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 2015  settembre 18 Venerdì calendario

UCCIDE LA MOGLIE E “INVENTA” IL DELITTO D’ONORE

Quante volte dobbiamo leggerlo, nelle cronache? Una donna è stata uccisa da un marito, un compagno, un fratello o un genitore, quasi sempre il padre. La causa? A volte per non dire spesso è l’onore, o quello che viene inteso per tale: quell’onore che nella famiglia patriarcale, da cui la nostra discende, è sempre stato legato al comportamento sessuale delle donne del gruppo. Ma come è possibile che nel terzo millennio ci sia ancora chi continua a credere in un simile, arcaico e malinteso senso dell’onore? Come sempre ad aiutarci a capirlo è la storia. In questo caso la storia, antichissima, che sta alle spalle di un articolo di legge scomparso dal nostro codice penale nel 1981 (art. 587), che così stabiliva: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella». Chi uccideva “per onore” dunque non veniva punito come omicida (vale a dire con la reclusione non inferiore a 21 anni o, in presenza di aggravante per futili motivi, fino all’ergastolo), ma con la pena ben inferiore di cui sopra (raramente, di fatto, superiore ai tre, quattro anni). Inutile dire che anche se il codice parlava di “coniuge” — e quindi teoricamente anche della moglie che avesse ucciso il marito fedifrago — le vittime di questo reato erano di regola le donne: mogli, in primo luogo, ma anche figlie e sorelle. La lotta per abrogare quell’articolo fu lunga e difficile, e a chi già allora se ne chiedeva le ragioni era di nuovo la storia a suggerire la risposta: alle spalle di quell’articolo stava una tradizione giuridica vecchia di oltre due millenni.
L’omicidio per causa d’onore infatti ha una data di nascita precisa: il 621-620 a.C. quando la prima legge ateniese, attribuita a Dracone, stabilì le pene per l’ omicidio: la morte per quello volontario, l’esilio per quello involontario. Con alcune eccezioni, nelle quali l’omicida sarebbe rimasto impunito: tra queste il caso di colui che avesse sorpreso in casa propria un uomo mentre intratteneva rapporti sessuali con sua moglie, sua madre, sua figlia, sua sorella o la sua concubina libera.
Era già una legge antica, dunque, quella che attorno al 403 a. C., ad Atene, invocò un certo Eufileto, accusato di aver ucciso l’amante di sua moglie, di nome Eratostene. Venuto a sapere della relazione, Eufileto aveva finto di doversi allontanare di casa, fidando nel fatto che gli amanti ne avrebbero approfittato, e quando questo era accaduto aveva ucciso Eratostene dichiarando: «Non sono io che ti uccido, ma la legge della città». Che di lì ad alcuni secoli, a Roma (nel 14 a.C), avrebbe ispirato alcune norme della legislazione augustea volte a contrastare e possibilmente correggere il comportamento sessuale femminile, secondo Augusto divenuto eccessivamente licenzioso e causa di una crisi della famiglia che egli riteneva un grave pericolo per la saldezza dello Stato. Sino a quel momento l’adulterio — così come tutti i comportamenti sessuali scorretti delle donne del gruppo — veniva punito con la morte, inflitta dal paterfamilias in forza della sua illimitata giurisdizione. Fu per volere di Augusto che l’adulterio divenne un crimine pubblico, che qualunque cittadino poteva denunziare, punito con l’esilio. Eccezion fatta per alcuni casi, specificati dalla legge, in cui veniva garantita l’impunità a padri e mariti che uccidevano per difendere l’onore. E nei primi decenni del VI secolo d. C., ecco la causa d’onore nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, che introdusse una norma destinata a una lunga e come vedremo tra breve tragicomica storia: il marito che sospettava che la moglie lo tradisse doveva inviare al presunto complice tre diffide scritte, firmate da tre testimoni. Dopodiché, se lo trovava insieme a sua moglie (non necessariamente in flagrante: a un certo punto si arrivò a dire che a provare l’adulterio bastava un bacio) poteva ucciderlo impunemente. Ma quel che vale la pena ricordare è la mentalità svelata dall’applicazione della regola delle tre diffide. I giuristi che sulla metà del XVI secolo commentano la regola ci fanno sapere che questa era contrastata dai “dottori”, che per ridicolizzarla avevano redatto un modello di diffida nel quale il nome attribuito al marito era, vedi caso, Martinus de Cornigliano (mentre quello dell’amante era Tristanus de Bravis). Due nomi significativi: forte, coraggioso l’amante. Il marito, invece, “cornuto”. Termine popolare, forse? Usato, forse, da persone non particolarmente raffinate? Assolutamente no. I primi a deridere chi proponeva un’accusa di adulterio erano i giudici. E i giuristi commentavano osservando che per i mariti saggi era meglio «tenersi le corna nel petto». L’unica possibile alternativa per chi voleva salvare l’onore se la cosa si veniva a sapere, era uccidere.

Costume malato. Rafforzato dal consenso costante della giurisprudenza, il concetto che l’onore familiare fosse legato al comportamento sessuale femminile era rimasto e continuò a restare inalterato. A nulla servirono i dibattiti del secolo dei Lumi sulla natura della famiglia e le critiche al rapporto famiglia-Stato: la discussione sui poteri paterni e maritali non coinvolse il delitto d’onore, così come non lo coinvolsero i progetti e gli interventi legislativi del periodo rivoluzionario.
A introdurre sostanziali innovazioni furono, invece, le legislazioni italiane preunitarie, per le quali la causa d’onore non era più una causa di esclusione dalla pena, ma solo un’attenuante, concessa, oltre che al marito, anche alla moglie che uccideva il marito traditore. Ma nel far questo tali codici estesero la causa d’onore oltre che al padre e la madre, anche al fratello e alla sorella. E nel 1890 il primo codice unitario italiano (Zanardelli) aggiunse tra i parenti vendicatori gli ascendenti maschi (oltre al padre). E infine, nel 1930, la causa d’onore giunse nel codice Rocco, che la riconosceva non solo a chi aveva sorpreso gli amanti in flagranza, ma anche a chi lo aveva fatto «nell’atto in cui scopriva la relazione illegittima» (65). Nell’interpretazione che ne diedero i tribunali, dunque anche a chi l’aveva scoperta aprendo una lettera o ascoltando una telefonata.
Come sorprendersi, considerando la storia plurimillenaria di questa mentalità, se dobbiamo constatare che, a distanza di quasi tre millenni dal momento in cui venne codificata, non è ancora del tutto scomparsa? Anche se non è magistra vitae, la storia può aiutarci a riflettere su cose delle quali altrimenti è veramente molto difficile farsi una ragione.

8 - continua