Beppe Severgnini, Sette 18/9/2015, 18 settembre 2015
«DALLO SPAZIO C’È CHI FA SHOPPING ONLINE CON LA CARTA DI CREDITO»
[Samantha Cristoforetti] –Visto che casino quaggiù? Guerre, persecuzioni, migrazioni di massa. Dall’alto sembrava tutto più tranquillo, immagino.
«Be’, di certo è un punto di vista diverso. Dall’alto si ha una sensazione di pace e di serenità. I problemi, sul pianeta, ci sono: li abbiamo sotto gli occhi. Ma non si risolvono dall’oggi al domani. Noi abitanti della Terra dovremmo considerarci come l’equipaggio di un’astronave, pronti a prendersi cura gli uni degli altri. Perché, se questo non accade, si blocca tutto».
Buonismo astronautico?
«Non si tratta di buonismo o generosità, ma di logica: se non ti prendi cura dell’altro, l’altro non ci sarà quando avrai bisogno. Il meccanismo s’inceppa. Certo, è facile comportarsi così quando parliamo di sei persone in una stazione spaziale, un po’ più difficile se siamo sei miliardi. Per questo credo nella leadership e nella capacità di visione. Spero stia crescendo una generazione di leader che abbia chiara questa necessità. Tra due, trecento anni avremo risolto questi problemi di convivenza, no?».
Sei rimasta per 200 giorni a 400 chilometri d’altezza. Mai sentita la tentazione di sistemare il pianeta, mentri eri lassù? In politica, come avrai notato, spesso basta una poltrona per guardare il mondo dall’alto in basso.
«Dallo spazio la Terra sembra solida: lei ci sarà ancora tra migliaia di anni. La questione è se ci saremo ancora noi».
A proposito di concretezza. Ti ha colpito la reazione della Germania davanti all’ondata di profughi? Forse ha capito l’enormità di quello che sta succedendo.
«Credo ci sia stato un moto di generosità. E di comprensione: è un vero dramma quello che abbiamo davanti. E di fronte a un dramma bisogna ricordarsi: dobbiamo prenderci cura, in qualche modo, di queste persone. Trovando soluzioni che non creino tensioni eccessive, certo. Ma chi sta meglio deve sforzarsi di capire chi sta peggio. Ripeto: un giorno toccherà a noi avere bisogno degli altri. Siamo qui tutti insieme».
Dai l’idea di essere una persona equilibrata. Mai perso le staffe in orbita?
«Ogni tanto capita di irritarsi se qualcosa non funziona come dovrebbe. Ma nel complesso è stata un’esperienza serena. Non ti viene da arrabbiarti lassù! Sei in un posto privilegiato, lavori con persone motivatissime. Parlo anche di quelle che rimangono a terra. Se c’è un problema, chiami e si mette in moto una squadra che ti risolve tutto nel più breve tempo possibile».
Che lingua parlavate sulla stazione spaziale?
«Per lo più inglese, però con i colleghi russi interagivamo anche in russo».
Parli russo?
«Be’, gli astronauti parlano il russo. Noi europei, in genere, facciamo da mediatori culturali nella squadra, perché parliamo anche l’inglese, ovviamente. Perciò gestiamo la comunicazione tra le due parti dell’equipaggio, quella americana e quella russa».
Un ruolo perfetto per chi viene dall’Europa. A proposito: quando ti sei sentita più europea?
«L’esperienza mi insegna che, appena esco dall’Europa, sono gli altri a vedermi europea. E quell’identità finisco per percepirla anche io. Ricordo che, durante un corso di preparazione, non mi veniva in mente il nome di un strumento di controllo (check). Il nostro istruttore texano diceva che, in quanto europea, avrei dovuto ricordamelo. “Check non suona come Cech, un cittadino della Repubblica Ceca?” Avrei voluto dirgli: io a Praga ci ho passato due giorni della mia vita! Mentre negli Stati Uniti ho trascorso due anni! Inoltre nella nostra comunità il partner è Esa (Agenzia Spaziale Europea). Ecco perché nell’equipaggio ci sono europei - non italiani, francesi o tedeschi. Per gli altri astronauti, noi siamo “quelli dell’Europa”».
Da piccoli tutti sognano di fare il vigile del fuoco (i bambini), la ballerina (le bambine), l’astronauta (tutti). Poi però cambiano idea. Samantha, no. Perché?
«Sognavo fin da bambina di fare l’astronauta, è vero. Non ricordo quando l’ho annunciato per la prima volta. Ma ricordo che nessuno mi ha detto: “Che stupidaggine!”. Mi hanno sempre preso tutti molto sul serio».
Studiare in Germania, lavorare negli Stati Uniti. Stare al’estero ha cambiato la tua idea dell’Italia?
«È stata un’evoluzione. Non sono mai andata all’estero per scappare da qualcosa. Sono sempre stata affascinata dall’idea di andare a vivere in un altro posto, di inserirmi in una cultura diversa, di appropriarmi di un’altra lingua. L’ho fatto fin da ragazzina: i miei mi mandavano a passare le estati in Austria o in Germania per imparare il tedesco. Al liceo ho trascorso un anno negli Stati Uniti. All’università sono andata all’estero. Eppure le facoltà d’ingegneria italiane sono tra le migliori al mondo».
Ingegner Cristoforetti, un cervello in fuga.
«Non c’è stato alcun desiderio di fuggire, ripeto. Volevo semplicemente abbinare al percorso universitario l’apertura mentale che inevitabilmente viene – anche se sei di coccio come me! – quando conosci un ambiente nuovo. All’inizio, magari, pensi che noi italiani siamo più bravi a fare questo o quest’altro. Poi, vivendo in posti diversi, relativizzi. Ricordo una conversazione con un docente universitario a Monaco di Baviera. Io sostenevo che, in Italia, siamo più comunicativi dei tedeschi. Lui mi ha risposto: i problemi in Germania e in Italia sono diversi, ma la somma dei problemi è uguale dappertutto».
Una domanda che ti sembrerà strana, ma sono curioso. Mai controllato il saldo del conto in banca mentre eri in orbita?
(ride) «No, ma non solo! Mai comprato niente. Ci sono astronauti che, con la carta di credito, acquistano un regalo per la moglie e lo fanno spedire via Amazon. A me è toccato l’incubo di ogni astronauta che parte per sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale (Iss): due giorni prima del lancio mi hanno bloccato la carta a causa di un tentativo di pagamento da ignoti. Non c’era tempo di sistemare la faccenda, quindi mi sono detta: “Samantha, duecento giorni senza shopping”».
Cosa sognavi nello spazio? E, se cantavi, cosa cantavi?
«Sognavo, certo. Non ho notato differenza nei sogni a terra e nello spazio. Comunque sono una che, di sogni, ne ricorda pochi. Ho dormito benissimo. In alcune notti avevo addosso la maglietta della Fondazione Don Gnocchi e misuravo tutti i parametri del cuore, anche per valutare i microrisvegli durante la notte».
Musica?
«Per esempio, Franco Battiato, presente qui questa sera. Mi piaceva ascoltare canzoni evocative di luoghi sulla Terra, come I treni di Tozeur o Alexander Platz. Ricordo che nei giorni di pulizia — avvengono nel weekend — alzavo la musica a tutto volume: tanto, nessuno lavorava. Appena il collega russo percepiva le parole Alexander Platz, esclamava: “Tedesco!”. Io gli rispondevo: è sempre la solita canzone italiana, quella che mi piace tanto».
Nello spazio — almeno lì — le pulizie sono divise equamente tra maschi e femmine, immagino.
«Questo è scontato».
Perché quell’urlo e quei gemiti al momento del docking (l’attracco della navicella alla stazione spaziale, ndr)?
«Gli ufologi, come saprai, sono scatenati. Dovete immaginarvi la mia condizione. Dopo otto minuti dal lancio ero in orbita, mi sentivo come un pupazzo che comincia a galleggiare: nelle prime ore avevo la sensazione di cadere contro il pannello di controllo. Terry, il mio collega, diceva di guardare fuori, ma io ero concentrata sul lavoro: volevo fare bene ogni cosa. Dopo quattro giri intorno alla Terra, eravamo ormai vicini a quel posto magico che è la Stazione Spaziale Internazionale: ma non la vedevo ancora. Poi improvvisamente, con la coda dell’occhio, ho intravisto qualcosa. Erano i giganteschi pannelli solari della Iss. Immaginate di essere nel mezzo dello spazio, dove non c’è nulla. In pochi secondi intorno è diventato arancione — i pannelli riflettevano la luce del sole — e sembrava che tutto andasse a fuoco! Mi è venuta spontanea quella esclamazione di immenso stupore. È stato uno choc estetico. Vi auguro di avere un’esperienza di questo genere. Ve ne renderete conto».
Parlavate di attualità, di economia, di politica internazionale sulla Iss? I nomi di Putin, Merkel o Renzi rientravano nei vostri discorsi?
«No, ma in compenso sono diventata un’esperta della campagna elettorale Usa! I colleghi americani ne parlavano continuamente e guardavano programmi tivù in rete».
@astrosamantha sa usare Twitter: non c’è dubbio. Riflessioni puntuali, commenti poetici, belle immagini. Quando trovavi il tempo di farlo?
«Abbiamo avuto due comandanti. Uno non sapeva neppure cosa fosse Twitter (la Nasa twittava per lui). L’altro twittava più di me! Usare Internet in orbita non è semplice: è lento. Per scrivere i tweet, inserivo tutto in un documento word e contavo in anticipo i caratteri, poi lo metto sul mio profilo e inviavo senza perdere tempo. È stato un modo di condividere con altri la mia esperienza. E una maniera di passare il tempo».
Duecento giorni nello spazio. Lo rifaresti?
«Certo. Spero ce ne sarà l’occasione».
Ti sei mai sentita sola, mentre eri lassù?
«No: c’è troppo da fare a bordo. Siamo lontani, ma l’esperienza lavorativa è molto terrestre».
Oggi sei popolarissima in Italia. Hai detto al Corriere, a fine agosto: “Non sono Garibaldi, non sono un eroe nazionale. E presto toccherà a qualcun altro andare nello spazio”. Sicura d’essere pronta a passare la mano?
«Io cerco sempre di vedere il cambiamento come un’opportunità. Un periodo di notorietà, in fondo, è proprio questo: un’opportunità. Anche perdere popolarità è un’opportunità. Ti permette di riflettere sulla tua vita privata, di dedicarci più tempo. Cerco di vedere con positività tutto ciò che arriva: sono fatta così».
Dimmi la verità. C’è qualcuno in Italia che manderesti nello spazio - per lasciarlo lì?
(ride) «Non potrei mai rispondere a questa domanda».