Andrea Mattei, La Gazzetta dello Sport 18/9/2015, 18 settembre 2015
TRAPATTONI. ROCCO, I TRIONFI E LE TRANVATE. ECCO L’EPOPEA DEL GIUANIN
C’è il calciatore («In fondo soltanto un mediano tignoso d’altri tempi») e l’allenatore giramondo, c’è l’uomo e l’operaio, il figlio di Cusano e, forse soprattutto, il marito di Paola, figura onnipresente e decisiva fin dall’inizio. C’è l’aneddotica ma anche la verità onesta, il bilancio di «una vita di vittorie e di tranvate, come tutte le vite»: c’è tutto il Trap in Non dire gatto , la prima autobiografia di un monumento vivente del calcio mondiale, il più italiano degli italiani da esportazione. «Lo sai che i ricordi non mi piacciono. Preferisco tenere lo sguardo rivolto in avanti, verso il prossimo bersaglio»: ma a fine serata, davanti a un bicchiere di vino rosso, il Trap cede all’amico Bruno Longhi e, insieme, cominciano a disegnare questo autoritratto che è anche la storia di un’epoca di calcio che non c’è più, un nostalgico e a tratti esilarante viaggio nel tempo. Dai primi calci a un pallone che pallone non è: una vescica di maiale riempita con gli stracci e presa a pedate nelle vie di Cusano, dove Giovanni Trapattoni nasce il 17 marzo del 1939, da questa parte della strada perché di là, sull’altro lato della provinciale, è Milanino e i ragazzini sono vestiti bene, con le scarpe robuste e i modi eleganti. «Essere di Cusano o di Milanino fa la differenza. Da bambino sono esperienze che ti segnano e ti restano addosso per tutta la vita».
Ancora ragazzino il Trap si trova catapultato nel Milan di Nereo Rocco, dove in 14 anni vincerà scudetti e coppe varie e dividerà lo spogliatoio con fuoriclasse come Gianni Rivera e con quel pazzo di José Altafini: «Rocco un giorno arriva in spogliatoio, trova l’armadietto socchiuso, lo apre e salta fuori Josè, tutto nudo urlando come un ossesso. Rocco si spaventa: “Bruto mona, te me fa vegnir l’infarto!”». Quando, anni dopo, toccherà a Liedholm subire lo stesso scherzo nello stesso spogliatoio e dallo stesso buontempone, solo la reazione sarà diversa: il Barone, appena promosso allenatore, «resta impassibile davanti alla nudità dell’amico brasiliano e con flemma svedese pronuncia queste parole: “Ciuseppe, qvesto non essere tuo armadietto!”».
Ma la vera epopea trapattoniana è quella del Giuanìn allenatore, iniziata un po’ per caso nella fatal Verona, in quella disgraziata domenica del maggio 1973 in cui sostituì in panchina Rocco squalificato e Cesare Maldini con la pleurite. Un esordio da incubo – lo scudetto sfumato all’ultima giornata e le casse di champagne mai stappato – ma ampiamente riscattato da una carriera zeppa di record. Le vittorie di mister Trapattoni: 6 scudetti, 2 Coppe Italia, 5 coppe internazionali solo nelle prime 10 stagioni in bianconero, dove arrivò giovanissimo tra lo scetticismo di tutti, dell’Avvocato in primis, e con molti dubbi interiori («Andare alla Juve poteva dirsi una cazzata? Forse sì»); lo scudetto dei record con l’Inter, una squadra di campioni da tenere insieme, Berti e Serena «due scapoloni sempre con la voglia di divertirsi» da affidare a un agente in borghese, e il fuoriclasse Matthäus a cui nell’intervallo di una partita «feci una scenata davanti a tutti: “Ma ti vuoi mettere in testa, brutto crapone della Madonna, che tu non devi spostarti da lì perché se lo fai prendiamo gol?”. Lui cominciò a balbettare e poi si mise a piangere, si tolse la maglia e disse: “Non gioco più”. Come un bambino!». E poi altri successi e altre panchine in giro per il mondo, dalla Germania al Portogallo, dall’Austria all’Irlanda… Le vittorie, certo, ma anche le tranvate, come le chiama il Trap: il Moreno del Mondiale 2002, il biscotto dell’Europeo 2004, il mani di Henry che gli costò il Mondiale 2010... E la tragedia dell’Heysel che regalò alla Juventus la prima Coppa dei Campioni: «Quante volte ho desiderato vincere la finale di Atene contro l’Amburgo e non aver mai giocato quella di Bruxelles contro il Liverpool!».
Alla fine, da queste pagine esce il ritratto di uomo onesto, (quasi) in pace con se stesso, che rivendica con orgoglio mille scelte fatte sempre alla ricerca del successo e sempre mettendoci la faccia. L’orgoglio del Trap contro il pregiudizio che per una vita lo ha visto costretto a convivere con l’etichetta di difensivista e profeta del brutto calcio. C’è stato un tempo in cui anche Carmelo Bene andava in tv a incensare la «zona celeste» della Roma e a denigrare la Juventus operaia del Trap. «Non piacere agli intellettuali è sempre stato il mio destino. Io non piaccio a loro e loro non piacciono a me, siamo di due categorie diverse».