Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 20 Domenica calendario

«HO CREATO UN COMPUTER SI CHIAMA AARON. LUI DISEGNA, IO DIPINGO. È IL DRONE DELL’ARTE

Lo studio di Encinitas, 40 chilometri a nord di San Diego, fa molto cantiere: monitor ultrapiatti, decine di quadri giganteschi. Il suono metallico della stampante. «Abbiamo srotolato le tele per un collezionista, la stanza è ancora sottosopra... Era così piena che per tre giorni non siamo riusciti a chiudere la porta», si giustifica l’autore. Capelli raccolti in un codino, sguardo affilato, accento british , a 87 anni Harold Cohen ironizza sulla possibilità di continuare a produrre opere d’arte anche quando non ci sarà più. Complice il sodalizio con Aaron, il software sviluppato nei primi anni Settanta che, da entità autonoma (era questo l’obiettivo iniziale) si è trasformato in «collaboratore». Nel tempo il programma si è quasi sostituito all’ideatore-mentore, al punto di realizzare ritratti o paesaggi realistici senza controllo esterno.
Lasciare la pittura figurativa per l’informatica, in una fase pionieristica, non deve essere stato facile: che cosa l’ha spinta?
«L’insoddisfazione. Molto prima di scoprire il computer avevo questa idea curiosa di fare arte d’avanguardia. Un’idea che è diventata molto chiara alla Biennale di Venezia del ’66. Invece di affannarmi per una singola tela, ho pensato che fosse più interessante riflettere sulle regole della rappresentazione per provare a superarle».
Due anni dopo era all’Università della California San Diego.
«A Londra cominciavo ad avere un discreto successo, proprio per questo ho deciso di partire. Il problema con Londra è che, se fai parte della scena, continuerai a farne parte per sempre. Sentivo di essermi allontanato dalle questioni fondamentali, così mi sono trasferito in California. Dovevo restarci per un anno, non me ne sono più andato».
Chi l’introdusse alla programmazione?
«Mi presentarono a Jef Raskin (autore del libro The Human Interface , negli anni Settanta fu lui ad avviare il progetto Macintosh per Apple, ndr ) e dopo quell’incontro il mio cervello ha iniziato a lavorare in modo diverso, lo sentivo espandersi. All’epoca era tutto molto avventuroso, il computer era per i fisici. Una volta ricordo di aver sentito un consulente informatico dire a un collega: “Non posso venire a pranzo, ho un appuntamento con un idiota del dipartimento di arte”. Entrato nel suo ufficio, gli ho detto: “Come fai a sapere che sono un idiota?”».
Nel ’73 la invitarono come borsista al laboratorio di Intelligenza artificiale di Stanford: cosa ricorda dell’esperienza?
«Facevamo le cose più strane senza che nessuno ci prendesse sul serio. Dominava l’idea che l’arte non avesse niente a che fare con l’informatica. Ma è stato proprio allora che ho iniziato a capire che il computer non è come la mente. Puoi scrivere un programma che richiede un certo grado di esperienza ma non significa che la macchina riesca a fare quello che fanno gli esseri umani. Sono stato associato all’intelligenza artificiale, malgrado io non sia mai stato parte di quella cultura. L’accostamento tiene solo nella misura in cui ho permesso al computer di raggiungere dei risultati che implicano una certa dose d’intelligenza».
Aaron potrà mai sostituirsi a lei?
«Il programma è in grado di ricordare, controllare, registrare ciò che ha fatto in precedenza, ma con il colore è tutta un’altra storia. L’uomo ha un sistema di feedback molto complesso, una grande esperienza dei materiali. Il computer no. Sono due sistemi paralleli, che potrebbero anche arrivare agli stessi risultati, ma che non si somigliano affatto».
Come si è evoluto il programma?
«L’ho chiamato Aaron pensando che sarebbe stato il primo di una serie: se non avesse funzionato, avrei sempre potuto inventare altri software... In realtà, non ho mai smesso di lavorarci. Per i primi dieci anni ho assecondato l’idea di poter modellare qualcosa di molto simile al sistema cognitivo umano. Volevo rendere il programma sempre più sofisticato, poi ho capito che i fondamenti primitivi della nostra conoscenza sono piuttosto semplici. Il punto è che si sviluppano nella realtà, non in un contesto astratto».
Com’è riuscito a superare queste difficoltà?
«Ho pensato che l’unico modo fosse dire al computer qualcosa del mondo reale. Ho scritto un algoritmo del colore, ho trasferito ad Aaron informazioni sempre più dettagliate sulla conoscenza della figura umana. Ed è riuscito a realizzare ritratti incantevoli di persone immaginate. Ricordo che alla mostra al Computer Museum di Boston nel ’95 si presentò un uomo venuto apposta da Seattle. Era convinto di essere lui il personaggio rappresentato in uno dei quadri. Lo aveva visto in un servizio alla tv e non riusciva a credere che l’avesse dipinto una macchina».
Dalla fine degli anni Novanta è tornato a un’immagine più elementare, simile ai lavori degli esordi: perché?
«Quando ho sviluppato l’algoritmo del colore i risultati erano entusiasmanti, ma avevo la strana sensazione di essere escluso. Mi sono chiesto se volessi davvero starmene seduto a guardare quello che faceva il computer. La risposta è stata molto emotiva: non ero pronto a rinunciare alla mia parte, così ho pensato a una collaborazione».
Adesso Aaron disegna e Cohen dipinge, grazie a un software che gli consente di colorare con le dita direttamente sullo schermo. Come immagina il futuro?
«Penso a nuova entità collaborativa programma-programmatore. Aaron già guida la tendenza. È un po’ quanto succede con i droni: per controllarli servono due persone a tempo pieno, una tecnologia che richiede molta interazione da parte dell’uomo».