Paola Zanuttini, il venerdì 18/9/2015, 18 settembre 2015
INDOVINA CHI VIENE A CENA
REYKJAVÍK. Com’è buona l’Islanda. Nella temperie siriana di orrori, bambini morti fotografati sul bagnasciuga, e governi europei, compresa la vicina Danimarca, che sbattono le porte in faccia ai profughi, quest’isola bella, sperduta e con un clima infernale è la lieta novella che consola: 12 mila islandesi pronti a ospitare i fuggiaschi nelle loro casette calde e parquettate. Beh, le cose non stanno proprio così perché, contate sul serio, le famiglie disposte a coabitare con i rifugiati siriani o a dar loro un appartamento sono risultate molte di meno, 240, ma è già un fatto che a queste glaciali latitudini tanti cuori si siano sciolti. Su 322 mila abitanti, 17 mila hanno preso posizione in favore dei profughi e migliaia sono pronti a fornire beni e servizi.
Ricostruiamo i fatti, e la bolla mediatica: nel pomeriggio di domenica 30 agosto, Bryndís Björgvinsdóttir, 34 anni, nota scrittrice, professore di Etnologia all’Accademia delle Arti, così graziosa che da ragazza ha fatto la fotomodella, posta su Facebook una lettera aperta alla ministra del Welfare Eygló Harðardóttir. Nella lettera, appassionata e ragionevole, critica l’ingenerosità del governo di centrodestra deciso ad accogliere per il 2015-16 solo cinquanta rifugiati e invita la ministra ad alzare le quote. Perché i rifugiati «in futuro saranno i nostri sposi, i migliori amici, i confidenti, il batterista nella band di nostro figlio, il nostro prossimo collega, Miss Islanda 2022, l’operaio che ci aggiusta il bagno, il cuoco della caffetteria, il pompiere, il genio informatico, l’ospite in tv».
Bryndis ha intercettato un disagio provato da molti connazionali e trovato le parole giuste per esprimerlo: «Ho condiviso il mio post con quattro o cinque amici, ma nel giro di poche ore abbiamo avuto migliaia di firme» mi racconta, ancora stupita di tanto clamore, prima di prendere la parola in un’affollatissima riunione organizzata dalla Croce Rossa. «Lunedi eravamo già un caso nazionale e il Telegraph di Londra lo ha reso internazionale scrivendo che diecimila islandesi aprivano le loro case ai rifugiati siriani. Ho subito chiarito che non tutti i firmatari della petizione sono disposti a offrire la loro ospitalità, ma la cosa ormai era partita e ha continuato a gonfiarsi. Si è molto stupita anche una mia amica dell’Unicef: dice che da due anni passava ai giornali e alle tv materiali sulla condizione dei bambini siriani, ma non usciva una notizia».
Sconcerta poi un altro fatto: i media locali, piuttosto di destra, ora riportano con orgoglio la rilevanza che la stampa planetaria ha dato al buon cuore dell’Islanda. Il Morgunblaðið, quotidiano vicino al Partito dell’Indipendenza, conservatore ed euroscettico, ha pure commissionato un sondaggio. È risultato che la maggioranza relativa degli intervistati, il 19 per cento, non accoglierebbe più di cinquanta rifugiati, ma nel titolo si è scelto un dato più allarmante per un lettorato compostamente xenofobo: Il 15% vuole più di 2.000 rifugiati in Islanda.
Indipendente solo dal 1944, dopo oltre cinquecento anni di dominazione danese, la piccola Islanda ha delle buoni ragioni per difendere la sua identità, la sua lingua, le sue tradizioni, il suo benessere raggiunto dopo secoli di miseria nera. Certo, l’identità culturale protegge, ma rischia anche di sconfinare nel razzismo. Bryndís snocciola qualche perla: «Nel 1939, il primo ministro Hermann Jónasson impedì alla dottoressa Katrín Thoroddsen di salvare alcuni bambini ebrei. E poi, durante l’occupazione americana, il governo era così preoccupato dalla contaminazione che impose all’US Army di non mandare soldati di colore. Il divieto continuò anche con la base Nato, fino al 1968. Noi non abbiamo la cultura dell’ospitalità che avete nel Mediterraneo. Le nostre fiabe sono piene di fantasmi di visitatori respinti e morti di freddo che tornano a punire i padroni di casa inospitali. Ma oggi con le nuove generazioni sta cambiando tutto: i giovani viaggiano, sono aperti al mondo e la risposta di massa alla petizione lo dimostra». Bryndís non teme che questa esplosione di bontà si affievolisca, che lo spontaneismo si incagli nella burocrazia, che riaffiorino gli egoismi accantonati: «Abbiamo liberato una grande energia positiva».
La Croce Rossa, che ha il compito di organizzare l’accoglienza, ci va più cauta, anche se esprime soddisfazione per lo stratosferico aumento di iscritti e volontari: trenta per cento in quattro giorni. Il portavoce Björn Teitsson smentisce che gli eventuali rifugiati andranno nelle case private: «L’accoglienza spetta ai Comuni, che devono garantire un domicilio, istruzione, assistenza medica e psicologica, accompagnamento e integrazione, non vogliamo creare rifugiati di prima e di seconda classe. Siamo in grado di gestire l’arrivo di duemila persone nei prossimi due anni, ma le decisioni sui numeri toccano al governo». Per inciso: il governo islandese, un tempo tanto disponibile con la stampa estera, si mostra alquanto reticente. L’addetto stampa del Welfare gioca a nascondino cinque giorni per poi dirottarmi sul portavoce di Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, il primo ministro del Partito progressista (all’islandese: difende da destra gli antichi valori contadini).
Raggiunto al telefono, il portavoce ha poco da dire se non che la Guardia Costiera islandese ha partecipato alle missioni di salvataggio Frontex nel Mediterraneo, ma non sa bene dove. Ammette che la questione siriana è stata forse un po’ trascurata, ma al più presto una commissione di cinque ministri prenderà le sue decisioni. Non sa se e quanti profughi siriani siano entrati l’anno scorso, né quanti sindaci siano pronti a riceverli. E su un eventuale allargamento dell’accoglienza non si pronuncia. Poi i numeri li trovo per altre vie: dal 1956 sono stati accolti 549 rifugiati, prima ungheresi, poi jugoslavi e polacchi, una sessantina di vietnamiti, oltre 200 croati e sette kosovari, 50 colombiani, 29 palestinesi e iracheni. Dalla catastrofe finanziaria del 2008, l’accoglienza si è rinsecchita: cinque colombiani, 15 afgani, un gruppo di cinque persone dall’Africa e dalla Siria e, quest’anno, 13 siriani.
Un’accoglienza prevalentemente bianca e socialmente non allarmante. «Negli ultimi anni sono soprattutto donne con bambini, gay e trans, invalidi» mi dice Gígja Svavarsdóttir, proprietaria della scuola Tin can factory, dove insegna l’islandese, ostico assai, agli stranieri e, in convenzione con lo Stato, anche ai rifugiati. «Ai richiedenti asilo di passaggio che vogliono andare in Canada sarebbe meglio insegnare l’inglese, io lo dico da tempo: finalmente il governo si sta convincendo. Prima di farli venire, bisogna spiegare ai rifugiati cos’è e dov’è l’Islanda: nel 1973 ai vietnamiti non l’avevano detto e quando sono arrivati pensavano di essere morti e finiti sulla luna. All’inizio, noi siamo gli unici in costante contatto, quattro giorni a settimana, con queste persone. C’è chi sta veramente male, ci è capitato di chiamare la Croce Rossa perché temevamo un suicidio». Gígja chiude con un aneddoto sulla fissa identitaria: «C’è un’emittente, Radio Saga, che tuona contro i profughi dicendo che distruggeranno il Paese e ci ruberanno il lavoro: beh, mi hanno telefonato offrendomi uno spazio pubblicitario, gli ho risposto che insegno ai rifugiati e mi hanno attaccato il telefono».
Gli stranieri residenti sono circa 27 mila, soprattutto centro-nordici: polacchi, baltici, danesi che non pongono problemi di diversità etnico-culturali, ma che trovano solo occupazioni medio-basse se non parlano bene la lingua insegnata da Gígja, o se non lavorano nelle poche big company e nell’informatica, dove te la cavi anche con l’inglese. Un rifugiato costa allo Stato il corrispettivo di 28-35 mila euro: un Paese che è uscito a tempo di record dalla crisi, che ha un Pil sopra i livelli pre-crisi e un tasso di disoccupazione del 3,2 per cento può permettersi qualche slancio in più. Ma gran parte degli islandesi non ha voglia di condividere il suo munifico welfare.
È uno strano Paese, questo: nei porti ci sono le baleniere dell’ultranazionalista Kristján Loftsson, che rivendica come diritto identitario sterminare cetacei, accanto ai battelli per turisti ecologici che battono i denti facendo whale watching. L’ex primo ministro che ha tirato fuori il Paese dalla crisi, Jóhanna Sigurðardóttir, è una donna e per di più omosessuale, ma le coppie lesbiche che ricorrono all’inseminazione devono dichiarare com’è avvenuto il concepimento, mentre per i figli in provetta di genitori etero non è richiesto. «Siamo avanti con i diritti umani, abbiamo un buon welfare, ma si può fare meglio» dice Anna Ludviksdóttir, direttrice di Amnesty International, che qui ha 34 mila sostenitori a vario titolo, più del dieci per cento della popolazione. Vabbè, adesso c’è la destra al potere, ma com’è possibile che con tanti paladini dei diritti umani ci sia un governo che chiude gli occhi davanti alla tragedia siriana? Una legge elettorale abbastanza astrusa motiva in parte la distanza tra il popolo e chi lo amministra, e poi c’è un altro fatto: «Siamo pochi e sappiamo che solo se mettendoci insieme possiamo cambiare le cose. Quindi la gente si iscrive» mi spiega Anna. Non è proprio l’essere pochi che alimenta le paranoie identitarie? «L’identità non è stata minacciata neanche quando c’erano 50 mila soldati americani su una popolazione di 120 mila islandesi. Non è che riceveremo 100 mila profughi, e comunque non si può mettere sullo stesso piatto della bilancia la morte, la tortura e l’identità. Questa reazione popolare è molto positiva, ma va evitato lo spontaneismo: oltre che sui rifugiati bisogna concentrarsi su quel che avviene in Siria, sul traffico d’armi, sul nostro ruolo nella comunità internazionale e all’Onu».
Però lo spontaneismo sta vivendo il suo momento bruciante e non è detto che abbia torto. Chi ha risposto all’appello di Bryndís non vuol sentir parlare di programmazione e tempi tecnici. «Alla Croce Rossa ci hanno detto che i rifugiati sono traumatizzati, devono stare da soli per riprendersi psichicamente, ma se pensiamo a organizzare tutto in modo impeccabile loro intanto muoiono» sbotta Guðrún Högnadóttir, che ha studiato architettura in Italia e ora continua a studiare traduzione e scrittura, buttando giù ogni tanto qualche articolo. Mi mostra come sistemerebbe la casa: «Si potrebbe levare la televisione qui in salotto e magari sfondare la parete del garage che è riscaldato, se due ragazzi volessero stare con noi». Suo marito, che fa la guida per pescatori facoltosi nei fiumi d’Islanda, è d’accordo e lo è anche sua madre, un’infermiera in pensione che vive con loro: «È cresciuta in Germania, figlia di un danese e di una tedesca. Durante la guerra, mia nonna, sola con quattro figli, ha accolto sette profughi arrivati all’improvviso: neanche loro erano di buon umore, ma si sono trovati bene. Poi quando mia madre è venuta in Islanda la chiamavano la nazista. Io non sono mai stata nel volontariato, ma da anni penso a cosa posso fare e adesso sono pronta, ho dato disponibilità per un anno: siamo tutti esseri umani».
È infermiera geriatrica in pensione anche María Ólafson, che da due anni si occupa dei profughi, prima accudendo i bambini per i compiti e ora seguendo una famiglia siriana. «Madre, padre e due bambini, di cui uno gravemente disabile. Anch’io avevo una figlia disabile. Li aiuto con l’islandese, che studiano anche a scuola. All’inizio ci capivamo a gesti, poi hanno impalato molto e comunque ce la caviamo con il traduttore google. Sono molto tristi, gli manca la famiglia, l’Islanda è dura per loro: quest’anno il Ramadan è stato fra giugno e luglio, il sole anche di notte. Non so quando hanno potuto mangiare e bere».
A Keflavík, cittadina vicino all’aeroporto che accoglie non proprio calorosamente settanta rifugiati, Lára Björg Grétarsdóttir e il suo compagno Hafsteinn Hjartarson non hanno raccontato ai vicini la loro intenzione di ospitare anche più di un anno una famiglia siriana. «L’ho detto solo a una coppia di amici e il marito mi ha chiesto se sono matta. Ma noi abbiamo una buona vita, una casa grande: vogliamo condividere». Lára, infermiera laureanda psicologa, e Hafsteinn, ingegnere informatico, hanno anche tre bambini dai due ai dieci anni, ma non si preoccupano che casa loro diventi una sarabanda. Alla distanza fra il concetto arabo di intimità e quello islandese non hanno ancora pensato. «Ma troveremo una soluzione vivendo la casa insieme». Chiedo a Lara, che ha avuto il primo figlio a 16 anni, se lei è stata aiutata nella vita. Ci pensa un attimo, sospira: «Sì, c’è stato un periodo in cui sono stata data in affidamento a una buona famiglia». Ultima domanda, mentre scattiamo davanti alla loro villetta la foto di copertina: in spagnolo la formula di accoglienza è mi casa es tu casa, in islandese c’è qualcosa di simile? Altro pausa di riflessione. «No, mi pare proprio di no».
Paola Zanuttini