Francesco Verderami, Corriere della Sera 19/9/2015, 19 settembre 2015
IL CONFESSIONALE DEI FRANCHI TIRATORI SULLA RIFORMA
Più che i «trabocchetti» della minoranza interna, il leader del Pd deve forse temere gli agguati dei franchi tiratori e le occasioni che saranno loro offerte nel gioco dell’Aula a Palazzo Madama. Solo a sentire pronunciare il nome di Grasso, Renzi cambiava sempre tono di voce ed espressione in questi giorni: «La sua elezione è stato uno dei capolavori di Bersani».
Non è chiaro se fosse un’ironica battuta o una reverente constatazione, di certo si è messo a urlare quando gli hanno fatto sapere che il presidente del Senato non avrebbe sciolto la riserva sull’ammissibilità degli emendamenti prima di giovedì della prossima settimana: «Come giovedì...». Gli è stato spiegato che i termini per la presentazione delle proposte di modifica scadranno mercoledì, che intanto bisognerà verificarli uno per uno, poi trascriverli, indi numerarli. E siccome tutti gli uomini del premier sono cresciuti con i cartoon dei Flintstones — gli Antenati — la scena ai loro occhi ha ricordato «Wilma dammi la clava».
Ogni emendamento all’articolo due delle riforme è vissuto come una minaccia da Renzi, che non vuole ritocchi per evitare ulteriori passaggi in Parlamento. E non c’è dubbio che un’intesa nel Pd indurrebbe Grasso ad assecondare la mediazione, cassando le proposte di modifica che stanno fuori dall’accordo. Questo è l’auspicio, su cui metterebbe una buona parola anche il Colle. Ma il premier, sospettoso di natura, teme che le insidie a Palazzo Madama invece di diminuire possano aumentare, e che alle opposizioni — private degli emendamenti per lui più pericolosi — vengano poi compensate con una messe di votazioni a scrutinio segreto.
Nei pressi del confessionale laico ci sarebbe la fila di senatori di maggioranza tentati dal dire quante volte ha peccato Renzi: frustrazioni personali e valutazioni politiche potrebbero scaricarsi nel voto e fare massa critica. A Palazzo Chigi è stato calcolato che la «maggioranza allargata» — comprendente anche i transfughi forzisti disposti a sostenere le riforme — arriverebbe a 180 senatori. Tuttavia, per capire se e come questa variegata compagnia reggerà nel lungo percorso che l’attende, bisognerà aspettare i test a scrutinio segreto. Già il primo articolo della riforma consentirà — a chi vuole farsi sentire — di mandare un avvertimento al premier. Come dice Verdini, «in Parlamento si corrono sempre dei rischi in queste occasioni».
Ma è proprio in queste votazioni che si saggia la forza e lo stato di salute di un governo. E la prima prova sarà la più importante, perché consentirà di valutare le dimensioni del fenomeno e la sua proiezione nei passaggi seguenti. Una soglia fisiologica di franchi tiratori viene messa nel conto, se però all’esordio la pattuglia dovesse rivelarsi superiore alle venti unità, nell’Aula l’istinto di emulazione potrebbe poi prendere il sopravvento. E qualche preoccupazione si avverte, se è vero che Casini — un passato da presidente della Camera — ha impiegato le serate a catechizzare gli «amici»: «Ragassi, il governo deve durare e noi dobbiamo dimostrarci uniti. Anche perché, secondo me, la minoranza del Pd non si rompe».
«La minoranza del Pd». Ecco l’altra cosa che cambia l’umore a Renzi, appena gliene si fa cenno: «Non avessimo sempre guai nel partito, potremmo occuparci a tempo pieno di governare». Ma sono momenti in cui bisogna sopire, lenire, troncare. Ci pensa il capogruppo Zanda a dire in tv che «con Grasso non ci sono tensioni». È compito del presidente Orfini invitare i compagni bersaniani a «non giocare i preliminari del congresso» nei voti sulla Costituzione. Il premier si riserva un compito ecumenico: «Faremo di tutto per coinvolgere più senatori possibili». Spente le telecamere, però freme come un atleta alla vigilia di una gara, è preoccupato che le riforme non vengano approvate entro il 15 ottobre, inizio della sessione di bilancio.
Fa i conti su tutto Renzi, sulle date, sulla legge di Stabilità, e sui numeri a Palazzo Madama: «Vediamo come finisce. Perché se si accontentano dell’elezione di secondo grado per i senatori, può andar bene. Altrimenti, se vogliono l’elezione popolare diretta, ho pronto un emendamento»: i cento seggi della prossima Assemblea divisi per altrettanti collegi, e tra i candidati passa solo chi arriva primo, «cioè uno dei miei». Tanto per cambiare.