Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 21 Lunedì calendario

LO ZIO SAM COSTRETTO A SPEGNERE LE TRIVELLE

Fra il North Dakota e il Texas in America negli ultimi anni è fiorita l’equivalente della Silicon Valley per il petrolio. Un’industria tutta nuova con gli ingegneri che fanno a gara per inventare tecnologie sempre più avanzate per cavare l’oro nero dalle rocce; e con storie di successo come quella di Eog resources, chiamata non a caso «la Apple del petrolio».
Ora, però, il crollo del prezzo del greggio ha inflitto un duro colpo al boom. Dall’inizio dell’anno sono già fallite sedici aziende petrolifere americane secondo l’agenzia di rating Standard Poor’s. Il crac più grande finora è stato quello di Samson resources, che nel 2011 era stata comprata per 7,2 miliardi di dollari da un consorzio di investitori guidato dalla società di private equity Kkr. Quotata a Wall Street, la settimana scorsa scorso ha chiesto l’ok per una ristrutturazione con le regole della bancarotta (Chapter 11).
Ma parecchi altri default sono attesi nelle prossime settimane, mentre le banche stanno riducendo le linee di credito agli operatori del settore e questi ultimi non riescono a rinnovare i contratti derivati per coprirsi (hedge) dal rischio di ulteriori cadute dei prezzi.
È una crisi causata, paradossalmente, dal troppo successo di questo nuovo business. Il boom era iniziato oltre dieci anni fa, con la scoperta e lo sfruttamento di grandi giacimenti di gas naturale grazie all’uso del fracking o fratturazione idraulica: una tecnologia con cui, dopo aver trivellato il sottosuolo, si pompa acqua, sabbia e sostanze chimiche negli strati rocciosi per aprire fratture che liberano gli idrocarburi contenuti nelle rocce.
Fino al 2007-2008 si credeva che il fracking funzionasse solo per estrarre gas. Ma poi proprio Eog ha applicato gli stessi principi per scavare pozzi di petrolio: ha aperto il primo nel 2009 in Texas, emulata molto più a nord da un’altra azienda, la Brigham exploration, che in North Dakota ha scoperto i giacimenti di Bakken.
È partita così la nuova corsa all’oro nero, che ha più che raddoppiare la produzione petrolifera americana rispetto ai 5,2 milioni di barili al giorno nel 2005. È un fenomeno che, insieme al calo della domanda dalla Cina e alla decisione dell’Arabia saudita di non tagliare la propria produzione, spiega il crollo del prezzo del greggio.
Il problema è che al livello attuale, attorno a 50 dollari il barile, circa metà dei produttori americani stanno perdendo soldi. Per questo molti hanno smesso di pompare e infatti la produzione ha cominciato a calare: a giugno (ultimo dato disponibile) la produzione è scesa.
Solo le compagnie più solide possono sopravvivere se le quotazioni resteranno così basse a lungo. Fra le 40 aziende petrolifere seguite dagli analisti di Wells Fargo securities research, per esempio, solo due riusciranno quest’anno ad autofinanziarsi con il cash generato dalle loro attività.
Eog risponde alla sfida continuando ad affinare la tecnologia del fracking combinata con la trivellazione orizzontale per abbattere i costi di produzione: i nuovi pozzi nell’area Eagle Ford in Texas costano oggi 5,5 milioni di dollari l’uno (per scavarli e iniziare a pompare) contro i 6,1 milioni necessari solo un anno fa.
Mentre in North Dakota il concorrente Whiting petroleum ha annunciato di poter aumentare la produzione del 40-50% spendendo solo il 15% in più. Per gli operatori più piccoli e meno efficienti si annuncia invece una lunga e dolorosa fase di ristrutturazione, con la perdita di migliaia di posti di lavoro.