Benedetta Craveri, il venerdì 18/9/2015, 18 settembre 2015
LA DONNA CHE AMAVA LE DONNE
PARIGI. Nata in una famiglia di artisti, Louise Élisabeth Vigée viene iniziata giovanissima alla pittura dal padre, un’abile pastellista che non nutre dubbi sul talento della figlia; dopo la sua scomparsa improvvisa, saranno gli amici Pierre Davesne e Claude-Joseph Vernet a incoraggiare l’orfana con i loro consigli. Louise Elisabeth non ha i soldi necessari per completare la sua formazione in un atelier e vi supplisce visitando assiduamente le collezioni reali e quelle private aperte al pubblico e mettendosi alla scuola dei grandi pittori del passato. A soli quindici anni ella entra nell’agone professionale, riesce a conquistarsi presto una clientela e quando, nel 1776, accetta la domanda di matrimonio di Jean-Baptiste-Pierre Lebrun, è già un’artista riconosciuta. Entrata da due anni nell’Accademia di San Luca, Mme Vigée ha appena ricevuto la sua prima committenza reale, il ritratto del conte di Provenza, fratello di Luigi XVI.
Pittore, collezionista, mercante e, a giudizio di Francis Haskel, «uno dei migliori esperti d’arte del suo tempo», Le Brun è per Élisabeth il maestro che le è mancato, che le insegna a guardare criticamente i quadri di Rembrandt, di Rubens, di Van Dyck, come quelli dei pittori contemporanei esposti nella sua galleria, che l’aiuta ad affinare il gusto, ad acquistare una certa cultura.
È ugualmente lui ad introdurla in quell’alta società parigina che subito le apre le braccia, conquistata dalla sua bellezza e dal suo talento, e di cui la pittrice sarà la splendida cronista. Di quegli anni 1780 che ispirarono a Talleyrand la celebre frase sul piacere del vivere, Mme Vigée Le Brun saprà infatti cogliere, come forse nessun altro artista del tempo, l’inestricabile intreccio di futilità, di artificio, d’estenuata eleganza e, al tempo stesso, di ansia di vita morale, di innocenza, di fiducia nell’avvenire che connotano l’ultima stagione mondana dell’Antico Regime.
Ma quali furono le ragioni della sua spettacolare affermazione? Per Geneviève Haroche Bouzinac, autorevole biografa dell’artista (Louise-Élisabeth Vigée Le Brun histoire d’un regard, Flammarion, 2011) esse vanno cercate nella «padronanza eccezionale tanto delle tecnica a pastello che della pittura ad olio su tela e su legno e nella ricerca incessante della perfezione, unite a una grande penetrazione psicologica al servizio di una visione idealizzante dell’arte». Come documenta bene l’esposizione parigina, sono innanzitutto le donne a volere essere ritratte da Louise Élisabeth e a decretarne il successo. Portando all’estremo compimento la tradizione settecentesca del ritratto francese, la pittrice è infatti capace di rendere belle tutte le sue clienti, senza per questo rinunciare a coglierne la somiglianza: bastano degli occhi brillanti, una chioma fluente, un sorriso accattivante, un travestimento pittoresco a compiere il miracolo.
Mme Vigée Le Brun non si limita infatti a registrare la moda, la indovina sul nascere e talvolta la determina: prima di ritrarre le sue modelle le sottopone a una metamorfosi, svelando loro, con mano sapiente, la difficile arte del semplice. Da tempo Louise Élisabeth se ne serve, come mostrano i suoi autoritratti, per mettere in risalto la propria bellezza: si sciolgono i capelli, li si attorciglia con una fascia di lino intorno alla testa, oppure si lascia che i riccioli sfuggano ribelli da un fazzoletto di battista legato con un nodo, da una piccola cuffia, da un rustico cappello di paglia. La semplicità delle fogge ricorda sempre più la linea di una tunica, e uno sciallo stretto intorno al seno, anticipa lo «stile impero». Sovente le sue clienti finiscono per adottare i suoi suggerimenti.
Così la bella contessa di Gramont-Caderousse, dopo avere posato per lei travestita da vendemmiatrice, con i riccioli corvini che le incorniciano il viso, se ne va a teatro senza cambiare di pettinatura, ponendo fine, con il suo prestigio mondano, all’abitudine di incipriarsi i capelli.
Nel 1778 è la stessa Maria Antonietta a convocarla a Versailles per un ritratto ufficiale destinato alla corte di Vienna, a cui altri faranno seguito. Malgrado l’abisso che le separa, le due donne sono destinate ad esercitare una sull’altra una seduzione reciproca. Hanno la stessa età – 23 anni! –, sono sentimentali, sognano la maternità e la vita campestre, amano la bellezza e l’eleganza. La pittrice della luce ammira nella sovrana la più abbagliante delle carnagioni e il collo di cigno, e la sovrana è grata alla pittrice di ritrarla così come vorrebbe essere: una giovane donna felice, con un cappello di paglia, un abito di mussola e una rosa in mano, circonfusa dall’aura regale senza il peso della corona.
Assurta al rango di pittrice di corte, l’investitura più alta a cui un’artista potesse allora aspirare, accolta nel 1783, all’Académie Royale de Peinture et de Sculpture, e dunque autorizzata ad esporre le sue opere al Salon di pittura che si teneva ogni due anni a Parigi e costituiva la più importante vetrina dell’arte contemporanea, Louise Élisabeth è, a soli ventotto anni, all’apice del successo, e, come afferma Joseph Baillo, vive la sua stagione più creativa. Ma con il sopraggiungere dell’«orrendo 1789», la sua reputazione di pittrice favorita della regina, i suoi legami con l’ex sovrintendente delle finanze Calonne, con il conte di Vaudreuil, con duchessa di Poliganc – di cui i visitatori della mostra possono ammirare gli splendidi ritratti – la espongono al risentimento popolare e nel mese di ottobre, presa dal panico, Mme Vigée Le Brun parte in incognito per l’Italia, assieme alla figlia ancora bambina. Non immagina che il suo esilio durerà tredici anni e che il Bel Paese – dove può finalmente ammirare le opere di Raffaello, Domenchino, i Carracci, e andare alla scoperta di Parma, Bologna, Firenze, Roma, Napoli – è solo la prima tappa di un lungo viaggio attraverso l’Europa che la porterà in Austria, in Germania, in Polonia, in Russia. Viaggio amaro di una giovane donna costretta a fuggire dal suo paese dove infuria la Rivoluzione, ma, al tempo stesso, viaggio trionfale di un’artista festeggiata come una regina in tutte le corti, ricevuta solennemente in tutte le Accademie, subissata di richieste, coperta d’oro. Di questo lungo periplo, Loise Élisabeth Vigée Le Brun ha lasciato il vivido ricordo nei Souvenirs scritti negli anni della vecchiaia, ma niente testimonia meglio della sua fedeltà al gusto francese e del perdurare del suo talento dei moltissimi ritratti eseguiti nel corso dell’esilio.
Dai Borbone di Napoli all’alta nobiltà austriaca, polacca, russa è il fior fiore del Gotha europeo che sembra essersi dato appuntamento al Grand-Palais per rendere omaggio al genio di un’artista che, pur amando infinitamente la vita, «aveva trovato la felicità soltanto nella pittura».
Benedetta Craveri