varie, 19 settembre 2015
I turisti al Colosseo bloccati da un’assemblea sindacale
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LEGGE 146/1990 –
Stabilisce le «norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona tutelati dalla Costituzione». Per «servizi pubblici essenziali» si intendono quelli che garantiscono il godimento dei diritti della persona: la vita, la salute, la libertà, la sicurezza, la libertà di circolazione, l’assistenza e la previdenza sociale, l’istruzione e la libertà
di comunicazione.
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MARIOLINA IOSSA, CORRIERE DELLA SERA 19/9 –
Chiuso per assemblea il Colosseo e serrati anche altri importanti siti archeologici della capitale. Chiuso per due ore e mezza, quasi tre di fatto, dalle 8 e 30 del mattino alle 11, con decine di turisti increduli davanti ai cancelli, a fissare i piccoli cartelli di avviso. Attorno alle 11 e 30 si riapre, ci vuole un po’ per smaltire la coda ma alla fine della mattinata la situazione torna alla normalità. Scoppia invece un enorme bubbone politico. Tutti indignati, scandalizzati per la chiusura del Colosseo, già chiuso una volta a giugno, come accaduto per Pompei.
«La misura è colma — dice il ministro del Mibact Dario Franceschini —. La cultura deve essere tutelata, proprio adesso che stiamo investendo più soldi, nella legge di Stabilità, per i Beni culturali». La reazione del premier Matteo Renzi, che mette all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri del pomeriggio un decreto ad hoc per regolare scioperi e assemblee nei Beni culturali, arriva su Twitter: «Non lasceremo la cultura ostaggio dei sindacati». Anche il sindaco Ignazio Marino s’indispettisce: «La chiusura del Colosseo è uno schiaffo a cittadini e turisti e un danno all’immagine del Paese».
Ma loro, i lavoratori dei siti archeologici rimasti chiusi per quasi tre ore, non ci stanno a fare la parte dei cattivi. «La soprintendenza era informata dal 12 settembre che il 18 ci sarebbe stata un’assemblea — spiega Domenico Blasi dell’Usb —. Noi abbiamo informato il soprintendente per il Colosseo, lui doveva informare gli organi superiori». Franceschini, invece, a quanto pare non sapeva.
E i sindacati, pur con posizioni diverse, difendono i lavoratori. Susanna Camusso, leader Cgil, attacca: «L’Italia è uno strano Paese, fare un’assemblea sindacale è diventata una cosa impossibile. Capisco che si può fare attenzione in periodi di particolare afflusso turistico ma se ogni volta che c’è un assemblea c’è un problema allora si dica che i lavoratori in certi luoghi non possono più avere questo strumento di democrazia». Più morbida Annamaria Furlan, Cisl: «Giusto non danneggiare i turisti, ma prima di pensare a un decreto, apriamo un confronto con il governo». E Carmelo Barbagallo, Uil: «Il premier non perde occasione per scagliarsi contro i sindacati ma l’assemblea al Colosseo è stata convocata dai lavoratori per il mancato pagamento del salario accessorio. Quei lavoratori meriterebbero più rispetto. Gli attacchi sono pretestuosi».
I lavoratori riuniti a Palazzo Massimo si sfogano: «Sono 9 mesi che non ci pagano gli straordinari». In particolare, i 26 lavoratori che si occupano del Colosseo, denunciano carenza di personale. La notizia fa subito il giro del mondo. «Quando c’è di mezzo la reputazione del Paese, si dovrebbe fare una riflessione in più — è il commento di Diego Della Valle, titolare di un contratto di sponsorizzazione per il restauro —. Se si parla di Colosseo o di Pompei bisogna rendersi conto che si accendono i riflettori del mondo. E la reputazione del nostro Paese ne subisce gravi danni».
Mariolina Iossa
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FABRIZIO CACCIA, CORRIERE DELLA SERA 19/9 –
La prossima volta, i custodi del Colosseo, per riunirsi in assemblea come hanno fatto ieri — lasciando 6 mila persone per più di due ore davanti a una transenna — o per proclamare un’agitazione sindacale, dovranno confrontarsi con il Garante degli scioperi, la speciale Commissione di garanzia istituita dalla legge 146 del 1990, che regolamenta l’astensione dal lavoro nei servizi pubblici essenziali. Col rischio di vedersi precettati.
Perché da ieri sera — dopo lo scandalo, le proteste e l’indignazione — con il decreto-flash approvato a Palazzo Chigi e ribattezzato non a caso «dl Colosseo», il governo ha deciso che i musei e i beni culturali in generale saranno regolati «alla stregua di scuole, treni, aerei e ospedali», così ha chiarito il ministro della Cultura, Dario Franceschini. Sarà impedita, cioè, l’interruzione del pubblico servizio: perché la visita di un museo, uno scavo, un monumento d’ora in poi sarà riconosciuta come un diritto pieno dei cittadini. Il diritto alla cultura come il diritto alla salute, all’istruzione, al trasporto. «È una conquista di civiltà in un Paese come l’Italia», l’ha definita Franceschini, alla vigilia delle Giornate del Patrimonio Europeo, oggi e domani.
Dunque, alla legge 146 del ‘90 è stata fatta un’aggiunta non di poco conto («all’articolo 1 comma 2», ha spiegato lo stesso ministro) che contempla adesso nell’elenco dei servizi pubblici essenziali anche l’apertura garantita dei musei e degli altri beni culturali. Pompei e Colosseo in primis. Ma non solo: «Le regole del decreto legge varranno per tutti i musei e i luoghi di cultura, senza fare distinzione tra statali, comunali, pubblici e privati», ha puntualizzato ancora il ministro.
E sebbene Claudio Meloni, coordinatore nazionale Cgil per il Mibact, annunci che «la vertenza sui beni culturali potrebbe portare presto ad uno sciopero nazionale, Cgil,Cisl e Uil hanno già avviato le procedure previste dalle legge...», il ministro ci tiene a precisare che «col decreto nessuna limitazione viene posta al diritto legittimo di fare un’assemblea o di proclamare uno sciopero», ma l’intenzione è quella semplicemente di sottoporre al Garante «le modalità e la tempistica». Lo afferma a chiare note anche il premier Matteo Renzi: «Con questo decreto legge non facciamo nessun attentato al diritto allo sciopero ma diciamo solo che in Italia, per come è fatta l’Italia, i servizi museali sono dentro i servizi pubblici essenziali. Non diciamo che non si possono fare le assemblee ma diciamo che si possono fare rispettando però delle regole del gioco che consentiranno a chi si è fatto 9 mila chilometri e speso migliaia di dollari o di euro per venire a visitare il Colosseo o Pompei, di non trovarsi davanti la sorpresa dell’assemblea sindacale».
E ancora: «Non è un diritto in meno ai sindacati, ma un diritto in più agli italiani e agli stranieri — ha detto Renzi —. Degli amici mi hanno raccontato di aver intercettato nel pomeriggio sul treno Roma-Firenze l’amarezza di un gruppo di turisti americani diretti a Venezia che la mattina non avevano potuto visitare il Colosseo. Questo è senza parole».
Al centro dell’assemblea dei custodi del Colosseo, ieri, c’erano il mancato pagamento dei salari accessori — incluse le festività — e l’insufficienza di personale. «Tutto regolare — obietta Domenico Blasi, sindacalista dell’Usb — la Soprintendenza era informata dal 12 settembre». Il ministro Franceschini, però, non ha nulla da ridire sulla correttezza dei sindacati e in conclusione tende loro la mano: «Mentre i turisti al Colosseo aspettavano fuori ed era in corso l’assemblea, io ero a un incontro al ministero dell’Economia per cercare di risolvere il problema degli straordinari non pagati».
Fabrizio Caccia
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GIAN ANTONIO STELLA, CORRIERE DELLA SERA 19/9 –
Se volevano farsi dei nemici, i dipendenti che ieri mattina, per una assemblea sindacale, hanno chiuso per tre ore il Colosseo e i Fori Imperiali, ci sono riusciti. C’è modo e modo di dare battaglia e rivendicare questo o quel diritto. Fosse pure sacrosanto. Ed è non solo scontato ma legittimo il coro di esasperazione dei turisti, obbligati a code chilometriche (con addirittura il dubbio che il cuore archeologico di Roma fosse chiuso fino alle undici di sera a causa del maldestro cartello in inglese: «from 8.30 am to 11 pm») ma anche di operatori, ristoratori, albergatori, cittadini. Non è mancata l’indignazione di Ignazio Marino, colto ancora di sorpresa da questa «sua» città che non finisce di dare scandalo: «Il fatto che il Colosseo sia chiuso a chi magari è arrivato da Sydney o New York e aveva solo oggi per poter vedere il monumento millenario, è uno sfregio».
«Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge #colosseo #lavoltabuona », ha twittato Matteo Renzi. «Ora basta. La misura è colma», è sbottato Dario Franceschini. Detto fatto, il Consiglio dei ministri ha confermato il minacciato inserimento da parte dei musei e dei siti culturali tra i «servizi pubblici essenziali». Con tutti i risvolti e i limiti automatici in caso di sciopero e di prove di forza. Annuncio accolto all’istante da un fuoco di sbarramento dei sindacati. In prima fila Susanna Camusso. Toccare questi diritti, tuona, tocca la democrazia: «È uno strano Paese quello in cui un’assemblea sindacale non si può fare».
E i diritti dei turisti italiani e stranieri che venivano magari per la prima volta in vita loro a Roma e sono stati bloccati ai cancelli? Restano lì, marginali, sullo sfondo...
Scaricare le responsabilità dell’ennesima figuraccia agli occhi del mondo sui soliti custodi, i soliti sindacati, i soliti agitatori, però, è troppo comodo. Ferma restando l’insofferenza crescente per l’indifferenza di un certo sindacalismo verso i disagi causati agli utenti, l’assemblea di ieri mattina era annunciata da una settimana. La legge e la prassi avrebbero consentito, riconosce un leader sindacale storico dei Beni culturali, Gianfranco Cerasoli, di pattuire tempi e modi diversi: «Dalle 8 alle 10, per dire, già i disagi sarebbero stati minori. Il guaio è che qui c’è una incapacità storica di gestire le “relazioni industriali”».
Sono insopportabili i silenzi, le omissioni, le complicità che hanno coperto per decenni situazioni che altrove sarebbero state risolte con la dovuta fermezza e invece sono state abbandonate a se stesse, per motivi spesso di pura clientela, fino al degrado. I dieci custodi del sito di Ravanusa con un solo visitatore pagante (che poi non pagò) l’anno. Il custode di Pompei colto in flagrante con una ragazzina che aveva adescato in una domus chiusa e punito col solo trasferimento. I custodi dell’«archeologico» Antonino Salinas di Palermo che, mentre il loro museo veniva ristrutturato, hanno rifiutato per anni di lavorare provvisoriamente altrove... Storie incredibili. Inaccettabili.
Detto questo, un Paese che a parole batte e ribatte sulla cultura e la ricchezza dei beni archeologici, dei musei, delle chiese, delle contrade di stupefacente bellezza, deve anche essere coerente. E investire sul serio, su queste cose. Invece siamo sempre inchiodati lì, a un investimento dello 0,19% del Pil: meno di un quarto di quanto spendeva l’Italia nel 1955, mentre stava ancora scrollandosi di dosso le macerie della guerra.
I custodi qua e là sono troppi? Certamente. I lettori ricorderanno il caso, per fare un solo esempio, dei diciotto addetti che fanno la guardia a Mazara del Vallo (e dicono che non ce la fanno...) al bellissimo Satiro Danzante ospitato in un solo grande salone dotato per di più di sei telecamere (sei!) per la videosorveglianza. Altrove, però, ce ne sono troppo pochi. E lo conferma l’ultima pianta organica ministeriale, la quale mostra sproporzioni molto ma molto vistose. Possibile che la Campania abbia 1.525 custodi e cioè quanti il Veneto (408) la Lombardia (465), il Piemonte (348), il Friuli-Venezia Giulia (157) e la Liguria (171)?
In tutta Italia, dice il ministero, sono previsti complessivamente (la Sicilia, poi, va contata a parte perché ha una quota supplementare di dipendenti propri) 7.735 custodi. In realtà quelli in servizio attualmente sono 7.461: quasi trecento di meno. Si possono distribuire meglio? Sicuro. Ma anche a pieno organico saremmo comunque molto sotto i 9.886 previsti vent’anni fa e sotto gli 8.917 di cui parlava Il Giornale dell’Arte nel 2010. Per non dire di uno studio dello stesso ministero che nel 2009 considerava necessaria una dotazione, per la sorveglianza e l’assistenza ai visitatori, di 12.000 persone.
Ben vengano dunque nuove regole che, in nome anche del peso strategico del turismo, puntino a mettere dei paletti più precisi così da evitare al nostro Paese brutte figure come quella di ieri. Brutta figura arrivata nella scia di altri episodi che ci hanno fatto arrossire e che spinsero l’Unesco a darci più di una bacchettata. Ma chi pensa questi problemi si possano risolvere solo facendo la voce grossa rischia, alla lunga, di prendere una cantonata...
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PAOLO BOCCACCI, LA REPUBBLICA 19/9 –
Migliaia di turisti in coda davanti al Colosseo, sotto il sole. E un cartello che spunta e li avverte che per un’assemblea sindacale i siti archeologici più importanti di Roma, Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica, apriranno solo alle 11,30. È la miccia che scatena un uragano politico che porterà dopo poche ore il governo ad inserire monumenti antichi e musei nel numero dei servizi essenziali, per i quali assemblee e scioperi sono sottoposti ad una regolamentazione più rigida.
A dar fuoco alle polveri è il garante degli scioperi Roberto Alesse. «Tutto questo» afferma «dimostra che è urgente ricomprendere la fruizione dei beni culturali tra i servizi pubblici essenziali». E subito dopo è il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ad entrare in campo con una durissima nota: «La misura è colma. Ora basta. Il buonsenso nell’applicare regole e nell’esercitare diritti evidentemente non basta più per evitare danni al proprio Paese. Per questo abbiamo concordato questa mattina con il presidente Renzi che al Consiglio dei ministri di questo pomeriggio proporrò una modifica legislativa che consenta di inserire anche i musei e i luoghi della cultura aperti al pubblico tra i servizi pubblici essenziali».
La leader della Cgil Susanna Camusso sembra quasi sorpresa. «Stiamo diventando uno strano Paese» ribatte al ministro. «Ogni volta che c’è una assemblea sindacale si dice che non si può fare. Capisco che si debba fare attenzione al turismo ma allora si dica chiaramente che i lavoratori non possano più avere strumenti di democrazia». Ma poi poi sulla questione irrompe il premier Renzi che su Twitter annuncia lapidario: «Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge Colosseo». Continua lo scontro. Cgil, Cisl e Uil ribattono: «Era un’assemblea perfettamente legittima, per il mancato pagamento degli straordinari, richiesta l’11 settembre scorso e svolta nel pieno rispetto delle norme». La risposta arriva dal sindaco Marino, tranchant su Facebook: «La chiusura del Colosseo è uno sfregio». E da Diego Della Valle, sponsor del restauro del monumento: «Ci vorrebbe più attenzione quando è in gioco la reputazione del Paese».
I sindacati non demordono. «La vertenza sui beni culturali» afferma Claudio Meloni, coordinatore Cgil per il Mibact «potrebbe portare a uno sciopero nazionale».
Ma in serata, puntuale, arriva la decisione del governo. Spiega il premier Renzi: «Con questo decreto non facciamo nessun attentato al diritto di sciopero ma diciamo solo che in Italia i servizi museali sono dentro i servizi pubblici essenziali. Non affermiamo che non si possono fare le assemblee ma che si possono fare con regole del gioco che consentano tuttavia a chiunque, anche distante 9mila chilometri, di non trovare la sorpresa dell’assemblea sindacale.
Dobbiamo avere più attenzione per chi vuole bene all’Italia».
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FRANCESCO MERLO, LA REPUBBLICA 19/9 –
Accanto al paradosso di Zenone sulla tartaruga più veloce di Achille, da ieri è entrato nella storia della filosofia anche il paradosso del Colosseo dove «la chiusura non è chiusura, ma apertura ritardata».
Questa perifrasi in sindacalese da bacheca, questo trucco retorico tra litote ed eufemismo non è solo la spia della vergogna che impedisce ormai agli stessi sindacati di chiamare sciopero lo sciopero e chiusura la chiusura. È la prova definitiva che in Italia c’è un’emergenza Colosseo. Ed ecco il paradosso: il Colosseo è un’emergenza perché va troppo bene, soffre di abbondanza, al punto che quest’anno sfonderà il record dei sei milioni di visitatori, con un ricavo di circa 50 milioni di euro. Insomma, il monumento più visitato e più lucroso d’Italia, uno dei più ricchi del mondo, è anche il più vulnerabile ai capricci delle corporazioni sindacali, all’accanimento progettistico della demagogia e del kitsch, all’accattonaggio urbano, al degrado della ristorazione ambulante.
Ieri mattina, paradosso nel paradosso, soltanto i finti centurioni, quelli con la scopa in testa, svolgevano una forma surrogata di servizio pubblico. Bisognava vedere con quanta passione rassicuravano i turisti, li distraevano, ne contenevano la rabbia, spiegavano i perché e i percome dell’ennesima assemblea sindacale che dalle 8.30 alle 11 ha lasciato chiuso il Colosseo con l’inaudita e inedita benevolenza della Soprintendenza di Roma — architetto Prosperetti — che ha subito dichiarato «legittima protesta» quell’autentica diserzione. Ed è bene ricordare che la Sovrintendenza di Roma è, come quella di Pompei, autonoma. Il che vuol dire che, eccezionalmente, il denaro del Colosseo non va all’Erario.
E ieri è stato un centurione a lanciare il passaparola dell’errore d’inglese che ha poi fatto il giro dei siti di tutto il mondo. La « Notice » del sindacato annunziava infatti che The Colosseum sarebbe rimasto con i cancelli sbarrati
«from 8.30 am to 11 pm ». No, no, gridava il centurione ai turisti confusi « qui pm is am » così sancendo che nel paradosso del Colosseo non solo «la chiusura è apertura», ma «la sera è mattina». Ecco dunque che ieri i centurioni lavoravano mentre i lavoratori centurioneggiavano, un po’ come nella Napoli più napoletana dove ci sono i disoccupati organizzati e gli occupati disorganizzati.
Eppure tutti sapevano che Matteo Renzi, in pieno accordo con il ministro Franceschini, stava aspettando proprio questo ennesimo abuso sindacale per approvare in consiglio dei ministri il decreto legge che adesso equipara i beni culturali ai servizi pubblici essenziali, alle ferrovie, agli ospedali, al trasporto aereo: «Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge #colosseo # lavoltabuona », era stato il tweet di guerra del presidente del Consiglio nel pomeriggio di ieri.
I sindacati, che una volta furono intelligenza collettiva, sembrano purtroppo ridotti a parodia. E uno sciopero generale per difendere le assemblee che in questi anni troppe volte hanno bloccato il Colosseo finirebbe con l’alimentare non il Jobs Act e il riformismo laburista del mercato del lavoro, ma il più odioso e coriaceo populismo. Quello che il 24 luglio scorso reagì con «dovrebbero cacciarli tutti a calci nel sedere» quando, per la quinta volta in meno di un anno, Pompei si fermò e il sovrintendente Osanna, al contrario di Prosperetti, andò personalmente ad aprire i lucchetti per fare entrare 2mila visitatori che Fp Cisl, Filp e Uns avevano lasciato a cuocere sotto il sole.
Eppure è ormai patrimonio comune l’idea che i beni culturali siano l’immensa risorsa del nostro Paese, sino a oggi la grande occasione mancata. Ecco perché è istintivo essere d’accordo con l’esclamazione di Franceschini ieri mattina sul solito Twitter: «La misura è colma». Anche se in Italia è facile cedere allo spasmo plebeo della contumelia quando dal lavoro si astengono gli altri, i tassisti, gli infermieri, i giornalisti, i professori… che sono sempre «braccia rubate all’agricoltura», e «se dipendesse da me ci metterei una bomba», e «in galera vi mando».
E, come al solito, nella demagogia del decisionismo di pancia, c’è sempre l’ombra di Mussolini, dei 36mila ferrovieri licenziati in un giorno solo perché «basta con lo Stato postino e ferroviere ».
Adesso tocca a loro, ai lavoratori dei beni culturali, è tempo del «dalli al custode », che ovviamente ci mette pochissimo a passare dalla parte del torto anche quando occasionalmente ha ragione. I sindacati, infatti, con queste loro assemblee in orari da irresponsabili, hanno completamente cancellato la legittimità delle proteste per gli straordinari non pagati, per i contratti scaduti, per i turni e i tagli, rivendicazioni quasi sempre giuste sinché vengono tenute nel buon senso della concertazione, dei tavoli, della trattativa, sino allo sciopero ovviamente, purché non danneggi selvaggiamente i visitatori, purché non fermi quel mondo di memoria universale dove tutti devono potere entrare in punta di piedi, anche mentre, da qualche parte, si discute di salari e di qualifiche.
Le proteste diventano infatti odiose reazioni corporative quando antepongono i loro pur legittimi ma piccoli interessi a quelli enormi dei turisti e dei visitatori d’arte che nessun sindacato organizza e difende. Dice la Camussso: «È uno strano Paese quello in cui un’assemblea sindacale non si può fare». Ebbene, come fa la segretaria della Cgil a non capire che chiudere per assemblea sindacale il Colosseo o Pompei significa chiudere l’Italia al mondo?
Ma davvero sarebbe come paralizzare un ospedale, come fermare i treni e gli aerei? No. Una differenza, nonostante tutto, c’è tra i mosaici di Ravenna e il Pronto soccorso del San Giovanni, tra la reggia di Caserta e la metro di Milano, tra chiudere al pubblico l’Ultima Cena e bloccare Fiumicino.
Inoltre, più aumenta l’elenco delle cose necessarie più la necessità perde di significato. Nel giugno scorso il governo minacciò di precettare anche gli insegnanti italiani, trattandoli come tranvieri e netturbini e oltraggiando inutilmente il mondo della scuola. Nella cultura oggi ha molte più ragioni. Nei musei si è infatti rifugiato come in una tana quel corporativismo che è l’eterna tentazione italiana che dalle Gilde medievali passò per il sindacalismo delle leghe operaie, artigiane e contadine rosse e bianche, socialiste e cattoliche prima, per quello fascista dopo, e infine comunista. Ebbene oggi nei musei non è più tollerabile l’assemblea della corporazione che blocca i cancelli, anche se è la coperta di Linus della sinistra, il rifugio da «vecchia guardia» della Cgil della Camusso e degli autonomi che spacciano il privilegio per diritto.
Ecco perché il Colosseo è diventato da ieri un’emergenza nazionale. E meno male che è uno dei ruderi più solidi al mondo. Il Colosseo, che ha resistito a tutto, sopporterà anche l’essere teatro dello scontro tra governo e sindacato. La battaglia nella sua arena, che è bella perché è sbocconcellata, non sarò solo sull’apertura dei musei e sulle regole dell’industria culturale. Ieri è cominciata, nel posto più adatto, la resa dei conti tra le due sinistre.
È l’inizio dei munera sine missione.
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ILARIO LOMBARDO, LA STAMPA 19/9 –
Se c’è qualcosa che a Matteo Renzi fa andare proprio il sangue al cervello è immaginare un qualsiasi potenziale turista che in qualsiasi posto del mondo accende la televisione e vede nel rullo dei notiziari che in Italia i più noti monumenti sono improvvisamente consegnati al caos. La storia non è nuova. Però questa volta riguarda Roma, la disgraziata Capitale che attende il Giubileo e si prepara ad accogliere milioni di pellegrini. Il Colosseo chiuso fa imbufalire il premier, e il fatto che dietro ci sia un’assemblea convocata dai sindacati è sale sulle ferite. La sua reazione arriva via Twitter alle 15.23. «Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia» dice, durissimo, annunciando un decreto legge. Va sul frontale, attacca i mai amati sindacati. A luglio toccò a Pompei e reagì ammettendo di provare una «rabbia incontenibile». Lo scrisse sull’Unità: «La cultura è la chiave del nostro futuro». Le scene delle grandi bellezze bloccate da uno sciopero agli occhi del premier sono uno sfregio.
Le agenzie passano il pomeriggio a raccogliere il disappunto dei leader sindacali saliti sul ring con il governo per difendere il diritto di sciopero e di assemblea. Quasi serafica Susanna Camusso della Cgil esordisce con ironia: «È uno strano Paese quello in cui un’assemblea sindacale non si può fare». Annamaria Furlan della Cisl invece sembra fare sue le ragioni del premier sui turisti «in ostaggio», ma non considera una buona soluzione né il decreto legge né questi «polveroni mediatici». Nel frattempo i sindacati fanno sapere di aver chiesto l’11 settembre l’autorizzazione, poi «regolarmente autorizzata e con largo anticipo». Ormai la decisione però è presa. Nel Consiglio dei Ministri viene infilato il decreto che trasforma i musei e i luoghi di cultura in servizi pubblici essenziali, e come tali regolati dalla normativa già applicata per i trasporti, nelle scuole o negli ospedali. Il premier non vuole, non adesso, non con l’Expo, non con la vetrina internazionale tirata a lucido giorno dopo giorno, che l’Italia mostri un volto diverso da quello botticelliano di un Paese che offre agli stranieri un parco monumenti unico al mondo, attorno ai quali i servizi devono funzionare.
L’irritazione è tanta ma quando arriva in conferenza stampa i toni sono ammorbiditi dallo staff che ha suggerito a Renzi più cautela. «Non facciamo nessuna attentato al diritto di sciopero, ma diciamo solo che in Italia, per com’è fatta l’Italia, i servizi museali stanno dentro i servizi pubblici essenziali». E aggiunge: «L’assemblea si può fare con le regole del gioco che consentono a chiunque abbia fatto un volo di 9 mila chilometri e arrivi in Italia di non trovare la sorpresa dell’assemblea sindacale». Il pensiero di Renzi va alla comitiva di coreani che senza preavviso si sono ritrovati i cancelli sbarrati dell’Anfiteatro Flavio. Nel pieno rispetto dei diritti, «non è pensabile che l’Italia, che sta ripartendo – continua Renzi - non sia in condizione di abbracciare quei turisti che fanno migliaia di chilometri e spendono migliaia di dollari o di euro per venire a casa nostra e che non sanno cos’è un’assemblea sindacale. È un principio di buon senso». L’assemblea sarà anche una cosa indecifrabile per uno straniero, ma questa, risponderà indirettamente al premier il Sovrintendente dell’area archeologica di Roma Francesco Prosperetti era «inevitabile» e «impossibile da bloccare».
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UGO MAGRI, LA STAMPA 19/9 –
È delle ore 10 la notizia che davanti al Colosseo s’era formata la fila, di mezzogiorno in punto l’annuncio del ministro che il governo sarebbe intervenuto con un decreto. Cronometro alla mano, centoventi minuti sono stati sufficienti per adeguare il diritto di sciopero e le sue regole laddove in altri tempi non sarebbero bastati mesi e anni di sterili discussioni. Il piglio decisionista di Renzi emerge dalla vicenda come forse mai prima d’ora. Nella realtà, però, quella del blitz maturato ieri mattina, magari sull’onda dello sdegno collettivo per la brutta figura dell’Italia, è vera solo in parte. Piccolissima. Chi sa come sono andate realmente le cose conferma che la pistola del decreto era già nel cassetto, carica. Pronta a sparare in qualunque momento il governo vi fosse stato costretto. Le tre righe in un solo articolo, che modificano la legge 146 del 1990, sono state scritte e discusse nei giorni precedenti, come è normale in questi casi. Trattandosi di provvedimento d’urgenza, il Capo dello Stato è stato avvertito in anticipo, anche qui secondo prassi come confermano le fonti ministeriali. Non è noto a che ora, esattamente, sia avvenuta la comunicazione. Ma sebbene i contenuti dei colloqui quirinalizi siano coperti da rigoroso riserbo, a nessuno è sfuggita la visita che Franceschini aveva reso al presidente della Repubblica giovedì, quando i notiziari locali già segnalavano il rischio (non ancora divenuto certezza) che l’indomani vi sarebbero stati scioperi e assemblee in tutti i principali musei romani all’aperto, dal Colosseo al Palatino agli scavi di Ostia antica. Se sul Colle se ne fosse parlato, non ci sarebbe nulla di sorprendente.
Mossa preparata
Più che nella prontezza dei riflessi, il vero merito del governo (e del ministro in particolare) consiste dunque nel non essersi fatto cogliere alla sprovvista. Di aver studiato le contromosse per tempo, fin dallo sciopero del 24 luglio a Pompei che scandalizzò il mondo. Già allora il ministro aveva messo i sindacati sull’avviso, «con questi comportamenti rischiate di danneggiare il Paese e anche voi stessi» aveva detto, che tradotto nella lingua di tutti i giorni si traduce in una sorta di preghiera o di ultimatum: non fatelo più. Franceschini è uomo di sinistra, le sue radici politiche affondano nel popolarismo cattolico, figurarsi se è sordo alle buone ragioni dei lavoratori. Conosceva le richieste dei sindacati, si stava battendo per mettere in piedi un meccanismo automatico di retribuzione degli straordinari, aveva quasi convinto gli altri protagonisti del cosiddetto concerto inter-ministeriale, era ragionevolmente fiducioso di portare a casa il risultato nella prossima legge di stabilità. Quel che più conta, Franceschini ne aveva informato passo dopo passo i sindacati, dunque si sarebbe aspettato da parte loro un atteggiamento serio e responsabile. Per questo le assemblee, i disservizi, i turisti in fila sotto il sole, gli hanno fatto ancora più male.
Blitz dal treno
La conferma dello sciopero è arrivata a Franceschini mentre stava viaggiando da Bologna in direzione Roma. Una telefonata di corsa a Renzi, un’altra più lunga al presidente della Commissione di garanzia che vigila sugli scioperi nei servizi pubblici essenziali, Alessi. E subito dopo la dichiarazione di guerra: basta così, la misura è colma.
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UGO MAGRI, LA STAMPA 19/9 –
Con il volto scuro come l’abito che indossa, il ministro Franceschini si blocca davanti alle telecamere. È uscito a piedi dal ministero dei Beni culturali, ha percorso circondato dai cronisti i pochi passi che lo separano da Palazzo Chigi dove sta per entrare con, in tasca, il testo del decreto legge che equipara agli altri servizi pubblici essenziali lo sciopero nei musei. Ma prima Franceschini vuole rispondere alle bordate della Camusso, segretaria generale della Cgil. Brucia al ministro l’accusa di aver calpestato i diritti dei lavoratori e nega che di questo si tratti: «Il decreto che faremo non li sfiora assolutamente. Si potranno fare assemblee e scioperi, ma secondo regole particolari nei settori che toccano i cittadini». Come già oggi accade nella sanità e nei trasporti.
Legge inadeguata
Quelle regole di civiltà e di rispetto per gli utenti che non potevano essere applicate nel caso del Colosseo, in quanto la legge in vigore fino a ieri si è dimostrata del tutto inefficace di fronte a certe forme di protesta. Si accontenta, spiegano gli esperti del ministero, di mettere in campo un tentativo di composizione bonaria, che deve essere svolta del sovrintendente nel momento in cui viene informato delle agitazioni sindacali, salvo poi prendere atto della decisione di scioperare ugualmente e alzare le braccia in segno di resa. Questo è accaduto ieri a Roma, e sebbene al ministero fossero stati informati non c’era mezzo legale per impedirlo. Oltretutto (segnalano i collaboratori del ministro) nessuno poteva prevedere in anticipo quale sarebbe stata l’adesione dei lavoratori alle assemblee, e se ci sarebbe stato o meno il blocco dei cancelli. Insomma, un meccanismo inefficace e soprattutto incontrollabile. Di qui la decisione di intervenire d’urgenza, con lo strumento del decreto-legge perché è l’unico modo, sostiene Renzi, ripete Franceschini nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri, di impedire altri danni di immagine per l’Italia. Come due mesi fa quando chiuse Pompei, come si è ripetuto ieri all’ombra del Cupolone.
Lo sfogo del ministro
«Il buonsenso nell’applicare regole e nell’esercitare diritti, evidentemente, non basta più per evitare danni al proprio Paese», esprime tutta la propria amarezza Franceschini. «La misura è colma, ora basta», era stata la sua reazione a caldo verso mezzogiorno, quando si era saputo delle assemblee nei musei capitolini. «Alla vigilia delle due giornate europee del patrimonio non è accettabile vedere turisti prenotati da mesi in fila davanti ai cancelli chiusi». Per giunta, «proprio nel momento in cui la tutela e la valorizzazione dei beni culturali sono tornate dopo anni al centro dell’azione di governo, proprio mentre i dati del turismo sono straordinariamente positivi, proprio mentre Expo e Giubileo portano ancora di più l’attenzione del mondo sull’Italia, proprio mentre io come ministro sono impegnato nelle discussioni preparatorie della legge di stabilità a cercare di portare più risorse per la cultura e per il personale del ministero...». Alla luce di tutto questo, assicura il ministro, «in un Paese come il nostro il decreto è una conquista di civiltà».
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F.Q., IL FATTOQUOTIDIANO.IT 18/9
Circa 2,2 miliardi di euro di ricavi contro i 68 milioni messi nero su bianco nei resoconti di Cgil, Cisl e Uil. Che non hanno l’obbligo di presentare un bilancio consolidato da cui risulti quanto costa davvero la “macchina” a lavoratori e pensionati. A fare i conti è stato L’Espresso, che ha sommato i proventi legati alle iscrizioni, la quota-parte di competenza delle confederazioni sui 266 milioni che l’Inps incassa da artigiani e commercianti, gli incassi dei centri di assistenza fiscale (Caf) e i contributi che vanno ai patronati. L’inchiesta del settimanale arriva dopo la polemica sui mega stipendi dei sindacalisti Cisl scoppiata in agosto in seguito alla diffusione di un dossier di denuncia da parte di un iscritto in pensione. Prima ancora a fare scandalo era stato il caso dell’aumento vertiginoso ricevuto dall’ex segretario Raffaele Bonanni prima delle dimissioni. Giovedì, la Cgil ha annunciato un’operazione trasparenza sulle buste paga, rendendo noto che la leader Susanna Camusso guadagna 3.850 euro netti al mese e i segretari nazionali poco meno di 2.800.
Tornando ai bilanci, i ricavi complessivi che risultano dall’analisi dell’Espresso sono ben lontani dalle cifre rese note dalle tre sigle confederali, che essendo ancora oggi associazioni non riconosciute – dovrebbe rimediare l’attesa legge sulla rappresentanza, prevista dalla Costituzione ma mai varata – si limitano a dar conto delle quote trattenute dalla sede centrale di Roma. Poco più di 68 milioni, appunto. Ma, tenendo conto degli 11,7 milioni di iscritti complessivi dichiarati, solo dalle quote di iscrizione la Cgil deriva secondo i calcoli del settimanale oltre 741 milioni, la Cisl 608 milioni e la Uil 315 milioni. Ogni sigla ha diritto infatti allo 0,80% della retribuzione annua dei lavoratori attivi e allo 0,40% degli assegni dei pensionati. La somma fa 1,7 miliardi. Contro i 600 milioni e rotti ammessi dalle confederazioni guidate da Susanna Camusso, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo. In più ci sono i 266 milioni che l’istituto di previdenza gira alle organizzazioni per la gestione artigiani e commercianti.
A questi soldi privati vanno aggiunti quelli pubblici. A partire dai compensi ai Caf, i centri che aiutano i contribuenti a fare la dichiarazione dei redditi. Stando ai dati dell’Agenzia delle Entrate, 17,6 milioni di dichiarazioni su 19,4 milioni nel 2014 sono passati per i loro sportelli, il 45% dei quali è appannaggio dei sindacati. Per ogni modello lavorato ricevono 14 euro, che salgono a 26 per i 730 presentati insieme dai coniugi. Ipotizzando per prudenza che tutte le dichiarazioni gestite dai Caf sindacali siano state del primo tipo, l’incasso complessivo è di 111 milioni. Cifra che non si discosta molto, del resto, dalle cifre ufficiali del ministero dell’Economia.
Infine ci sono i patronati, emanazioni dei sindacati che forniscono servizi di assistenza a lavoratori e pensionati. Dietro rimborso da valere su un fondo alimentato dai contributi previdenziali. La Nota sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato curata da Giuliano Amato riporta che solo nel nel 2012 Inps, Inpdap, Inail e Ipsema hanno versato per il loro funzionamento 423 milioni. Esentasse. E a fare la parte del leone sono stati Inca Cgil, Inas Cisl e Ital Uil, per un totale di 182 milioni. La stessa relazione sostiene che “è evidente che il funzionamento dei patronati non comporti un finanziamento pubblico, sia pur indiretto, delle associazioni o organizzazioni promotrici”, ma subito dopo ricorda che “c’è per la verità un’unica disposizione (non legislativa, ma statutaria) che può essere letta in questa chiave”. Quella che dispone, “nel caso di scioglimento dell’ente, la devoluzione dell’intero patrimonio di quest’ultimo in favore dell’organizzazione promotrice”.
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ANTONELLO CHERCHI, IL SOLE 24 ORE 19/9 –
I cancelli chiusi: questo hanno trovato le migliaia di turisti e appassionati d’arte che ieri mattina contavano di visitare la Roma archeologica. Colosseo, Terme di Diocleziano, i Fori, gli scavi di Ostia antica: tutto chiuso dalle 8,30 alle 11,30 per assemblea sindacale. Riunione regolarmente autorizzata, ma che ha rimandato in giro per il mondo le immagini - già viste da ultimo a Pompei in luglio - di una lunga fila di 3mila persone tenute fuori dai monumenti dall’inaspettata serrata.
Una scena che non ha riguardato solo la capitale, ma anche altre città. A Firenze, per esempio, si sono registrati ritardi nell’accesso a Palazzo Pitti. A dimostrazione che il malessere sindacale non è locale, ma origina da cause nazionali: l’organizzazione del ministero dei Beni culturali, investito da una recente riforma, la mancanza di turn over, le rivendicazioni retributive con contratti nazionali bloccati da anni. Tutte ragioni che avranno anche il loro fondamento, ma difficile da apprezzare da chi, soprattutto straniero, ha dovuto rinunciare o aspettare ore prima di entrare al Colosseo.
«La misura è colma. Ora basta». Non ha usato mezzi termini il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, per commentare la situazione. «Il buonsenso nell’applicare regole e nell’esercitare diritti evidentemente non basta più per evitare danni al proprio Paese». Gli ha fatto eco il presidente del Consiglio con un tweet: «Non lasceremo la cultura in mano a questi sindacati».
Dalle parole ai fatti. Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che con un solo e stringato articolo inserisce i musei e i luoghi d’arte nell’alveo della legge sui servizi pubblici essenziali, la 146 del 1990. Il testo, su cui c’è stato l’imprimatur del Quirinale, prevede che le future assemblee sindacali debbano essere autorizzate dal Garante per gli scioperi e che in caso di mancato accordo il soprintendente possa procedere alla precettazione. Finora, invece, la richiesta di assemblea era recapitata al soprintendente, che si limitava a una presa d’atto, salvo chiedere ai sindacati di spostare la riunione se cadeva in concomitanza con un evento particolare.
Non si tratta - hanno commentato Renzi e Franceschini al termine del Consiglio di ministri - di un attacco al legittimo diritto di assemblea e sciopero. «E nessuno mette in dubbio - ha continuato il ministro dei Beni culturali - che la riunione di ieri fosse regolarmente autorizzata. Ci siamo, però, resi conto che le vecchie regole non funzionavano, perché finivano per produrre un danno ai turisti e all’immagine del Paese. Ci siamo mossi perché questo non si ripeta».
Anche il Garante degli scioperi, Roberto Alesse, aveva avuto modo di intervenire sull’argomento una volta saputo della chiusura dei monumenti. In una nota diffusa in mattinata aveva sottolineato come il fatto «porti, ancora una volta, alla ribalta l’urgenza di ricomprendere la fruizione dei beni culturali tra i servizi pubblici essenziali».
La novità varata dal Consiglio dei ministri è stata apprezzata da più parti. «L’attività sindacale è giusta - ha commentato la presidente della Camera, Laura Boldrini - ma le proteste non devono causare un danno alla cultura del Paese». Vanno, dunque, previsti «preavvisi e fasce di garanzia». D’accordo anche il sindaco della capitale, Ignazio Marino, che ha parlato di «uno schiaffo in faccia alle persone e di uno sfregio al Paese intollerabile». Secondo Francesco Prosperetti, soprintendente al Colosseo e all’area archeologica della capitale, l’intervento del Governo permetterà «di articolare le nostre relazioni industriali, se così si possono chiamare, in maniera del tutto nuova».
Anche dal fronte sindacale c’è stata una qualche apertura. Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl, ha ammesso che «è sbagliato prendere in ostaggio i turisti». Pure per Carmelo Barbagallo, segretario della Uil, «dobbiamo stare attenti a non trasformare le nostre ragioni in un problema per cittadini e turisti». Ma così come Furlan ha subito aggiunto che «il problema non si risolve con un decreto legge, ma sedendosi intorno a un tavolo e aprendo un confronto», Barbagallo ha parlato di «attacchi pretestuosi» nei confronti dei lavoratori.
Ancora più dura Susanna Camusso, leader della Cgil: «È uno strano Paese quello in cui non si può fare un’assemblea sindacale. Inoltre, essere servizio essenziale non significa che non si abbia la possibilità di fare assemblee o scioperi».
E a proposito di scioperi, Claudio Meloni, coordinatore nazionale Cgil per il settore dei Beni culturali, ha ventilato l’ipotesi di un’astensione nazionale. «Le procedure sono già state avviate». Ora, però, si dovranno fare i conti con le nuove regole.
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Antonello Cherchi
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ARMANDO TORNO, IL SOLE 24 ORE 19/9 –
Nell’attesa che il prossimo 8 dicembre si apra il giubileo dedicato alla misericordia, il quale per un anno recherà benefici di ogni genere, a Roma (ma anche nelle tante altre città d’arte) dovrebbe essere garantito per turisti e cittadini l’accesso ai siti archeologici. Né si può continuare a confondere la democrazia sui luoghi di lavoro come diritto di ricatto e di “sequestro” di ignari visitatori trattati quali ostaggi. Scriviamo queste parole con tristezza, dopo l’ennesimo increscioso episodio: ieri è stata ritardata alle 11,30 l’apertura dei monumenti storici più noti della Città Eterna a causa di un’assemblea sindacale. Continuapagina 7
L’iniziativa delle Rappresentanze sindacali unitarie dei lavoratori della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica ha causato tre ore di attesa e di fila per i malcapitati visitatori.
Le parole di commento del ministro della cultura Dario Franceschini, «La misura è colma», si potrebbero addirittura considerare lievi se confrontate con quelle di alcuni turisti proferite tra rabbia e incredulità; Federalberghi ha diffuso una dichiarazione in cui, tra l’altro, si ricorda: «Non è la prima volta che, per motivi sindacali, dinanzi ai siti archeologici di maggior richiamo del nostro Paese, si fanno trovare le porte chiuse senza preavviso a code di visitatori provenienti da tutto il mondo». Che aggiungere? Ci sembra sacrosanta la disposizione proposta dallo stesso Franceschini, d’accordo con Renzi: inserire i musei e i luoghi della cultura nei servizi pubblici essenziali. Non dimentichiamoci che per molte zone rappresentano una risorsa economica vitale.
Non spetta a noi discettare sulle ragioni dell’assemblea sindacale romana e sui motivi che l’hanno indotta, di certo non è difficile comprendere che i danni di queste trovate sono ormai superiori ai benefici che potrebbero recare. È l’immagine stessa dell’Italia a essere compromessa quando un turista si trova i cancelli sbarrati e non gli è possibile intenderne la ragione. D’altro canto, siamo certi che anche gran parte degli italiani – e non lo scriviamo per consolare il brasiliano esasperato dai disagi, autore di una sagace dichiarazione – ha ormai rinunciato a decifrare proprio la ragione degli scioperi, di talune assemblee o delle dichiarazioni provenienti dal sindacato. In un Paese dove le astensioni dal lavoro dei mezzi di trasporto e di altre categorie sono sovente organizzate nei giorni limitrofi al week end e la logica che guida taluni sindacalisti sembra avulsa dalla realtà, fatti come quelli di Roma non rappresentano più un’eccezione. Ben vengano dei provvedimenti che impediscano di recare danno al Paese, e quindi alla collettività, quando le azioni sindacali obbediscono soltanto a logiche interne, a ragioni che si potrebbero definire figlie del banale egoismo.
Nel mondo tutto sta cambiando, dal lavoro alla comunicazione, dal clima alle ricchezze, tuttavia è possibile incontrare alcuni sindacalisti che ragionano come se tutto fosse immobile. Credono ancora che il male assoluto sia il capitalismo. Sono loro i veri conservatori, gli ultimi sodali dei commissari di partito che in Russia (scusate: Urss) si sono estinti oltre un quarto di secolo fa.
Armando Torno
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OSCAR GIANNINO, IL MESSAGGERO 19/9 –
Era accaduto al Colosseo nel 2013. È riaccaduto agli scavi di Pompei il 24 luglio scorso. È puntualmente riavvenuto ieri al Colosseo, con le file di turisti non avvertiti. E in fila fuori al monumento chiuso per assemblea sindacale. Un oltraggio autolesionista al patrimonio più prezioso dell’Italia. Ogni volta i ministri e i governi di turno hanno durissimamente stigmatizzato. Anche ieri, Franceschini e Renzi hanno sparato a zero contro sindacalisti così irresponsabili. Non si può che essere d’accordo con le loro dure parole. E puntualmente il sindacato, ieri la Camusso, replica a difesa dei diritti sindacali. Dopo anni, è un dramma sempre eguale. Però parliamoci chiaro: da anni queste cose avvengono, perché è da anni che non si adottano le misure necessarie. A dirla tutta, la soluzione non è proclamare per decreto i monumenti e i musei “servizi pubblici essenziali”, perché guarda il caso molte volte interruzioni disastrose avvengono proprio a cominciare da uno dei più essenziali servizi, il trasporto pubblico locale.
A Roma, nello scorso luglio, 24 giorni consecutivi di sciopero bianco di un paio di sindacatini dell’Atac hanno messo in ginocchio la metro, con disagi pazzeschi per complessivamente milioni di cittadini e turisti, prima che il prefetto decidesse la precettazione. Ed è rarissimo che ci siano procure come quella di Torre Annunziata che, a fronte della chiusura per assemblea sindacale degli scavi di Pompei a fine luglio, ha aperto un fascicolo per interruzione di pubblico servizio ex articolo 340 del codice penale, riservandosi inoltre anche l’ipotesi di reati diversi, come il danno erariale. È rarissimo perché in Italia, in materia di diritti sindacali, la giurisprudenza cumulata è molto a favore dei sindacati. Basti pensare che nel nostro codice penale l’articolo 340 prevede pene di reclusione da 6 mesi a 1 anno per chi partecipa all’interruzione e da 1 a 3 anni per chi la organizza e ne è capo, ma se l’interruzione di pubblico servizio avviene a opera di un’impresa e non di lavoratori sindacalizzati, ecco che l’articolo 331 del codice penale alza le pene per gli organizzatori da 3 a 7 anni.
Se esaminiamo quanto è avvenuto ieri al Colosseo alla luce delle norme vigenti, l’assemblea sindacale era legittima, richiesta e autorizzata nei tempi dovuti. Ecco perché la Camusso può rispondere a brutto muso a Renzi che non sta né in cielo né in terra tacciare il sindacato di essere nemico dell’Italia. Sta ai dirigenti pubblici responsabili, a fronte di una richiesta d’assemblea, esaminare se l’assemblea configuri l’interruzione del servizio oppure no. Ma quand’anche musei e scavi fossero equiparati a servizi pubblici essenziali, il dirigente pubblico non potrebbe comunque chiedere preventivamente quanti custodi partecipino all’assemblea, per disporre eventualmente un servizio di vigilanza sostitutivo e temporaneo al fine di consentire l’accesso ai visitatori: perché sarebbe un comportamento antisindacale. Ed eccoci dunque alla già nota conclusione che ripetiamo, invano, da anni. In materia di esercizio dei diritti sindacali nei servizi pubblici, come in materia di sciopero nello stesso ambito, serve una vera e propria riforma di sistema, a modifica della legge 146 del 1990 e dei relativi annessi codici di autoregolamentazione, di settore e aziendali. Come si propongono di fare disegni di legge depositati in Senato: tra i più significativi uno di Pietro Ichino del Pd, l’altro di Maurizio Sacconi di Ncd.
Serve scrivere in legge alcune cose fondamentali. In materia di assemblee sindacali, occorre prevedere che se esse si tengono in orario di lavoro non possano configurare l’interruzione del servizio pubblico. Finché non sarà tassativamente così, quand’anche ci fosse un pm che voglia, come a Torre Annunziata, procedere per interruzione di pubblico servizio a fronte di chiusure come quelle del Colosseo e di Pompei, dovrebbe dimostrare che gli organizzatori dell’assemblea mirassero dolosamente all’interruzione del servizio, e che i singoli partecipanti ne fossero consapevoli. E dovrebbe provare che non incorrano gli estremi dell’articolo 51 del codice penale, per cui un fatto anche illecito non è punibile se posto in essere - in questo caso - in esercizio delle libertà sindacali e dell’articolo 40 della Costituzione.
Quanto allo sciopero, nei servizi pubblici essenziali occorre adottare un criterio rigoroso della rappresentanza minima sindacale di chi li può proclamare - Ichino propone il 50% dei lavoratori del settore, il sindacato naturalmente è contrario - e un referendum preventivo tra i lavoratori, che approvino la proposta come condizione perché lo sciopero si possa tenere. E perché il sì eventuale sia valido la percentuale minima dei favorevoli non deve essere troppo bassa, per capirlo basta dare un’occhiata ai 17 paesi europei su 28 in cui il voto dei lavoratori è previsto. Ecco, di questo c’è bisogno. Non di meno. I partiti - la destra per non essere accusata di antisindacalismo, la sinistra perché col sindacalismo era intrecciata - hanno sempre esitato a toccare queste materie, né hanno mai attuato la Costituzione con una legge che preveda democrazia interna e piena trasparenza economico-finanziaria dei sindacati. È venuto da tempo il momento di farlo. Ora per favore, la politica lo faccia davvero. Basta polemiche frontali a cui seguono misure non risolutive, perché altrimenti servono solo a salire nei sondaggi ma il problema resta e le figuracce internazionali continuano.
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ALBERTO GENTILI, IL MESSAGGERO 19/9 –
Ci ha messo novanta secondi, il governo, a varare il decreto salva-turisti. «Questa è una risposta a ciò che è accaduto oggi al Colosseo e in passato a Pompei», ha detto Matteo Renzi illustrando il provvedimento ai ministri, «e visto che siamo un Paese che punta sul turismo, non ci possiamo permettere cose del genere. Da adesso difendiamo i turisti». Poi il responsabile della Cultura, Dario Franceschini, ha letto il testo del decreto di appena due righe. E visto che nessuno ha preso la parola («eravamo tutti d’accordo», riferisce un ministro), Renzi ha dato il via libera.
L’ALLARME DI FRANCESCHINI
In mattinata, a innescare la reazione del governo era stato proprio Franceschini. Quando, poco dopo le dieci del mattino, il ministro della Cultura ha saputo del Colosseo e dei Fori imperiali sbarrati per ore a causa di un’assemblea sindacale, ha telefonato a Renzi: «Matteo, ci sono migliaia di turisti in coda, una figuraccia planetaria. Decine di tv straniere si sono scatenate per riprendere quelle immagini desolanti e sputtanarci. E’ un danno incalcolabile. Penso sia il caso di varare un decreto oggi stesso per includere i musei tra i servizi pubblici essenziali, così la smetteremo con queste agitazioni sindacali devastanti per l’immagine del Paese».
Renzi che già il 24 luglio, dopo che un’assemblea dei custodi aveva reso impraticabili gli scavi di Pompei, aveva minacciato azioni per limitare il diritto di sciopero nel settore dei beni culturali, non è stato a pensarci su. «Sono d’accordo. Procediamo. Ma prima serve il via libera di Mattarella. Bisogna capire se il capo dello Stato riconosce al provvedimento i requisiti di necessità e urgenza».
RENZI SONDA MATTARELLA
Il via libera del Quirinale, dopo una telefonata tra Renzi e Sergio Mattarella e dopo aver fatto presente al capo dello Stato che l’urgenza era motivata da altre assemblee di lavoratori già programmate nei prossimi giorni, è arrivato in poco meno di un’ora. A quel punto, alle dodici e mezzo, è scattato il tweet di Franceschini: «Assemblea al Colosseo e turisti fuori in fila. La misura è colma». E due ore dopo è arrivato il cinguettio di Renzi: «Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge #Colosseo #lavoltabuona». E il premier di certo non si è fatto impressionare dall’alzata di scudi di Susanna Camusso e degli altri vertici sindacali. Anzi.
Per capire come la pensa Renzi, basta tornare indietro di quaranta giorni. A quel 24 luglio in cui gli scavi di Pompei restarono sbarrati: «Fa male vedere che dopo tutto il lavoro fatto per salvare il sito e quindi i posti di lavoro a Pompei, un’assemblea sindacale blocca all’improvviso migliaia di turisti sotto il sole. C’è bisogno di buonsenso e di ragionevolezza, di responsabilità e di rispetto. Io non ce l’ho con i sindacati. Ma se continua così dovremo difendere i sindacati da se stessi».
Tra un tweet e l’altro, Renzi ha allertato l’ufficio legislativo di palazzo Chigi. Antonella Manzione, andando a pescare tra le proposte del presidente dell’Autorità di garanzia sugli scioperi Roberto Alesse e i disegni di legge a firma di Pietro Ichino e di Maurizio Sacconi approdati giovedì in Senato, ha impiegato meno di un’ora per scrivere il testo del decreto che integra la legge 146 del ’90. Due righe in cui si stabilisce che la fruizione delle aree museali entra tra i servizi pubblici essenziali. E che dunque, come per le scuole, per gli ospedali, per bus, metro, treni e aerei, sulle agitazioni vigilerà l’Autorità di garanzia.
Alberto Gentili
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VALERIA ARNALDI, IL MESSAGGERO 19/9 –
Chiusi per assemblea, per mancanza di dipendenti, per sciopero. Perfino per il caldo. I musei italiani non hanno vita facile. E meno facile ancora è quella dei loro - aspiranti - visitatori. La chiusura «per assemblea» che, ieri, ha precluso per ore l’accesso a Colosseo, Fori e ad alcune delle più importanti aree archeologiche di Roma è solo l’ultimo caso di una cronaca culturale nazionale costellata di “serrate” più o meno improvvise.
LA SITUAZIONE
Pressoché nelle stesse ore, seppure per meno tempo, sono stati inaccessibili anche la Galleria Palatina e il museo degli Argenti di Palazzo Pitti, a Firenze, aperti al pubblico con circa un’ora e mezzo di ritardo.
Erano stati gli Uffizi, mercoledì scorso, sempre per riunioni sindacali, a offrire un’apertura a tempo limitato. Una sorpresa che sta diventando quasi prassi nelle realtà italiane. Lo scorso 24 luglio il sito archeologico di Pompei, per un’agitazione dei lavoratori delle biglietterie, ha lasciato in coda i visitatori davanti alle cancellate chiuse. Esattamente come era accaduto, per assemblea, il 6 novembre 2014: oltre duemila persone hanno protestato sul piazzale, decine di migliaia sulle piazze virtuali.
LA CLASSIFICA
La città più colpita rimane Roma per ovvi motivi di ampiezza della rete espositiva, centralità politica, nonché riflettori. Il 30 gennaio, un’assemblea in piazza del Campidoglio, ha portato alla chiusura di tutti i musei civici, dai Capitolini all’Ara Pacis, dalle 10 alle 14. Nuovi disagi, dalle 12 alle 17, nelle strutture, il 24 luglio. Stessa motivazione: assemblea sindacale. Il 29 aprile, uno sciopero ha chiuso la Valle dei Templi ad Agrigento. Scongiurato quello annunciato agli Uffizi per la scorsa Pasqua: l’accordo con i sindacati è stato raggiunto in tempo, forse per la pressione del ricordo della chiusura per due ore il 28 giugno 2013, con non pochi disagi. Lo scenario delle serrate per assemblea si è riproposto, nei mesi passati, in più sedi museali a Genova e Vicenza.
Non solo manifestazioni di dissenso. A tenere chiuse le porte della cultura sono stati pure gli agenti atmosferici. Il caldo eccessivo, lo scorso agosto, ha limitato il percorso di visita al museo di Capodimonte. Stesso problema a Roma, alla Biblioteca Nazionale che, in estate, ha anticipato la chiusura alle 13.30. Decisamente diverso il ferragosto al Maxxi, inaccessibile per infiltrazioni d’acqua. Le scarse risorse complicano la situazione. Il Colosseo finì al centro delle polemiche per la chiusura straordinaria alla Notte dei Musei 2014: non si trovarono cinque volontari, tra i dipendenti, per tenerlo aperto.
GLI ORGANICI
E la carenza di organico sta limitando calendari e orari in varie realtà, dal museo di Aquileia, a Udine, al museo della Nave Punica di Marsala. A luglio, il museo archeologico regionale di contrada Santo Spirito, a Caltanissetta, brillava per i suoi trentaquattro addetti, ma nello stesso periodo, il vicino parco archeologico di Sabucina rimaneva chiuso per mancanza di personale.
E lo straordinario si somma a un ordinario che, rispetto alla maggioranza degli altri Paesi europei, prevede un giorno di riposo settimanale. Qualche realtà virtuosa c’è. La Torre di Pisa, aperta tutti i giorni, dal 17 al 31 agosto ha prolungato l’orario fino alle 22. Il museo Madre, a Napoli, ad agosto, ha eliminato il biglietto, come fa ogni estate dal 2013. Decisamente, un regalo non da tutti.
Valeria Arnaldi
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GIORGIO DELL’ARTI, LA GAZZETTA DELLO SPORT 19/9 –
GIORGIO DELL’ARTI
gda@gazzetta.it
Apertura ritardata di tre ore, ieri mattina a Roma, del Colosseo, del Foro romano, del Palatino, delle Terme di Diocleziano, di Ostia antica. Motivo: un’assemblea sindacale di tutto il personale convocata per via di varie inadempienze dell’amministrazione. Si sono perciò formate file di turisti piuttosto cospicue (al Colosseo, è stato calcolato, tremila persone), per cui il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini è salito su tutte le furie, il presidente del Consiglio Matteo Renzi pure e in consiglio dei ministri è stato varato un decreto che fa rientrare musei e luoghi di cultura tra i servizi pubblici essenziali, il che renderebbe più complicati (ma Camusso dice di no) scioperi e assemblee. I sindacati sono furibondi a loro volta, e insomma siamo all’ennesimo teatrino italiano, non so quanto appassionant e.
1 Chi ha ragione?
Dividerei la risposta in due capitoli. Intitolerei il primo capitolo: “La fattispecie”. Intitolerei il secondo capitolo: “Lo spirito dei tempi”. Cominciamo?
2 Cominciamo.
La fattispecie dà senz’altro ragione ai sindacati. L’assemblea è stata chiesta nei tempi previsti e il sovrintendente, con le regole attuali, non aveva il potere di bloccarla. Le ragioni dell’assemblea, stando ai comunicati e al manifesto affisso, sembrano piuttosto forti specialmente nei primi due punti: mancato pagamento delle indennità di turnazione e delle prestazioni per le aperture straordinarie (aspettano da undici mesi); contratto di lavoro che nella parte economica non si rinnova da anni nonostante la Consulta abbia dichiarato incostituzionale il blocco dei salari. Negli altri due punti i sindacati chiedono il confronto sulla creazione di un Consorzio per la gestione dell’Area centrale e di un altro confronto sull’organizzazione del lavoro all’interno della Soprintendenza. Queste sono richieste dal sapore vecchio, poco in linea con i tempi. Franceschini, Renzi e Marino se la sono presa con i sindacalisti rovina-turismo ma non hanno detto una parola nel merito. Le file dei turisti non sono poi colpa del sindacato ma di tutta la struttura comunale o della sovrintendenza che non ha pensato a un’informazione adeguata per i turisti affiggendo manifesti dappertutto in modo visibile. Il sindacato s’è limitato ad appiccicare un comunicato in inglese, in un punto poco visibile e anche con un errore materiale (si annunciava la chiusura fino alle 23 invece che fino alle 11). Quindi, in base a quello che capisco, le rappresentanze sindacali, in questo caso, hanno ragione.
3 Poi c’è lo spirito dei tempi.
Il sito di Repubblica ha interrogato i suoi lettori, se capiamo qualcosa della linea di quel giornale lettori schierati soprattutto a sinistra. L’80 per cento dei diecimila che hanno risposto ha barrato la casella «Ha ragione il ministro: le attività sindacali vanno regolate come quelle di trasporti e sanità». La casella «Il ministro sbaglia» ha raccolto appena il 5% dei consensi. Questo è lo spirito dei tempi. L’opinione pubblica sente che il sindacato è ormai un agglomerato di interessi suoi propri, che fa quello che fa più per sopravvivere come organizzazione che per rappresentare l’interesse dei lavoratori o, come ci si illudeva ai miei tempi, l’interesse generale della società. La Camusso ha rilasciato una dichiarazione stizzita, del tutto non all’altezza dell’enorme problema che hanno di fronte Cgil, Cisl e Uil: «... allora si dica chiaramente che i lavoratori non possono più avere strumenti di democrazia...». Ma nessuno pensa più che questa sia “la democrazia”, e chi lo pensa, tante volte, è in malafede. Il sindacato rifiuta una riflessione profonda e spietata su se stesso.
4 È giusto equiparare il lavoro nei musei all’autotrasporto o magari ai servizi di polizia?
Non si devono varare leggi sull’onda di un’indignazione del momento. E poi per decreto! Dov’è l’urgenza che giustifica un decreto? È che l’altra strada è più difficile: regolare con una legge la natura del sindacato. A parte che i sindacati di solito non vogliono, ma una legge che disciplini il sindacato - tra l’altro prevista dalla Costituzione - non potrebbe essere varata senza un’analoga legge che disciplini anche i partiti. Magari definendoli una volta per tutte soggetti privati con fini di lucro e obbligandoli a presentare i bilanci e pagare le tasse. Magari obbligandoli a quotarsi in Borsa in modo da essere poi sottoposti ai controlli della Consob.
5 Le dichiarazioni di Renzi e Franceschini?
Franceschini: «La misura è colma» ricordando poi che queste azioni sindacali arrivano in un momento di massima domanda turistica, con Expo e il Giubileo. Renzi (twittando): «Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l’Italia. Oggi decreto legge #Colosseo#lavoltabuona». E ancora: «Non è un diritto in meno ai sindacati, ma un diritto in più agli italiani».
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STEFANO LIVADIOTTI, L’ESPRESSO 18/9 –
Per Susanna Camusso è quasi un’ossessione. Da quando si è insediata al vertice della Cgil (il 3 novembre 2010) si è arrampicata 67 volte su palchi di ogni ordine e grado per invocare trasparenza. La leader del più grande sindacato italiano se ne è poi però puntualmente dimenticata man mano si avvicinava la fine dell’anno e il momento per la Cgil di fare due conti sui contributi degli iscritti rastrellati nei dodici mesi. Sì, perché il sindacato di corso d’Italia, che non è tenuto a farlo per legge, si guarda bene dal pubblicare un bilancio consolidato: come del resto i cugini di Cisl e Uil, si limita a mettere insieme in poche paginette i numeri che riguardano la sola attività del quartier generale romano. Spiccioli, rispetto al vero giro di soldi delle confederazioni, che negli anni si sono trasformate in apparati capaci di lucrare pure su cassintegrati e lavoratori socialmente utili (nell’ultimo anno l’Inps ha versato a Cgil, Cisl e Uil 59,4 milioni di trattenute su ammortizzatori sociali)
«I sindacati hanno un sacco di soldi», si è lamentato nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che non li ama davvero. Diversi recenti episodi di cronaca confermano che di denari nei corridoi delle sedi sindacali ne girano parecchi. E che il loro uso è molto spesso un po’ troppo disinvolto. Ai primi di novembre 2014 ha mollato di colpo il suo incarico il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: nel palazzo circolava un dossier dove si documentava l’impennata del suo stipendio dai 79 mila euro precedenti la nomina ai 336 mila del 2011. E quest’estate una mail di un dirigente della Cisl ha alzato il velo sulla retribuzione d’oro di alcuni suoi colleghi capaci di mettere il cappello su più incarichi: il presidente del patronato Inas-Cisl, Antonino Sorgi, per esempio, nel 2014 ha portato a casa 77.969 euro di pensione, più 100.123 per l’Inas e altri 77.957 per l’Inas immobiliare.
I soldi dunque li hanno. Ma sapere quanti è quasi impossibile. I veri bilanci dei sindacati sono uno dei segreti meglio custoditi del Paese. Loro si rifiutano di fornire dati esaustivi. E chi conosce le cifre preferisce non esporsi. Così, almeno su alcuni capitoli, bisogna andare per approssimazione. Vediamo.
IL TESORETTO DEI TESSERATI
Lo zoccolo duro delle finanze sindacali è la tessera, che ogni iscritto paga con una piccola quota dello stipendio di base (o della pensione). Nei bilanci delle tre confederazioni sono indicati complessivamente 68 milioni 622 mila 445 euro e 89 centesimi. Ma è una presa in giro bella e buona. Si tratta infatti solo delle quote trattenute dalle holding. Per avvicinarsi alla cifra vera bisogna seguire un altro percorso. Cgil, Cisl e Uil dichiarano di rappresentare tutte insieme 11 milioni 784 mila e 662 teste (che scendono in picchiata quando è il momento di versare i contributi alla Confédération Européenne des Syndicats, dove si paga un tanto per iscritto). I sindacati chiedono per l’iscrizione lo 0,80 per cento della retribuzione annua ai lavoratori attivi e la metà ai pensionati. Conoscendo la ripartizione degli iscritti tra le due categorie, gli stipendi medi dei dipendenti italiani (25.858 euro lordi, secondo l’Istat) e le pensioni medie (16.314 euro lordi, per l’Istat), è dunque possibile fare il conto. La Cgil dovrebbe incassare 741 milioni di euro e rotti (loro ammettono poco più della metà: 425 milioni). Alla Cisl si arriverebbe a 608 milioni (in via Po parlano di 80 milioni circa). E la Uil intascherebbe 315 milioni (in via Lucullo ridimensionano a un centinaio di milioni).
Solo le tessere garantirebbero dunque quasi 1,7 miliardi. Ora: è possibile che i calcoli de “l’Espresso” siano approssimati per eccesso, se si considerano il mix degli iscritti (full-time, part-time, stagionali); la durata del versamento, non sempre ininterrotto; l’incidenza di eventuali periodi di cassa integrazione. Ma una cosa è certa: il tesoretto delle tessere non vale solo i circa 600 milioni e spicci che dicono Cgil, Cisl e Uil. Secondo quanto “l’Espresso” è in grado di rivelare, infatti, nell’ultimo anno solo l’Inps ha trattenuto dalle pensioni erogate, e girato a Cgil, Cisl e Uil, 260 milioni per il pagamento della tessera sindacale. Una cifra alla quale va sommata la quota-parte di competenza delle confederazioni sui 266 milioni che l’Inps incassa da artigiani e commercianti e poi trasferisce alle organizzazioni dei lavoratori per la tassa di iscrizione. Già con queste voci si arriva vicino alla somma totale ammessa da Cgil, Cisl e Uil. I conti dunque non tornano.
Fin qua abbiamo comunque parlato di soldi di privati e quindi di affari dei sindacati e di chi decide di finanziarli (anche se Cgil, Cisl e Uil non sempre giocano pulito: una serie di meccanismi impone a chi straccia la tessera di continuare a versare a lungo il suo obolo). Poi c’è, però, tutto il capitolo dei quattrini pubblici, dove la trasparenza non dovrebbe essere un optional. In prima fila si trovano i Caf, i centri di assistenza fiscale che aiutano i cittadini per la dichiarazione dei redditi (e intanto fanno proselitismo): in teoria sono cosa a parte rispetto ai sindacati, ma il legame è strettissimo.
La legge di Stabilità 2011 ha tagliato i loro compensi. Così piangono miseria, tanto più oggi con l’arrivo della dichiarazione precompilata, che toglierà loro clienti. Ma che presidino un business ricchissimo lo dimostra un fatto: per scardinare il loro monopolio è dovuta intervenire, il 30 marzo del 2006, la Corte di Giustizia Europea, che ha imposto al governo italiano di consentire la presentazione dei modelli 730 anche a commercialisti, esperti contabili e consulenti del lavoro. All’Agenzia delle Entrate dicono che su 19 milioni, 41 mila e 546 dichiarazioni 2014 quelle passate dai Caf sono più di 17,6 milioni (il 92,6 per cento). Siccome i centri di assistenza incassano dallo Stato 14 euro per ogni dichiarazione (e 26 per i 730 presentati in forma congiunta dai coniugi) e il 45 per cento del settore è appannaggio dei sindacati è facile calcolare il loro giro d’affari: se anche le dichiarazioni che compilano e presentano fossero tutte singole (e così non è) si arriverebbe a più di 111 milioni. In questo caso, i dati ufficiali del ministero dell’Economia non si discostano troppo dalle stime: dicono che nel 2014 il Caf della Cgil ha incassato 42,3 milioni di euro (oltre ai contributi volontari della clientela), quello della Cisl 38,6 milioni e quello della Uil 15,5 milioni. Ai quali vanno sommati i 20,5 milioni che l’Inps ha versato nell’ultimo anno ai Caf confederali per i modelli 730 dei pensionati. E gli ulteriori 33,9 milioni sborsati sempre dall’istituto presieduto dal professor Tito Boeri a favore dei Caf confederali per la gestione di servizi in convenzione (dalle pratiche relative agli assegni di invalidità civile a quelle dell’Isee, l’indicatore per l’accesso alle diverse prestazioni assistenziali).
SOLO DALL’INPS 423 MILIONI
Poi ci sono i patronati, che forniscono gratuitamente servizi di assistenza a lavoratori e pensionati per prestazioni di sicurezza sociale e vengono poi rimborsati dagli istituti di previdenza. Secondo la “Nota sul finanziamento diretto e indiretto del sindacato”, messa a punto da Giuliano Amato su incarico dell’allora premier Mario Monti, solo nel 2012 l’Inps ha versato loro 423,2 milioni di euro (quattrini esentasse, per giunta, in base a una logica imperscrutabile).
Secondo quanto risulta a “l’Espresso”, a fare la parte del leone sono stati Inca-Cgil (85,3 milioni di euro), Inas-Cisl (65,5 milioni) e Ital-Uil (31,2 milioni). «Sembra evidente che il funzionamento dei patronati non comporti un finanziamento pubblico, sia pur indiretto, delle associazioni o organizzazioni promotrici (i sindacati, ndr)», ha scritto Amato nella sua relazione. Poi però lo stesso Dottor Sottile si è sentito in dovere di aggiungere una postilla: «C’è per la verità un’unica disposizione (non legislativa, ma statutaria) che può essere letta in questa chiave e cioè quella secondo cui, nel caso di scioglimento dell’ente (il patronato, ndr), è prevista la devoluzione dell’intero patrimonio di quest’ultimo in favore dell’organizzazione promotrice. Al di la di ciò...». Ma come sarebbe a dire “al di la di ciò”?
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GIORGIO POGLIOTTI, IL SOLE 24 ORE 18/9 –
Alla crisi di rappresentanza la Cgil risponde riorganizzandosi con l’obiettivo di dare più potere agli iscritti e ai delegati che avranno la maggioranza negli organismi chiamati ad eleggere segretari generali e rispettive segreterie, a tutti i livelli. Attualmente è il direttivo, composto tra il 20 e il 30% da membri espressione diretta di luoghi di lavoro (e pensionati), ad eleggerli. Per dare più peso al territorio, le camere del lavoro dovranno diventare il fulcro dell’attività sindacale.
Sono le due novità annunciate ieri dal segretario organizzativo della Cgil, Nino Baseotto, nella relazione introduttiva alla conferenza organizzativa che oggi si pronuncerà sulla proposta, criticata dall’opposizione interna guidata dal leader della Fiom, Maurizio Landini. «Vogliamo che qualsiasi segretario generale o componente di segreteria sia eletto da un organismo composto a maggioranza da lavoratori e pensionati dello Spi - ha detto-. Per un’organizzazione che fin qui, soprattutto per le strutture apicali, ha sempre eletto i propri organi esecutivi col voto preponderante degli apparati a tempo pieno è un cambio di passo significativo». La novità non soddisfa Landini che annuncia un voto contrario: «Per recuperare credibilità bisogna allargare la democrazia - sostiene - aprendo il confronto a tutti gli iscritti sul tema della rappresentanza e portando le proposte al prossimo congresso, non chiudendolo, come si vuol fare con questa conferenza. Nel merito, ritengo debbano essere solo i delegati eletti nei luoghi di lavoro a votare i vertici del sindacato, non un direttivo allargato, nominato secondo i vecchi criteri».
La Cgil dichiara 5,6 milioni di iscritti, tra loro 2,6 milioni sono attivi e quasi 3 milioni di pensionati) raffrontando i dati del tesseramento con quelli dell’Istat, Baseotto ha evidenziato due categorie sotto rappresentate, sollecitando un «cambio di passo»: i lavoratori under 35 sono il 18% degli iscritti ma rappresentano il 22,6% degli occupati; i precari sono il 4% degli iscritti e il 17% degli occupati. In tema di trasparenza, dopo le polemiche estive sui megacompensi di alcuni sindacalisti della Cisl, Baseotto ha citato il Regolamento del personale e gli stipendi disponibili sul sito web: «Risalgono al 2008 - ha aggiunto- non è un errore. La segreteria e il direttivo non hanno adeguato i salari per rispetto alle migliaia di lavoratori colpiti dalla crisi. Il segretario generale della Cgil guadagna 3.850 euro netti, un componente della segreteria nazionale poco meno di 2.800 euro. E siamo quelli che guadagnano di più». Un invito a cambiare arriva dalla leader dei pensionati dello Spi, Carla Cantone, neosegretaria generale dei pensionati europei (Ferpa): «Il sindacato deve cambiare perché altrimenti ci sarà chi deciderà non per noi ma contro di noi» ha detto, senza rispamiare una stoccata alla linea della confederazione: «Va ricostruito il rapporto con la politica - ha aggiunto Cantone -. La nostra autonomia è sacrosanta, ma senza risultati è come farci i complimenti allo specchio. L’alternativa non può essere il totale isolamento o il distacco dalla politica».
©Giorgio Pogliotti
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MARIO AJELLO, IL MESSAGGERO 5/9 –
Sono l’altra casta i sindacati. Perfino più vorace di quella rappresentata dal ceto politico. Perfino più impenetrabile del Palazzo dei partiti, per quanto riguarda i bilanci, gli stipendi, le prebende, i favoritismi interni e corporativi, le manchevolezze nei confronti dello Stato costretto a risparmiare e a tagliare tutto a tutti mentre la casta sindacale come un corpo a sè si auto-governa, si auto-premia e si crogiola usque tandem? nel proprio mondo a parte ben remunerato tra stipendi e pensioni.
Il reddito dei sindacalisti, per esempio, è uno dei punti oscuri di questa storia italianissima. L’unico modo di saperne qualcosa è che qualcuno che li conosce davvero si decida a parlarne. Così è avvenuto venti giorni fa a Fausto Scandola, iscritto alla Cisl dal 1968 (e ora espulso), che ha pubblicamente chiesto alla sua organizzazione come possano davvero dirsi rappresentanti dei lavoratori dei dirigenti sindacali – dei quali ha fatto nomi e cognomi – che, sommando compensi per il proprio ruolo e quelli per incarichi ricoperti grazie al proprio ruolo, arrivano a sfiorare i 300 mila euro lordi di reddito annuo. Il che significa più del Capo dello Stato italiano, ovviamente più di Barack Obama. E più del massimo consentito per legge a qualunque dirigente pubblico. Ma soprattutto, 15 volte di più rispetto al reddito medio degli italiani.
RICHIESTE
Ogni tanto, qualcuno osa a chiedere chiarezza, ma il muro di gomma sindacale assorbe tutte le velleità di certificazione. Matteo Renzi sembra insistente su questo tema, o almeno ci prova e ci riprova a sbrecciare quel muro. Con dichiarazioni così: «I sindacati mettano on line le spese che hanno, esattamente come fanno tutti gli altri». Ma Cgil, Cisl e Uil e le altre sigle e siglette non ammettono intrusioni di sorta. La cifra più accreditata dice che i tre sindacatoni valgono complessivamente due miliardi di euro all’anno. Ma le stime sono difficili, causa non trasparenza del sistema di casta. Quanto agli stipendi, ogni tanto negli anni le confederazioni hanno dichiarato delle cifre di compenso dei massimi dirigenti. Fino ai tempi di Epifani segretario della Cgil, la sua retribuzione mensile lorda dichiarata era di poco superiore ai 3 mila euro (netti) e la dozzina di membri della segreteria nazionale confederale sotto i 3 mila euro. Leggermente superiore quella di Angeletti alla Uil, e dei suoi membri della segreteria rispetto a quelli Cgil. Mentre il capo della Fiom, Landini, ancora oggi starebbe sotto i 3 mila euro.
La vicenda del predecessore della Furlan, Raffaele Bonanni, è paradossale. E’ stato travolto proprio dall’emergere della incredibile crescita della sua retribuzione negli ultimi 5 anni di guida della Cisl. Bonanni è andato a casa e sparito in silenzio, dopo che dai 118 mila euro lordi del 2006 passò vertiginosamente ai 336 mila dell’ultimo anno di leadership del sindacato. E naturalmente facendo media piena a fini previdenziali degli ultimi 5 anni di maxi-salari, perché non soggetto alla riforma Dini né Fornero e potendo contare su pensione pienamente retributiva.
Nessuna trasparenza, ad esempio, sui nomi dei 17.319 sindacalisti che hanno beneficiato della norma contenuta nel decreto 564 del 1996, sulle cosiddette ”pensioni d’oro”. Il problema generale è che in Italia e la colpa è della politica ci si è ben guardati dall’attuare l’articolo 39 della Costituzione, disciplinando cioè per legge i diritti ma anche i doveri dei sindacati, tra cui il rispetto pieno della democrazia interna e gli obblighi di trasparenza finanziaria. E così, i sindacati nel nostro Paese sono praticamente associazioni private, non tenute a redigere un bilancio consolidato nazionale, né economico né patrimoniale. Il patrimonio dei sindacati è gigantesco ma può soltanto essere ipotizzato senza allargarsi troppo: oltre diecimila immobili tra Cgil, Cisl e Uil.
IL MODELLO
Tutta questa oscurità, a fronte di consistenti finanziamenti pubblici. Circa un miliardo e mezzo di euro all’anno. E pensare che, di fronte a tanta generosità di Stato, i sindacati per di più allo Stato tolgono altri soldi attraverso i permessi sindacali. Un privilegio a cui si è finalmente, in parte, messo mano, ma che nel 2010 è costato secondo una rilevazione della Corte dei Conti un ammanco di 151 milioni di euro nel settore pubblico.
Qual è l’alternativa, a questo regime di pazzesca discrezionalità difeso con le unghie proprio dai sindacati che gridano ogni giorno per la mancata trasparenza delle imprese e della pubblica amministrazione? Gli esperti sostengono che l’alternativa sia il modello britannico. Nel Regno Unito un organo pubblico, il Government Certification Officer, ha il compito di tenere ufficialmente gli elenchi degli iscritti a sindacati e associazioni datoriali. Annualmente i lavoratori e i cittadini britannici sanno tutto delle retribuzioni di migliaia di sindacalisti. Ma è la Gran Bretagna, bellezza, e noi non possiamo farci niente!
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ILVO DIAMANTI, LA REPUBBLICA 31/8 –
Ma cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache degli ultimi mesi. Delle ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: “Il sindacato in Italia è stato mediamente un fattore di ritardo” che ha ostacolato “l’efficienza e la competitività complessiva del Paese”. Motivo della critica: la vicenda dell’Electrolux, dove i dipendenti hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell’azienda, nonostante il rifiuto dei rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali. La sua polemica con il sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri leader, più “rappresentativi” di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in conflitto con la Fiom, ha dichiarato che “il posto fisso non esiste più”. E, implicitamente, hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno, spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese.
Conseguenti a uno stipendio salito, negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco...) “esagerate”. Il segretario nazionale dei pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l’anno. Tutto regolare, sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi “magri” per i lavoratori. E i pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista veronese “colpevole” di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso - lui, non i dirigenti ultra pagati – la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza, vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di militanza, comunica, pubblicamente: “Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho conosciuto, perché ce n’è bisogno”. Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato.
Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale, Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora, Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto “mediatico”. Di successo.
Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d’opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%.
D’altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell’impiego privato. Per contro, “rappresenta”, sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D’altronde, le adesioni sindacali nell’impiego privato non sono facilmente verificabili.
Tuttavia, ciò non dipende solo dall’incapacità del sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società. Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati. Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile. Insomma, non c’è più “un” tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori “atipici”. E “atopici”. Senza un “posto” fisso. Presso i quali il sindacato “attecchisce” a fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il 16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia: dal 10% al 36%.
Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi dirigenti.
Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi.
Perché il sindacato è “servito” a tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi, hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così. Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei “diritti”, posta da un grande leader sindacale come Bruno Trentin, – ha osservato Bruno Manghi – è “brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui”.
Ma a quel punto “i diritti” perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli “esclusi”, ma anche per il sindacato.
Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il “sindacato degli imprenditori” ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2% registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione “Confindustria” i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si sono allargate anche all’interno. Molte imprese – soprattutto le più grandi – si “tutelano” e si rappresentano sempre più da sole. A partire dalla Fiat di Sergio Marchionne. “Il tempo è scaduto anche per Confindustria”, ha affermato Alessandro Barilla due anni fa.
Neppure questa, però, è una buona notizia. Per nessuno.
Perché, nell’epoca dei partiti personali e personalizzati, al tempo dei partiti senza società, dove avanzano leader “soli” e da “soli": la burocratizzazione del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali, lascia i cittadini ancora più “soli”. Più lontani dalla politica e dalle istituzioni.
Così, senza mediazione e mediatori, la democrazia rappresentativa diventa sempre più incolore.
Una parola insignificante.
Ilvo Diamanti, la Repubblica 31/8/2015
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SALVATORE CANNAVO’, IL FATTO QUOTIDIANO 24/8 –
Gli stipendi d’oro dei sindacalisti fanno scandalo. Ma costituiscono solo la punta di un iceberg più corposo. I 336 mila euro di Raffaele Bonanni(l’anno prima di andare in pensione), i 256 mila di Antonino Sorgi, dell’Inas-Cisl o i 262 mila euro del segretario della Fisascat-Cisl, Pierangelo Raineri (262 mila), fanno impressione. Ma non si tratta solo di furbizia o malversazione.
Certi redditi sono possibili anche per l’enorme quantità di enti, fondi, comitati che affiancano la vita del sindacato, di cui poco si conosce e che il Primo Rapporto sugli Enti bilaterali redatto da Italia Lavoro (767 pagine) aiuta a capire meglio anche se i rivoli sono infiniti come dimostra il caso degli Enti di formazione che vedremo più avanti.
BILATERALE A VITA
Sono più di 10 mila le poltrone “bilaterali”. Gli Organismi da cui derivano nascono nei contratti di lavoro ed erogano servizi di assistenza previdenziale, sanitaria, formazione, sostegno al reddito. Sono per lo più “associazioni non riconosciute” che non presentano bilanci pubblici e, soprattutto, non sono sottoposti a nessun controllo.
Alcuni esulano dalla definizione istituzionale come l’Enasarco che gestisce la previdenza degli agenti di commercio, ma sempre in base a un accordo tra le parti sociali. Uno status ancora differente è quello dell’Inpgi, l’istituto previdenziale dei giornalisti, che pure è controllato dalla categoria.
Ci sono, poi, i Fondi previdenziali, quelli sanitari, i Fondi per la formazione professionale. Generano presidenze ambite, vicepresidenze ben retribuite, gettoni di presenza a piovere. Una rete finanziata dal “monte salari” (anche se formalmente sono le imprese a versare i contributi) con un prelievo dello 0,30 -0,50% in busta paga che può arrivare all’1%. Per i fondi previdenziali e sanitari ( i primi sotto il controllo del Covip e i secondi dell’Anagrafe del ministero della Salute) si arriva anche al 3-4%). I 536 fondi previdenziali, nel 2013, gestivano 104 miliardi di euro per 5,8 milioni di iscritti. I 260 fondi sanitari avevano 7 milioni di iscritti e i 545 Enti bilaterali (di cui solo 29 nazionali) abbracciano la gran parte del lavoro dipendente. Ci sono poi i 21 Fondi Interprofessionali, una serie di Fondi di solidarietà regolamentati dalla legge Fornero, e altre strutture minori. Si tratta di oltre 1300 organismi in cui, nei consigli di amministrazione, non ci sono mai meno di sei membri (tre per Cgil, Cisl e Uil e tre di parte datoriale). Più spesso si supera il numero di dieci. Da qui, la cifra di oltre 10 mila poltrone più o meno retribuite. Quanto?
POSTI DA 70 MILA EURO
Secondo un studio della Filcams-Cgil, sindacato del commercio in cui gli Enti bilaterali abbondano, “i compensi per la presidenza e gli altri organi variano nelle diverse realtà (…) fino a raggiungere indennità elevatissime – 70 mila euro annui – per la Presidenza”. I regolamenti sindacali imporrebbero di versare gettoni e indennità alla propria associazione ma spesso non accade. Oppure non ci sono le sanzioni. Quel che è peggio, nota la Filcams, è che la quantità di risorse destinate ai servizi “non supera quasi mai il 50% dei contributi incassati”. Soldi sicuri per i super-stipendi, meno per i servizi da erogare.
Uno dei nomi reso pubblico da Fausto Scandola, Pierangelo Raineri, è segretario della Fisascat Cisl, consigliere dell’Enasarco, consigliere del fondo di sanità integrativa Est, presidente della cassa di assistenza sanitaria Quas. I suoi 262 mila euro si spiegano anche così. Un altro caso è quello di Brunetto Boco, segretario della UilTucs ma anche presidente dell’Enasarco, incarico per il quale percepisce 135.324 euro lordi annui a cui aggiungere 270 euro per ogni seduta del Cda. L’Enasarco ha in bilancio la bellezza di 1,3 milioni di euro per il funzionamento dei suoi organi statutari (48 mila euro di Raineri vengono da qui). Ma Boco è anche vicepresidente del fondo Est, che ha messo a bilancio 420 mila euro per il funzionamento degli organi. Il suo reddito è quindi paragonabile a quello dei dirigenti Cisl contestati. Il Fonchim (chimici), primo fondo italiano con 4,7 miliardi di patrimonio gestito, è presieduto dal professor Adriano Propersi, indicato dalle imprese, mentre il vice è il sindacalista Femca Cisl, Paolo Bicicchi che, prima di passare al Fonchim era vicepresidente di un altro fondo, il Pegaso. Nel Cda, per la Cgil, siede Alberto Morselli che è stato fino al 2012 il segretario generale della categoria. Fonchim destina agli organi statutari 588 mila euro annui e spende per la gestione 1,2 milioni di euro. Il Fondo Cometa, dei metalmeccanici, è presieduto dall’ex segretaria Fim, Annamaria Trovò, ha dodici componenti per il Cda e spende per i suoi “organi”, 250 mila euro annui più 1,1 milioni per il personale.
GIORNALISTI MANAGER
È invece un ente di diritto privato controllato dal ministero del Lavoro, l’Inpgi, l’istituto dei giornalisti il cui Cda è formato da 16 componenti di cui 11 eletti nella categoria. Il presidente, Andrea Camporese – indagato per il caso Sopaf – guadagna 255.728 euro annui a cui vanno aggiunti 60 mila euro di “ristoro del danno da aspettativa non retribuita”. Totale, 315 mila per un istituto per il quale si è appena resa necessaria una manovra di aggiustamento. Camporese è stato segretario dei giornalisti del Veneto e il suo vice, Paolo Serventi Longhi, 43.148 euro di indennità, è stato il segretario della Fnsi.
Trattandosi di centinaia e centinaia di enti, la pratica del doppio incarico è molto diffusa. Come Raineri, quattro incarichi anche per Paolo Andreani, segreteria UilTucs, vicepresidente della Coopersalute, presidente di Quadrifor, consigliere Quas; Ferruccio Fiorot, segreteria Fisascat, presidente dell’ente Ebinter, consigliere dell’ent Ebnter, direttivo nel fondo Est; Fabrizio Russo, della Filcams-Cgil, è nel consiglio Ebinter, in quello di Ebnter e nel Comitato del fondo Est. Curioso il caso di Michele Carpinetti, Cgil, presidente di Ebnter, consigliere di Ebinter ed ex sindaco di Mira, cittadina veneta dove è stato sconfitto dal Movimento 5 Stelle.
FONDI SENZA CONTROLLO
Fondimpresa è il più grande Fondo di formazione professionale. Sono in tutto 21, gestiscono circa 600 milioni l’anno derivati dal contributo dello 0,30% sul monte stipendi versato dalle aziende all’Inps che a sua volta lo gira ai fondi. Fondimpresa nel 2014 ha gestito 363 milioni, il 47% del totale. Alle spese di gestione ha destinato oltre 5 milioni, mentre 347 milioni sono andati direttamente alla formazione. I 2,5 milioni stanziati per “personale e organi statutari”, però, rendono comunque appetibile il suo Cda. Non a caso presieduto dall’ex presidente di Confindustria, Giorgio Fossa, mentre Cgil, Cisl e Uil vi hanno designato un ex segretario di categoria, Bruno Vitali della Fim-Cisl, il responsabile dei fondi interprofessionali della Cgil, Luciano Silvestri e l’ex segretario confederale Uil, Paolo Carcassi.
I Fondi interprofessionali attualmente non rendono conto a nessuno. Al loro interno può capitare, e capita spesso, quello che è avvenuto alla Fisascat (ancora!) di Roma e Lazio il cui segretario, Giuseppe Pietro Janni (ora fuoriuscito) tramite una srl, la So.GE.L. controllava l’ente di formazione (Micene Srl) che gestiva i corsi di formazione appaltati dal suo stesso sindacato.
Ma si può fare anche di meglio e senza occhi indiscreti. Si prenda il caso degli Enti di formazione finanziati dalla legge 40/1987. Il Fondo presso il ministero del Lavoro ammonta a circa 13 milioni di euro e viene erogato a enti emanazione dei sindacati o del movimento cooperativo. Uno di questi è lo Ial controllato per il 40% dalla Cisl nazionale e per il resto dalle strutture regionali e di categoria. Nel 2014 ha ottenuto circa 1,3 milioni di contributi, la metà del suo fatturato. Lo Ial finì sotto i riflettori di Report per un presunto finanziamento alla squadra di calcio del Palermo quando era presidente Sergio D’Antoni.
Il suo amministratore è Graziano Treré già segretario organizzativo della Cisl quando la dirigeva lo stesso D’Antoni. Ora è l’amministratore unico e guadagna 177.593 euro l’anno. Nella relazione all’assemblea annuale, che ha dovuto approvare 380 mila euro di deficit, è stato molto esplicito: “Occorre convogliare tutta l’attività formativa a cui la Cisl può accedere sul fronte della bilateralità e dei Fondi professionali verso lo Ial”. Senza “forme di anomala concorrenzialità”. Poi si rallegra per l’acquisizione della società Anapia, impegnata nella formazione professionale veneta: “Beneficia di un finanziamento annuale ormai consolidati dalla Regione Veneto di 550 mila euro e di un altro da 390 mila”. Bingo.
Salvatore Cannavò, il Fatto Quotidiano 24/8/2015
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ENRICO MARRO, CORRIERE DELLA SERA 13/8 –
Fausto Scandola, è proprio il caso di dirlo, ha fatto scandalo. L’ex dirigente della Cisl del Veneto, che in una email ai piani alti del sindacato ha denunciato le retribuzioni di alcuni personaggi di primo piano dell’organizzazione che sfiorano i 300mila euro lordi l’anno, ha suscitato le reazioni indignate di migliaia di iscritti, non solo della Cisl, e ha obbligato i leader sindacali a correre ai ripari, promettendo tetti ai compensi e divieti di cumulo. Tardi, purtroppo. Sono anni, infatti, che il sindacato è alle prese con una questione trasparenza grande come una casa. Quella delle retribuzioni d’oro è solo l’ultima puntata di una vicenda che affonda le sue radici nella natura non regolamentata delle organizzazioni sindacali in Italia.
Quanti sono gli iscritti a Cgil, Cisl, Uil e alle altre centinaia di sigle? Nessuno lo sa. Poiché i sindacati sono associazioni di fatto, bisogna fidarsi di ciò che dichiarano. E un discorso analogo potrebbe farsi per le associazioni imprenditoriali, dalla Confindustria in giù. Solo nel settore pubblico, grazie alla legge, esiste una certificazione degli iscritti, affidata a un ente terzo, l’Aran. Nel privato, per ora, c’è un accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, firmato il 10 gennaio 2014, ma non ancora attuato. Prevede che debba essere l’Inps a conteggiare il numero di iscritti a ogni sigla. Ma la maggior parte delle aziende, non essendo obbligate per legge, non hanno comunicato i dati. Quanto ai pensionati, anche in questo caso, i dati sono presso l’Inps, che quattro mesi fa ha rivelato che gli iscritti al sindacato sono 7,1 milioni su un totale di 15,8 milioni di pensionati. I dati ottenuti dal Corriere fecero scoprire una differenza tra iscritti reali e dichiarati di circa il 20% in meno per le tre maggiori confederazioni e del 1000%, cioè dieci volte tanto, per sigle minori come l’Ugl e la Cisal. Qualche anno fa, del resto, era stato un altro sindacato autonomo, la Confsal, a produrre uno studio in cui denunciava che in Italia c’erano complessivamente «oltre 3 milioni di iscritti fantasma».
Quanti soldi prendono e quanti ne spendono i sindacati? Anche qui nessuno lo sa, non essendo obbligati a presentare i bilanci. Le sigle che stanno più avanti sono Cgil, Cisl e Uil, che però non redigono il bilancio consolidato di tutta l’organizzazione, ma budget separati per ogni struttura. Viviamo di tessere, dichiarano: fruttano circa 1,2 miliardi all’anno per Cgil, Cisl e Uil assieme. Ma sappiamo anche che al sistema dei Caf e dei patronati (dove i sindacati fanno la parte del leone) vanno rispettivamente circa 170 milioni e 4o0 milioni l’anno dal bilancio dello Stato.
Quanto guadagnano i dirigenti sindacali? La risposta è come le precedenti. Ogni sigla ha le sue regole e le tiene segrete. Solo dopo i recenti scandali – in particolare la retribuzione dell’ex segretario della Cisl Raffaele Bonanni salita fino a oltre 300 mila euro lordi per consentirgli di andare in pensione con più di 5 mila euro netti al mese – alcuni sindacati hanno iniziato a mettere i dati online. Ha cominciato il segretario della Fiom-Cgil, Maurizio Landini (2.262 euro netti la sua busta paga), seguito dalla Fim-Cisl. Ora, dopo la denuncia, riportata qualche giorno fa da Repubblica, di Fausto Scandola, che ha chiesto conto dei 256 mila euro lordi di Antonino Sorgi, presidente del patronato Inas-Cisl, dei 289 mila di Valeriano Canepari, ex presidente del Caf, dei 225 mila di Gigi Bonfanti, segretario dei pensionati e dei 237 mila di Pierangelo Raineri, leader della Fisascat, il segretario della Cisl Annamaria Furlan (circa 100 mila euro lordi la sua retribuzione), promette che metterà tutto online. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, lo aveva consigliato loro non appena arrivato a Palazzo Chigi. Adesso potrebbe affondare il colpo e attuare con una legge l’articolo 39 della Costituzione, che prevede la registrazione dei sindacati e di conseguenza il conferimento loro di personalità giuridica in modo da dare efficacia generale ai contratti firmati dalle organizzazioni maggioritarie (ma potrebbe servire anche per la proclamazione degli scioperi). La Cisl è stata sempre contraria all’intrusione della legge. Ma dopo gli ultimi scandali è molto indebolita. E i suoi stessi iscritti si chiedono se i loro interessi siano garantiti meglio dalla legge o dalle regole interne gelosamente custodite.