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 2015  settembre 19 Sabato calendario

LA GUERRA AMERICANA DELL’ACQUA

È il deserto che spaventa l’America. Non si trova nella penisola araba, né nell’Africa sub-sahariana, trappole per superpotenze. È il deserto nel cortile di casa, alle spalle di Santa Monica e San Francisco, di Hollywood e Silicon Valley. La guerra dell’acqua non è più solo un conflitto da paesi poveri. È oggi la realtà della California, da sempre abituata a essere terra di nuove frontiere economiche. Una realtà così arida da scatenare improvvisi incendi incontrollabili capaci di divorare in poche ore decine di migliaia di ettari e centinaia di case tra la capitale Sacramento e le valli dei vini di Napa e Sonoma. E a prova anche di El Nino, le piogge torrenziali attese per l’inverno e che, assicurano i meteorologi, porteranno danni, alluvioni e smottamenti, ma ben poco sollievo alla Grande Siccità che nello stato ha oggi è subentrata, nella classifica di disastri e paure, alla Grande Recessione del 2008.
Ma la straordinaria siccità – il 2015 si appresta a diventare il più caldo in 136 anni nelle stime degli scienziati federali – non è il remake di piaghe bibliche, nelle quali resta specializzata Hollywood. È, in parte significativa, “man-made”, frutto di una fin troppo umana emergenza ambiente. Uno studio della Columbia University ha calcolato per la prima volta l’impatto esatto dell’effetto serra: ha aggravato di almeno un quarto il dramma naturale. Un dramma che ormai da quattro anni assedia lo stato e la sua leggendaria agricoltura – un gigante da 46 miliardi di dollari con i suoi iconici frutteti e orti. Meta agognata di eserciti di migranti interni che durante la Grande Depressione fuggivano dalle tempeste di polvere che avevano immiserito il cuore del Paese. Una siccità che mette cittadina contro cittadina, azienda contro azienda, raccolto contro raccolto, in lotta per gocce sempre più preziose. E inasprisce come non mai le differenze sociali. In cittadine come Okieville, un centinaio di case nella Central Valley abitata da veterani e piccoli contadini, ormai quasi tutti i pozzi che pompavano acqua potabile sono del tutto asciutti.
Il cambiamento climatico, anche per questo, è oggi al centro dell’agenda politica di Barack Obama. È stato il primo presidente in carica a visitare l’Alaska, con i suoi ghiacci sempre meno eterni, per dire che sull’effetto serra «non facciamo abbastanza». Tra pochi giorni vedrà Papa Francesco, il Pontefice che all’ambiente ha dedicato un’ Enciclica lodata dal presidente. E il leader cinese Xi Jinping, alla prima visita di stato a Washington per un summit fra i due paesi re mondiali dell’inquinamento, dopo aver sottoscritto impegni bilaterali contro le emissioni già lo scorso novembre. Poi l’appuntamento a Parigi a dicembre, con la Conferenza climatica delle Nazioni Unite. Al tramonto del suo doppio mandato alla Casa Bianca Obama ha deciso che, nonostante le resistenze dell’opposizione repubblicana tuttora scettica sull’effetto serra, sarà l’ambiente una delle sue vere “legacy”, delle eredità di politica interna e estera. Le sue azioni concrete si sono moltiplicate: da New Orleans ha invocato il rafforzamento delle difese di città e business della costa dal maltempo estremo. Da Las Vegas ha scommesso su energia solare e efficienza nei consumi. Il suo Clean Power Plan per le centrali elettriche prescrive riduzioni delle emissioni del 32% entro 15 anni dai livelli del 2005. Una svolta senza precedenti che costerà 8,4 miliardi l’anno fino al 2030 ma promette di generare vantaggi annuali pari a 34-54 miliardi. I progetti di investimenti pubblici in infrastrutture e innovazione ambientale – fino a 150 miliardi in dieci anni per creare cinque milioni di impieghi – si sono rivelati irrealistici, ma Obama ha rivendicato un target raddoppiato del 20% di energia da fonti rinnovabili entro il 2030, tagli complessivi nelle emissioni del 26-28% entro il 2025 (dal 2005) e posti di lavoro a ritmi dieci volti superiori alla media.
La California è diventata la nuova frontiera dei traumi climatici e un laboratorio delle difficili risposte al loro impatto sociale ed economico. Solo per il 2015, stando alle analisi delle università locali, i danni al settore agricolo che utilizza fino all’80% delle risorse idriche potrebbero salire a 2,7 miliardi. L’emergenza ha fatto esplodere polemiche e ripensamenti sui raccolti a consumo più intensivo di acqua, dalle mandorle al cotone, spesso incentivati. Un albero di mandorle, raccolto leader per l’export dello stato con 350.000 ettari dedicati, ha bisogno di oltre un metro d’acqua nel nord meno secco e di oltre 1,3 metri nel sud dello stato, il doppio di altre colture. In media quasi 4 litri per mandorla. Acqua contesa da altri protagonisti: la California cresce l’intero raccolto nazionale di noci e pistacchi, parte della cosiddetta “nut rush”, la corsa al nuovo oro che è la frutta secca oltre al 90% di limoni e mandarini, buona parte dell’uva, delle pesche, degli avocado ed è il principale produttore di meloni. Il 60% della verdura fresca viene dallo stato. Abbastanza, a somme fatte, per aver bisogno di quattro volte il fabbisogno delle città e chiedere di dirottare risorse idriche da usi ecologici, per la salvaguardia di flora e fauna.
Con la crisi aumentano gli sforzi per arginarla. Il sogno di baroni terrieri e speculatori edili un secolo fa e poi degli ingegneri che negli anni ’30 e ’60 crearono il moderno sistema di dighe e acquedotti, mille chilometri che legano il “bagnato” nord all’arido sud, è alle corde in mancanza di precipitazioni adeguate. Spuntano così campagne per nuove tecnologie di desalinizzazione dell’acqua dell’oceano degne di Israele, con tanto di consulenti di Tel Aviv. E tentativi di ridurre le sete di 800 “data center”, le computer farm di Google o Netflix che consumano l’equivalente di 158.000 piscine olimpioniche l’anno. Qualcuno ha rispolverato persino ipotesi di rimorchiare iceberg dall’Alaska. E pullulano i “water lawyers”, gli avvocati specializzati nelle cause sull’acqua. Soprattutto, il governatore democratico dello Stato Jerry Brown ha ordinato razionamenti e risparmi: quest’estate sono scattati i primi tagli ai diritti idrici degli agricoltori dal 1977. Affiancati, pena sanzioni, da riduzioni del 36% nell’uso da parte dei centri urbani.
La California non è il solo stato disidratato. Soffrono New Mexico, Arizona, Nevada, Colorado, Utah e Wyoming: l’allarme riguarda un Ovest americano che ha sempre contato sul grande bacino del Colorado River, disidratato come il resto delle riserve della regione. Il fiume lambisce 40 milioni di persone e nutre il 15% della produzione alimentare del Paese. Ma è la California che assorbe un terzo delle risorse offerte sempre più a fatica dal corso d’acqua. Il delta di Sacramento-San Joaquin, una rete di canali e isole alla confluenza dei due fiumi omonimi, è l’altro epicentro della crisi: irriga 1,2 milioni di ettari di terreni fertili. Nel cuore a sua volta della patria dei raccolti californiani, l’immensa Central Valley adesso campo di battaglia delle guerre dell’acqua e della Grande Siccità.
Marco Valsania, Il Sole 24 Ore 19/9/2015