e il 75% dell’azienda friulana Valcucine, leader indiscusso delle cucine di alta gamma made in Italy.
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 19/9/2015