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 2015  settembre 18 Venerdì calendario

SUICIDI E CENSURE: COM’È DIFFICILE FARE IL GIORNALISTA IN CALABRIA


La valigia è piena di giornali. Su molte pagine c’è la sua firma. In altre, il nome si arrampica sul foglio e da firma diventa titolo. A lui non sarebbe piaciuto essere «la notizia». Alessandro Bozzo le notizie le dava. Nel 2010 quando sulla scrivania della redazione cosentina di Calabria Ora, Alessandro aveva trovato una busta con il suo nome sopra: Finiscila di scrivere a Cassano o ti facimu zumpà ‘a capa. All’inizio aveva riso con i colleghi, aveva sventolato la busta in aria: «Guardate un po’, anch’io ho avuto la mia minaccia». Poi era arrivata la tv e i giornali nazionali a raccontare la sua storia. Lui sorrideva beffardo. Se i suoi pezzi sugli intrecci tra politica e criminalità davano fastidio a qualcuno, tanto meglio: era il segno che bisognava andare a fondo. Chi lo aveva minacciato? Non si è mai saputo. «Era uno che non scriveva sotto dettatura» raccontano i suoi colleghi. «E questo non piaceva all’editore del giornale». A capo della proprietà di Calabria Ora c’era Piero Citrigno, imprenditore calabrese con interessi nell’edilizia e nel settore delle cliniche private, condannato nel 2011 per usura.
«Più che l’indipendenza, Citrigno dei giornalisti non sopportava il costo» spiega un ex redattore di Calabria Ora. «L’opera sistematica fu quella di sbarazzarsi dei professionisti per sostituirli con neofiti ai quali insegnare il mestiere. Alessandro era finito nei mirino: pressioni, minacce di trasferimenti in città dove non esistono redazioni. Era il capro espiatorio per ogni piccola cosa che non andava». Nel 2010 il direttore Paolo Pollichieni, in conflitto con l’editore, lascia il giornale e porta con sé un groppo di redattori. Fino all’arrivo di Piero Sansonetti, è Alessandro a prendere le redini della testata e i rapporti con la proprietà peggiorano. Passano due anni. Nella primavera del 2012 Alessandro rinuncia al suo contratto a tempo indeterminato per firmarne uno che scade a fine dicembre, lo stipendio è molto più basso del precedente. Alessandro sull’agenda appunta tutto: dalle udienze dei processi da seguire per il giornale alla cronaca puntuale di ogni suo pensiero, la frustrazione, la rabbia. L’inchiostro buca la pagina del 31 marzo: «Oggi sono diventato precario. Ho subito un’estorsione. Dopo mi ha detto che diventando precario sono stato valorizzato. Ovviamente non ho creduto ad una sola parola. È un fatto che sono fuori o comunque sotto ricatto».
Vorrebbe andarsene, trovare un altro lavoro, magari «fare il taglialegna in Sila» come una volta disse a sua sorella Marianna. Ma a Cosenza ci sono sua moglie e la bambina. «Sono un morto che cammina, giornalisticamente parlando». È il 15 marzo del 2013, quella mattina in redazione non ci va, dice che non si sente bene. È a casa da solo. Esce di scena con uno sparo in testa. «Sono stanco della vita». Nella lettera che scrive prima di morire, Alessandro non lascia altre spiegazioni. Quattro fogli, nessuna accusa.
Pietro Citrigno è stato rinviato a giudizio per violenza privata, secondo la Procura di Cosenza avrebbe costretto Alessandro a firmare quel contratto: l’unica alternativa sarebbe stato perdere il posto. La prima udienza non è ancora stata celebrata, ci sono stati ben tre rinvii. L’ultimo risale alla settimana scorsa. «Questo modo di fare giustizia è una mortificazione della dignità. Voglio sapere cosa c’è dietro la morte di mio figlio. È un nostro diritto». Franco, il papà di Alessandro, ha gli occhi stanchi, ma di una stanchezza che non spegno la rabbia. Piove a Donnici, Marianna rimette nella valigia gli articoli di Alessandro: «Non era uno che si dava per vinto». Quel processo che non vuole iniziare non riguarda la morte di un cronista, ma la sua vita. «Il suo suicidio è stato uno shock per una generazione di cronisti cresciuti insieme. Pensavamo che il giornalismo in Calabria – che fessi – fosse solo raccontare e non avesse molto a che fare con le cliniche e gli affari degli editori. Credo siamo stati l’ultima generazione di questo tipo che questa regione coltiverà, almeno a uso interno». Lo racconta uno dei suoi colleghi, uno dei tanti costretti a fuggire da Calabria Ora.
Nel 2013 il quotidiano cambia la testata, diventa L’Ora della Calabria. Al posto di Sansonetti viene nominato direttore il calabrese Luciano Regolo. «Per spiegare il clima che ho trovato una volta tornato in Calabria ho coniato un termine ispirato al linguaggio mafioso: l’accorduni. Qui non esistono né amici né nemici, ogni intesti trasversale è possibile purché sia lucrativa». Il 19 febbraio del 2014 L’Ora della Calabria avrebbe dovuto pubblicare un articolo sul figlio di Tonino Gentile, da lì a poco sottosegretario alle infrastrutture e ai trasporti. Andrea Gentile – le accuse sono state recentemente archiviate – risultava indagato nell’inchiesta sulle «consulenze d’oro» dell’Asp di Cosenza. «La sera del 18 febbraio, il giornale era pronto per la stampa. Stavo andando via dalla redazione quando Citrigno mi disse che il nostro stampatore Umberto De Rose l’aveva chiamato per chiedergli di togliere la notizia. La mia risposta fu netta: non ero assolutamente disposto a farlo». L’edizione del 19 febbraio non andò mai in stampa. De Rose, allora presidente di Fincalabria, sostenne che le rotative si fossero bloccate per problemi tecnici. «Una perizia della Procura ha accertato che non ci fu nessun guasto» spiega Regolo. E poi basta ascoltare la chiamata tra Citrigno e De Rose per capire come andarono le cose. Avevo registrato tutto di nascosto».
«Alfrè, l’hanno tolta questa cazzo di notizia?» De Rose esordisce così, ma è solo l’inizio di una lunga telefonata che non appena diffusa trascina il nome della testata calabrese sulle pagine dei giornali nazionali. Antonio Gentile, che si è sempre dichiarato estraneo alla vicenda, è costretto a dimettersi. Umberto De Rose a causa della registrazione, viene rinviato a giudizio per violenza privata. «Sono passati quasi due anni e le udienze continuano ad essere rimandate per vizi procedurali» continua Regolo. «Su questa vicenda è calato il silenzio, il giornale ha chiuso e noi siamo tutti in cassa integrazione».
Il quotidiano venne messo in liquidazione. Fra i diversi imprenditori che mostrarono interesse all’acquisto della proprietà c’era anche De Rose: i giornalisti proclamarono uno sciopero di tre giorni. Servì a poco, il giornale fu chiuso e il sito oscurato. Il 25 aprile uno striscione bianco venne appeso alla facciata della redazione: «L’Ora della dignità» c’era scritto. I redattori occuparono la redazione, continuarono a scrivere su un blog, ma il giornale non tornò mai più in edicola. Per il fallimento della testata Citrigno è stato rinviato a giudizio per bancarotta fraudolenta. La maggior parte dei cronisti sono tuttora in cassa integrazione, altri hanno occupato le scrivanie della nuova avventura editoriale calabrese: Il Garantista, direttore Piero Sansonetti. Il giornale, un’edizione nazionale e una calabrese, viene gestito dalla Società cooperativa giornalisti indipendenti, ma i principali finanziamenti arrivano da una cordata di industriali con in testa il presidente di Confindustria Reggio Calabria, Andrea Cuzzocrea. Vengono assunte 58 persone, di cui 49 giornalisti, numeri ambiziosi in tempi di crisi. Oggi, se il giornale è ancora in piedi, è solo grazie al lavoro «volontario» dei redattori che non sono stati pagati per mesi.
Alla fine Cuzzocrea molla. Sansonetti, però, non demorde: «Abbiamo fatto degli errori clamorosi all’inizio fidandoci degli imprenditori, ma non è detto che un costruttore sappia fare l’editore. Siamo partiti come se dovessimo fare il Corriere della Sera, abbiamo preso troppa gente. Stiamo facendo delle correzioni. Quali? Stampiamo solo in Calabria per esempio». Le rotative che pubblicano il Garantista sono quelle di Umberto De Rose. «Ma in Calabria non c’è altro» taglia corto Sansonetti.