Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 19/9/2015, 19 settembre 2015
MA CHE COSA C’È DA RIDERE? MINI GUIDA ALL’UMORISMO
Sulla satira persino a un campione assoluto come Corrado Guzzanti sono venuti dubbi: non è che la sua funzione si sia fatta più che altro consolatoria? E in un’epoca così dominata dalla retorica delle emozioni, e così lontana dal senso del ridicolo, cosa troviamo, ancora, da ridere?
Il piacere della risata nasce quando il bambino, dopo aver imparato una norma, la vede violare. La mamma non c’è, l’infante piange; la mamma ritorna, ride. La mamma fa l’aeroplano con il cucchiaino dell’omogeneizzato e finge di infilarselo nell’orecchio, l’infante ride. I più goffi personaggi dei cartoon commettono insensatezze, l’infante ride. Quando si è imparata la logica di un andamento del mondo, o almeno si è creduto di averla imparata, ogni sua violazione o sospensione destabilizza, o nel senso dello sgomento o nel senso di una ilare meraviglia.
È il comico della buccia di banana e della torta in faccia, il livello di base su cui continuano ad agire le gag immortali, dal cinema muto a Hollywood Party, e funziona ancora benissimo come intrattenimento per trasmissioni come la vecchia Paperissima o i miliardi di video con gattini e neonati graziosi e goffi al tempo stesso che ne fanno di ogni sorta. Poi ci si comincia a sentire più intelligenti, e si scopre il comico “di testa” dei paradossi e dei motti di spirito, si passa all’umorismo, che può anche essere nero e nerissimo, e magari si arriva a Samuel Beckett, che ci riporta senza neppure che ce ne accorgiamo alla comicità di Buster Keaton, ma oramai in bilico sulla tragedia.
Peccato che, come da anatemi gettati per tempo dal situazionista Guy Debord, la società dello spettacolo ha scoperto che il linguaggio del comico è quanto di meglio ci possa essere per scavalcare la fredda razionalità della critica e per creare quella che, con un certo compiacimento, si è infine chiamata “empatia”. La risata diventa così uno dei massimi obiettivi della comunicazione, assieme al pianto e all’indignazione. Ognuno di questi effetti costituisce la garanzia più inoppugnabile, per chi comunica, di aver saputo colpire al grado estremo l’uditorio: la ricerca di tale garanzia è diventata, di conseguenza, sistematica. Per questo la scena pubblica della comunicazione ( ma spesso anche la privata) si è fatta così parossistica, ed eccessiva: per il pathos dell’indignazione si ulula nei talk-show e ci si scalmana sui social network; per quello della lacrima si pubblicano foto raccapriccianti di cadaveri, interviste a persone in lutto, libri su disgrazie; per quello della risata comicità, clownerie e satira (di dubbio pregio) sono arrivate in Parlamento e non ce ne stupiamo neppure più.
Il problema non è certo costituito dal ridere, dal piangere o dall’indignarsi: sono tutte passioni necessarie alla vita e chi non è in grado di provarne una si perde qualcosa di fondamentale. Ma proprio a ogni momento? Inoltre, non è che siamo davvero invitati e stimolati a ridere, piangere o indignarci di tutto. Ridere, in particolare, è totalmente escluso da ogni occasione di comunicazione e marketing in cui possa nuocere alla reputazione dei brand. Stretti fra carismi e gerarchie ben più ferree di vent’anni fa, siamo dunque attentissimi all’“immagine”: la nostra, quella dell’azienda per cui lavoriamo, quella della squadra per cui tifiamo, della religione che eventualmente professiamo, del partito, degli sponsor che finanziano un progetto e così via. Nell’enfasi delle convention, solo l’amministratore delegato o comunque il capoccia supremo (o il comico ingaggiato per interrompere innocuamente la cascata delle slide e dei video autocelebrativi) può permettersi blande ironie, ridere alle quali non è un piacere ma un obbligo. E se i social network hanno una funzione realmente sociale è proprio quella di segnalare le più vistose falle nel senso collettivo del ridicolo.
La direzione del dileggio non va più obbligatoriamente dal basso verso l’alto: nel fuoco incrociato di una società ghignante e ridanciana, cercare il senso al ridicolo, e cercare il senso del ridicolo perduto, può allora diventare il modo più salutare e onesto di garantirsi il buon umore.
Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 19/9/2015