Lucia Bellaspiga, Avvenire 20/9/2015, 20 settembre 2015
PIANETA ALZHEIMER. VIAGGIO NEL MONDO RUBAMEMORIA
Si celebra domani la XXII Giornata mondiale dell’Alzheimer, la forma più diffusa di demenza, con un milione e 241mila malati in Italia e quasi 47 milioni in tutto il pianeta. Stime destinate a raddoppiare ogni due anni, con un malato in più ogni 3 secondi. Il processo degenerativo, che può colpire anche in giovane età, provoca il declino progressivo delle funzioni cognitive e il deterioramento della personalità. Una patologia tuttora sconosciuta, sulla quale sono in corso molti studi relativi all’origine ma anche alla cura e al grande problema di come assistere persone ad oggi lasciate in carico alle famiglie. Si calcola che dal 1974 oltre cento anziani italiani con Alzheimer si siano perduti e non siano più stati rintracciati, e questo è solo uno degli ’effetti collaterali’. Così domani alle 17 verrà siglato alViminale un protocollo tra i ministeri di Interni, Salute eWelfare e il Commissario straordinario del governo per le persone scomparse, per dotare i malati di un Gps, in collaborazione con le forze dell’ordine.
Intanto il Policlinico Gemelli annuncia un nuovo ’Percorso clinico assistenziale’, inserito entro l’Unità di Clinica della Memoria e nato da un’iniziativa congiunta della Geriatria e della Neurologia. Prevede un sistema di assistenza integrato in grado di fornire diagnosi e terapia in tempi rapidi, grazie alle tecnologie più avanzate, e offrire sostegno ai familiari. (L.B.)
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L’Alzheimer è una macchina del tempo: ti schiaccia nell’abitacolo di un eterno presente, ma nel giro di un secondo può scaraventarti indietro a quando eri bambino e al contempo spingerti avanti fino a farti chiedere alla donna che hai accanto da una vita: «Ma tu chi sei? Perché non ci sposiamo?».
Vivide e sferzanti, le metafore affollano le pagine di Quando andiamo a casa? (editrice Bur), il libro che il giornalista Michele Farina ha dedicato a sua madre, morta nel 2004, e ai dieci anni che il morbo ha impiegato per annientarla. La morte per Alzheimer è infatti una slow motion way, (il rallentatore cinematografico, altra metafora), che in un certo qual modo avvantaggia i familiari «rispetto a chi se ne va con un crac, senza un saluto», ma che condanna l’intera famiglia: quando il malato alla fine si spegne «era già morto diverse volte, chi resta ha già sofferto molteplici scomparse».
L’autore mette insieme, più per se stesso che per il lettore, i pezzi di quel lento smantellamento, che dieci anni fa provava a rimuovere ma oggi ha sentito il bisogno di ricostruire. Come quel tassello all’inizio della malattia, nel 1994, la domenica in cui a Imola morì Ayrton Senna: «La televisione accesa sul Gran Premio, e mia madre sulla soglia della cucina che ripete disperata: “Quando andiamo a casa?”. “Ci siamo già, mamma”. “Andiamo a casa”. “Questa è la nostra casa” rispondo io con voce da implorante a impaziente. “Dietro a te c’è la cucina. Ti ricordi...?”. Nella sua memoria è tutto bruciato: la cucina, la nostra infanzia, l’appartamento dove abbiamo vissuto trent’anni: “Portami a casa, per favore”»... È il titolo del libro, la preghiera comune a tutti i malati di Alzheimer, la condanna di non riconoscere più la propria casa e volervi fare ritorno.
Eppure non è un libro triste, quello di Farina, è un reportage avvincente durato due anni, è l’incontro con decine di altre storie simili alla sua, che è andato a cercare per tutta Italia e non solo, sulle tracce di sua madre ormai perduta. E infatti la ritrova in mille volti, negli stessi sguardi smarriti, nelle domande senza senso ma anche nei guizzi di lucidità inaspettati, e persino nelle risate. Perché ci sono anche quelle, in casa Alzheimer, purché attorno al malato si crei un’atmosfera leggera, «uno spazio dementia friendly però naturale, non affettato», scrive Farina. Il contrario di ciò che avviene quasi sempre nei nostri centri diurni (che oggi almeno esistono, a differenza degli anni ’90), ma che assomigliano sempre troppo a degli ospedali, ’inseriti nelle Rsa come anticamere fidelizzanti del ricovero definitivo’. Ben diverso ad esempio il centro diurno olandese in cui si balla, «non a caso chiamato Il club».
La via crucis di sua madre inizia presto, a 64 anni, e non salta una stazione. Le frustate arrivano da chi meno dovrebbe infliggerle, come il neurologo dell’Inps di Monza, che ha il compito ’burocratico’ di stabilire la diagnosi: «Per verificare se mia madre sia già incontinente (un effetto ineludibile del procedere della malattia), le chiede brusco: “Signora, se la fa addosso?”. Immagino l’imbarazzo, la mortificazione, lei che per l’occasione era andata dal parrucchiere a farsi la piega». Pagine struggenti, in cui a tratti si piange e a tratti si sorride, ma sempre ci si sorprende: l’arrestarsi del cervello affetto da demenza ’fa pensare allo spegnimento dell’altoforno dell’acciaieria di Piombino: ci vuole tempo’. La malattia «svuota con il cucchiaino dell’uovo alla coque, lasciando il malato senza tuorlo ma con un guscio privo di crepe». E se la mamma, ancora bella ed elegante alla cena di gala, improvvisamente getta gli astanti nell’imbarazzo confondendo forchetta e cucchiaio e sporcandosi tutta, ridere è ancora possibile, basta cambiare le aspettative e adeguarsi alla sua nuova prospettiva: «In fondo cos’è un coltello? Una penna per scrivere col sugo».
Struggenti anche i tentativi di dare risposte a una malattia che a tutt’oggi pone troppe domande. Ad esempio le finte fermate di autobus che in Germania si trovano all’ingresso delle case di riposo più moderne: gli ospiti che tentano la “fuga” (la «deambulazione compulsiva» è un classico, sei su dieci malati di Alzheimer si perdono almeno una volta) finiscono per sedersi e aspettare un bus che non arriverà. O il Treno della memoria, intuizione poetica del Camelot di Gallarate: una stanza arredata come fosse una stazione, con orari di partenze ed arrivi, Biglietto alla mano, ci si accomoda in uno scompartimento con cappelliere e valigie. Dal finto finestrino scorrono filmati di vecchi paesaggi. «In questo modo sono andato da Milano al lago di Como”, sorride Farina, compagno di viaggio di due anziane ricoverate. «L’Africa! Che bella», esclama una. «Faremo in tempo a tornare indietro?», si preoccupa l’altra. A spegnere l’altoforno di oltre un milione di italiani è un morbo dal nome tedesco noto a tutti eppure ancora così sconosciuto. Nel mondo colpisce 47 milioni di persone, fra trent’anni saranno 131 milioni. È il «lusso della contemporaneità chiamato invecchiamento».