Martini, Sette 18/9/2015, 18 settembre 2015
QUANTA STORIA SI RACCONTA NEL PIATTO
UNA NOTTE A TEATRO
CON I FIGLI DI GIANDUJA
La consueta nostalgia di fine estate per le proprie radici riporta a galla, in ciascuno di noi, tante piccole controversie. Tra le meritevoli di ampie digressioni, come insegna il caso delle Madeleine proustiane, sono certamente le questioni alimentari più golose. Casca di proposito, per esempio, il centocinquantenario del gianduiotto, inventato nel 1865, anche se il successo del cioccolatino piemontese alla nocciola si deve al lancio nel Carnevale del 1869, con l’abbinamento alla storica maschera di Gianduja. E qui si entra direttamente nella nostra storia politica nazionale, come sanno tutti quelli che sono passati davanti al teatro d’Angennes, poi Gianduja, in via Principe Amedeo a Torino, nel cuore storico della città culla dell’Indipendenza d’Italia. Il prezioso Tesoro di citazioni che l’erudito bibliotecario fiorentino Giuseppe Fumagalli raccolse per l’editore Hoepli nel 1934 (con il bel lineare titolo Chi l’ha detto?) ricorda il valore d’orgoglio patriottico attribuito ai versi più celebri della canzone dialettale di Cesare Scotta Ij fieuj d’Giandoia eseguita al d’Angennes la sera del 15 febbraio 1868 «I soma i fieuj d’Giandoia / Na sola famìa» (noi siamo i figli di Gianduja/una sola famiglia)…
UNA NOTTE A TEATRO
CON I FIGLI DI GIANDUJA
La consueta nostalgia di fine estate per le proprie radici riporta a galla, in ciascuno di noi, tante piccole controversie. Tra le meritevoli di ampie digressioni, come insegna il caso delle Madeleine proustiane, sono certamente le questioni alimentari più golose. Casca di proposito, per esempio, il centocinquantenario del gianduiotto, inventato nel 1865, anche se il successo del cioccolatino piemontese alla nocciola si deve al lancio nel Carnevale del 1869, con l’abbinamento alla storica maschera di Gianduja. E qui si entra direttamente nella nostra storia politica nazionale, come sanno tutti quelli che sono passati davanti al teatro d’Angennes, poi Gianduja, in via Principe Amedeo a Torino, nel cuore storico della città culla dell’Indipendenza d’Italia. Il prezioso Tesoro di citazioni che l’erudito bibliotecario fiorentino Giuseppe Fumagalli raccolse per l’editore Hoepli nel 1934 (con il bel lineare titolo Chi l’ha detto?) ricorda il valore d’orgoglio patriottico attribuito ai versi più celebri della canzone dialettale di Cesare Scotta Ij fieuj d’Giandoia eseguita al d’Angennes la sera del 15 febbraio 1868 «I soma i fieuj d’Giandoia / Na sola famìa» (noi siamo i figli di Gianduja/una sola famiglia)…
MA QUEL NOME FORTUNATO
FU BATTEZZATO A GENOVA
A proposito dell’origine della maschera, si fa riferimento a una storia di Torino pubblicata a fine Ottocento da quel curioso personaggio che fu Alberto Virgilio, impiegato delle Ferrovie e poeta “bicerìn”, animatore di un singolare cenacolo dialettale e studioso della sua città. Gianduja non sarebbe altro che la trasformazione in Giòan dal dòja (ovvero Giovanni dal boccale) della vecchia maschera caratteristica dei burattinai torinesi, Girolamo, «un tipo di villico dalla figura ridanciana, latino di mano e rozzo di modi, però cordiale e in fondo galantuomo» (Fumagalli). Il cambiamento partì da Genova, quando il sovrintendente di polizia del teatro delle Vigne impose a una compagnia di burattinai piemontesi di non usare più il nome di Girolamo per la maschera di punta, dato che il Doge d’allora, il marchese Durazzo, che governò la città ligure dal 1802 al 1805, aveva anche lui come primo nome proprio Girolamo. E, tanto per chiudere tornando in tema, nel cuore di Torino un cioccolataio artigianale di prim’ordine, Giordano, continua a sfornare anche delle dolcissime Giacomette, ispirate alla maschera della moglie di Girolamo-Gianduja, con la granella di nocciole nell’impasto.
Il canto delle ex prostitute che preparano i turtlein
Che la sua forma nasca per davvero «imitando di Venere il bellico», o no, il tortellino è legato a doppio filo alle figure femminili. A Bologna si tramanda, per esempio, che nel dopoguerra a preparare i “turtlein” del più famoso salumiere, nei periodi di massima richiesta, contribuissero come lavoranti anche un drappello di abilissime ex prostitute. E che, per accompagnare la fatica e la ripetitività dei gesti, o forse soprattutto per evitare che si mangiassero il ripieno, fossero invitate a cantare ininterrottamente da Maria Tamburini, l’implacabile organizzatrice che ha regnato per una quarantina d’anni sulla salumeria degli otto fratelli di Baricella, che nel 1932 avevano rilevato la storica bottega Benni in via Capraie 1. Come spiegava l’etnomusicologo Roberto Leydi (I canti popolari italiani, Oscar Mondadori) i canti ritmici di lavoro un tempo erano comunissimi in tutta Europa e sono andati poi scomparendo con il progresso tecnologico. Oltre ai canti delle vecchie “salariate dell’amore” (dal titolo del recente Storie e faccende di meretrici dell’Ottocento bolognese di Anna Natali e Sara Accorsi), che si guadagnavano la tredicesima preparando tortellini a Bologna, sono andati perduti i ricchi repertori legati ai lavori della marina a vela e della pesca, e ancora tanti canti degli sterratori, dei battipali, dei mietitori, dei taglialegna e così via. Per quanto riguarda le donne, sono stati tramandati quasi solo i canti delle risaie.