Mario Vargas Llosa, Il Sole 24 Ore 13/9/2015, 13 settembre 2015
COME SI SCRIVE UN ROMANZO
Ogni volta che qualcuno s’interessa del lavoro di uno scrittore, inevitabilmente domanda a quest’ultimo da dove prende i temi, perché scrive di queste cose e non di altre, come procede una volta scelto il tema, qual è il suo metodo di lavoro, se ha qualche mania, se è disciplinato o è un “ispirato”, che scrive in preda al raptus dell’illuminazione, dell’illusione.
Vi dirò come stanno le cose per me, ribadendo che si tratta soltanto del mio caso e che conosco molti altri scrittori che scrivono in modo molto diverso e la loro gestazione della narrazione non coincide minimamente con la mia esperienza creativa.
Ciò che ho imparato scrivendo finzioni, da quando ero adolescente, è che in verità non scelgo mai i temi, bensì sono i temi a scegliere me: scrivo di certe cose perché ho avuto certe esperienze. È la parte più misteriosa e perfino un po’ inquietante della creazione letteraria. Si conoscono centinaia, migliaia di persone nella vita e, tuttavia, ce ne sono alcune che lasciano un’impressione indelebile nella memoria. Si è protagonisti o testimoni di migliaia di eventi, ma ce ne sono alcuni che permangono nella memoria con una intensità che non svanisce, anzi si mantiene e, a volte, si accresce con il passar del tempo. Ci sono certi episodi che ci vengono riferiti o che leggiamo, che lasciano un segno nella memoria; poi, con il passar del tempo, si trasformano, inconsciamente, non deliberatamente, nell’origine di una fantasia. Mi accorgo allora che da molto tempo stavo fantasticando su un ricordo e che avevo già costruito, distrattamente, quasi inconsapevolmente, un embrione di storia; a volte non è neanche un embrione di storia, bensì una situazione, un personaggio, un’atmosfera attorno a questo ricordo che, per ragioni a me oscure, è divenuto uno stimolo per la creazione.
Forse un esempio può illustrare meglio quanto voglio dire: una volta ho letto in un giornale, mentre andavo in autobus da Miraflores al centro di Lima, un breve resoconto su un incidente successo in un villaggio della sierra, in cui si diceva che un cane aveva morso un neonato. Bene, non so se settimane o mesi dopo, constatai che questa breve nota fugace, letta in un giornale, era ben viva nella mia memoria e che da tempo fantasticavo sulla vita che avrebbe avuto quel bambino una volta cresciuto. Rimuginavo e rimuginavo intorno a questa idea. La ferita della creatura, diversamente dalle altre ferite, invece di chiudersi col tempo si sarebbe aperta sempre di più. La vera tragedia si sarebbe manifestata, quando lui sarebbe diventato un adolescente e poi un uomo. Così mi ritrovai con una storia costruita.
Questa storia ebbe subito per me un’ importanza straordinaria, perché da molto tempo - tra la miriade di progetti che di solito ho tra le mani, la maggior parte dei quali si perdono per strada - ne avevo uno sempre rimasto incompiuto: scrivere una storia sul mio quartiere. Il quartiere era rappresentato dal gruppo di ragazzi e ragazze che si riunivano all’angolo della strada, che condividevano tutti i riti dell’adolescenza: il calcio, le feste, le prime sigarette, gli innamoramenti, una specie di famiglia parallela... Un’esperienza che ricordavo con enorme nostalgia, perché per me era stata unica, ricchissima. Su questo volevo scrivere una storia, ma non avevo mai potuto concretizzarla perché mi mancava sempre qualcosa. E, all’improvviso, quando vidi che avevo lo scheletro della storia, trovai anche la colonna vertebrale: un giovane che nell’infanzia aveva avuto un incidente come quello della notizia del giornale che avevo letto. La storia del quartiere avrebbe dovuto ruotare attorno a questo personaggio, a questo protagonista. Il perché non lo so, ma lo sentii chiaramente. Cosí nacque una delle mie finzioni, I cuccioli, una novella.
Tutti i romanzi, i racconti, e le opere di teatro che ho scritto hanno avuto un’origine simile: da qualcosa che mi è successo e che mi ha segnato così tanto, da non poter evitare di scrivere una storia a partire da questa esperienza. Per esempio, un giorno lessi un libro che mi stregò. È una delle esperienze più ricche che abbia avuto come lettore: Os Sertões, di Euclides Da Cunha, un libro che dovrebbe essere obbligatorio leggere per chi vuole capire cosa è l’America Latina e cosa non è. Chi l’ha letto sa che è un libro curioso, in un certo qual modo ermafrodita: è storia, è sociologia, è narrativa. Non è un romanzo, ma si legge come si leggono i grandi romanzi. È un tentativo di spiegare un fatto tragico della storia brasiliana: la guerra civile di Canudos, una guerra che scoppiò molti anni dopo la dichiarazione della Repubblica e la conseguente caduta della Monarchia. La causa fu la ribellione di alcuni contadini del Nordest contro la Repubblica, che da loro veniva identificata con il diavolo. Questo generò un malinteso storico in cui l’ideologia ebbe un ruolo fondamentale. Offuscò la coscienza e l’intelletto dei brasiliani più lucidi, dell’intera intellighentia brasiliana, che aveva voluto la Repubblica e che mobilitò l’intero Brasile occidentalizzato e moderno contro questi contadini, che credevano di lottare contro il diavolo. I repubblicani pensarono subito che i contadini fossero lo strumento di una cospirazione antirrepubblicana, in cui erano coinvolti i signori feudali e l’Inghilterra.
Si trattò di un doppio malinteso: repubblicani che lottavano contro cospiratori stranieri e contro una plutocrazia o aristocrazia nazionale, e contadini che credevano di star lottando per Dio e contro il diavolo. Ciò provocò una guerra civile che fece quarantamila morti e lo stesso Euclides Da Cunha - che si schierò con i repubblicani più fanatici scrisse alcuni articoli in cui, con tutta la buona fede di questo mondo, forniva prove, per esempio, della presenza di ufficiali britannici tra i yagunzos, i contadini. Tuttavia, dopo la strage, fu uno dei pochi intellettuali capaci di fare autocritica e dire: «Come abbiamo potuto sbagliare in questo modo, causare una simile tragedia basandoci su una finzione, su un mito?». Per dare una risposta a questa domanda, scrisse questo libro meraviglioso che è Os Sertões, in cui, ricorrendo a tutti i volumi di scienze sociali che aveva a disposizione, cercò di spiegare quello che era successo. Bene, la lettura di questo libro mi folgorò, in un momento in cui, tra l’altro, attraversavo una crisi ideologica molto seria. Avevo perso ogni illusione, ogni entusiasmo a favore di una causa, ero entrato in un periodo di depressione e di autocritica molto profonda e provavo un enorme senso d’insicurezza e di smarrimento ideologico, filosofico e politico. Questo libro, inoltre, mi riempì la memoria di personaggi, come il leadermessianico Conselheiro, uomo umile, analfabeta, che era stato capace di illudere e mobilitare un’intera regione del Brasile, i cui abitanti si fecero uccidere per lui, convinti che lottare contro la Monarchia fosse lottare per Dio e contro il diavolo.
La forza di queste immagini fu tale che per molto tempo non potei pensare ad altro, e all’improvviso decisi che dovevo scrivere un romanzo su questa storia. Qualcosa era scattato in me, come quando avevo letto, molto fugacemente, quell’articolo in un autobus tra Lima e Miraflores; la lettura di questo saggio, insieme alla mia storia, alla mia storia segreta, una storia di cui non ero pienamente cosciente, mi catapultò letteralmente nella scrittura de La guerra della fine del mondo.
Per questo dico che i temi dei miei romanzi in certo qual modo mi sono stati imposti dall’esperienza, un’esperienza che sicuramente risveglia qualcosa che si trova lí, nei meandri più oscuri della mia personalità e che è, per molti scrittori, la fonte della vocazione e dell’ispirazione. È questa la prima cosa che ho constatato sul mio lavoro, su come scrivo: i temi mi vengono imposti da una determinata realtà.
Non mi è mai successo di vivere deliberatamente un’esperienza con lo scopo di poterne scrivere - eppure ci sono scrittori che lo fanno , ma nel mio caso non è mai stato così. Basta che qualcuno mi proponga un bel tema su cui poter scrivere perché l’effetto sia esattamente l’opposto, cioè quello di escluderlo. È come se quel generoso suggerimento fosse una specie di violazione dell’intimità segreta, in cui avviene la gestazione, inconscia, dei temi dei miei romanzi.
Quando comincio a scrivere una storia, in realtà questa storia è già in movimento, è già in gestazione, ha smesso di essere una nebulosa e comincia a prendere forma, sia pur incosciamente. Esagerando un poco, potrei dire che lavoro, con la maggiore lucidità, razionalità e conoscenza possibili, non all’elaborazione dei temi, ma fondamentalmente alla forma in cui questi temi si coagulano e si materializzano. Così facendo ho la sensazione di essere totalmente responsabile: scelgo le parole, la scrittura che si addice alla storia e le tecniche.
Sebbene i professori di letteratura possano scrivere all’infinito sulle tecniche narrative, credo che fondamentalmente le tecniche di una finzione si riducano a due problemi che uno scrittore deve risolvere: la voce narrante e il tempo.
In primo luogo bisogna chiedersi chi racconta la storia: se la racconta qualcuno che è dentro la storia, se è un narratore coinvolto, un narratorepersonaggio che vive la storia con gli altri personaggi; o se la racconta un narratore onnisciente ed estraneo alla storia, qualcuno che la ordina come fosse un Dio onnipotente dal di fuori o ancora se la raccontano molti narratori coinvolti. È, questo, un problema tecnico fondamentale da risolvere, perché, anche se non sembra, il personaggio principale di ogni storia è sempre il narratore che racconta la storia, e il narratore non è mai l’autore. Il narratore è un personaggio che crea l’autore persino nei romanzi in cui questi appare con il suo nome e cognome. Per esempio, nel mio romanzo La zia Julia e lo scribacchino, appare un Varguitas e molti lettori credono che Varguitas sia io in carne e ossa. No: Varguitas è un personaggio della storia, anche se usurpa il mio nome e alcune delle mie esperienze biografiche.
L’altro problema tecnico fondamentale che lo scrittore deve risolvere è il tempo. Il tempo in un romanzo non è mai il tempo cronologico, il tempo reale, il tempo in cui siamo immersi, che ci va consumando e trasformando a poco a poco in una finzione. Anche il tempo è una finzione, una finzione sottile, una costruzione artificiale da cui dipendono, così come dipendono dal narratore, il successo ovvero il fallimento di una storia.
È chiaro che uno scrittore non deve porsi il problema teoricamente. Ci sono grandi romanzieri che riderebbero a crepapelle di me, se mi stessero ascoltando. Direbbero di non aver pensato al problema del narratore né al problema del tempo, di aver voluto soltanto raccontare una storia e di aver sentito che il modo migliore per raccontarla era così. Questo è certamente vero, ma ciò vuol dire semplicemente che il nostro romanziere ha risolto il problema del narratore e del tempo intuitivamente, non in maniera razionale o consapevole.
Perché scegliere un modo in particolare di raccontare una storia e scartarne altri? Ci sono infinite maniere di raccontare una storia. Una stessa storia si potrebbe raccontare in dieci o cento modi diversi, ma ce n’è uno che, senza dubbio, è il modo migliore. Che significa “il modo migliore di raccontarla”? È il modo più persuasivo, il modo in cui si possono rendere meglio le esperienze implicite dei personaggi, la situazione, l’ambientazione della storia. Come si fa a sapere qual è? Non vi è una risposta razionale a questa domanda. Almeno io non ce l’ho, ma so esattamente quando il modo che ho scelto non funziona: la storia raccontata in quel modo, da quella prospettiva, da quella distanza, da quel tempo è come sprecata, impoverita. È un’intuizione di cui sono assolutamente sicuro, e arrivo alla formula che mi sembra la più accettabile mediante l’eliminazione, cioè, correggendo, rifacendo, distruggendo.
Certamente, questo non è il caso di altri scrittori. Ricordo la mia sorpresa e il mio stupore quando seppi che Cortázar aveva scritto Rayuela (Il gioco del mondo) senza correggere una sola pagina, un libro che ha una costruzione così complessa, una struttura così elaborata da dare l’impressione di un enorme lavoro di oreficeria. In verità, lo scrisse sedendosi alla macchina da scrivere tutti i giorni senza sapere cosa avrebbe scritto e, praticamente, mandò all’editore quella prima versione, quel canovaccio, che divenne la versione definitiva del romanzo. Io rimasi folgorato. Ricordo che conversai con lui e gli dissi che per me era assolutamente impossibile, perché la prima versione di una storia nel mio caso era un magma, un caos incomprensibile, e lui mi disse: «Potrebbe essere semplicemente che il lavoro materiale che tu fai, io lo faccio mentalmente e inconsciamente. Forse, quando io mi siedo a scrivere un racconto o un romanzo già, nel segreto della mia coscienza, ho fatto tutte le versioni necessarie e ho eliminato tutto quello che c’era da eliminare, e così viene fuori la versione definitiva».
A me non è mai successo. Nel mio caso si tratta di un’elaborazione che va prendendo forma per eliminazione; e per questo dico che quello che mi piace davvero più che scrivere è riscrivere, e più che uno scrittore sono un “riscrittore”.
È molto interessante il modo in cui la scelta della forma va dando consistenza e visibilità alla storia. Forse per quanto ho detto finora, ad alcuni di voi può sembrare che si tratti di un processo cronologico, che prima ci si costruisce la storia in testa e dopo ci si siede a scriverla. No, non è così. Quando io mi siedo a scrivere, ho una nebulosa più o meno organizzata in varie traiettorie. Ci sono personaggi che vanno di qua e di là, i cui cammini s’incrociano, ma tutto è ancora molto confuso, molto vago, e continua a esserlo fino alle fine del romanzo, fin quando non scrivo l’ultima parola e metto punto. La storia va prendendo consistenza nella misura in cui si materializza in una forma data, in quelle date parole e in un’organizzazione temporale.
È affascinante come in questo processo la finzione si alimenti di tutta l’esperienza vissuta. In tutti i romanzi che ho scritto mi è successo lo stesso. Al principio la storia è distante, è una storia fredda. Ho l’impressione che la sua scrittura sia un lavoro meccanico, devo impormi degli orari, forzarmi. Ma poi, man mano che riesco ad avanzare nella prima stesura e ho una prima versione caotica, davvero magmatica, in quel momento si verifica un fenomeno: comincio a sentire come a poco a poco questo mondo mi va cannibalizzando, facendo uso di tutto quanto mi accade, nutrendosi di altri ricordi, risvegliando - per associazione, por contrasto, per similitudine - altre immagini fino al momento (veramente affascinante, perché, sebbene l’abbia vissuto molte volte, continua a inquietarmi) in cui ho la sensazione che tutto quello che faccio ventiquattro ore al giorno, cioè anche quando dormo, serva all’opera che mi accingo a scrivere.
Quando arriva questo stato è quando sento davvero che ogni mio sforzo è stato ripagato e appagato, e questo è il miglior premio che la letteratura possa dare. È la sensazione che c’è un mondo che ha cominciato a manifestarsi, a vivere da sé, con una forza d’attrazione tale sulla mia persona, che mi porta a darmi interamente a esso, al punto che che in un certo senso mi rende suo schiavo. Queste parole di certo possono sembrare magniloquenti, ma esprimono una realtà. Credo che ciò lo viva chiunque abbia portato a termine un’attività creativa e sia stato testimone di una vita che sboccia e della quale si è parzialmente responsabili, colui che sia riuscito a mobilitare forze, energie, posizioni o idee: tutto quello che aveva dentro.
Un’altra constatazione per me sempre interessantissima è che raramente la visione che lo scrittore ha della storia scritta coincide con quella dei lettori. Per quanto si possa essere lucidi sul proprio processo creativo, si hanno sempre sorprese e io le ho avute con tutti i romanzi che ho scritto.
La prima sorpresa la ricordo molto bene. Nel mio primo romanzo, La città e i cani, c’è la morte di un cadetto, in una scuola militare, un’uccisione di cui l’autore resta misterioso. Ero stato assalito da molti dubbi mentre scrivevo il romanzo: se questo giovane doveva essere assassinato da un compagno o se la sua morte doveva essere casuale, e non riuscivo ad avere un’idea chiara. Così lasciai la storia nell’ambiguità. Ma conversando con un critico, Roger Callois un magnifico critico, per inciso, uno dei primi europei ad aver parlato del boom della poesia e del romanzo latinoamericani, questi mi parlò de La città e i cani in un modo che mi sorprese moltissimo. Mi disse: «L’assassinio di questo ragazzo commesso da El Jaguar è per me una delle cose più interessanti del libro». «Ma se El Jaguar non uccide il cadetto!», gli risposi. «Chiaro che è l’assassino, non c’è dubbio. Lei non se ne è reso conto, ma è chiarissimo. El Jaguar è una persona che ha bisogno di riconquistare la leadership persa tra i compagni. Lui è il capo, il picchiatore. In un certo senso si realizza in questa gerarchia. Allora, come poter recuperare il ruolo di leader? Con un fatto di sangue. Solo lui può essere stato l’assassino». Fu così convincente che lo credetti. Adesso sostengo io stesso che El Jaguar è l’assassino de El Esclavo.
Ricordo il caso di un altro critico che scrisse su Conversazione nella Cattedrale. Era un saggio così eloquente che, quando mi chiedevano del significato del romanzo, fornivo l’interpretazione di questo critico. Lui sosteneva che in Conversazione nella Cattedrale io avessi voluto mostrare la profonda corruzione vissuta nella società peruviana a partire dal potere politico, dalla dittatura, che era una fonte di putrefazione che contagiava l’intera società. Fino a qui coincideva con quello che io avevo in mente, quando scrissi il romanzo, ma un’altra sua argomentazione e faceva degli esempi era che l’aspetto più interessante era la materializzazione formale di questa idea: ogni qualvolta la storia si avvicina al potere politico, alla dittatura, il linguaggio si fa sporco, non solo perché appaiono parolacce, ma perfino la sintassi si scompone, si deteriora, c’è una deformazione a livello del linguaggio. In questo modo si denuncia la natura profondamente abietta del potere politico. Questo non mi sarebbe mai passato per la mente, eppure, questa interpretazione era così persuasiva che mi convinse.
Quando si scrive, non solo si proietta la parte conscia di se stessi, ma anche la parte oscura della propria personalità. Si scrive con le idee, ma anche con i propri istinti, con le proprie emozioni, con le proprie passioni, con tutti i materiali rinchiusi in fondo al subconscio. Nel processo di creazione, questi stati che i romantici chiamavano ispirazione e che potrebbero chiamarsi eccitazione o sovraeccitazione, affiorrano nel momento di scrivere e lasciano anche una traccia. Questo spiega il perché di come quello che lo scrittore voglia dire non coincide sempre con quello che i lettori capiscono. Ma ciò non invalida la sua interpretazione, semplicemente rende manifesta la cecità che a volte ha lo scrittore di fronte a quello che fa. Sicuramente conoscete la celebre lettera di Flaubert all’avvocato che lo difese quando il suo romanzo Madame Bovary fu processato per immoralità. In questa lettera diceva: «[...] non capisco come mi possano processare per un romanzo la cui morale è chiarissima. È un romanzo che mostra le conseguenze negative della cattiva letteratura su una ragazza di provincia».
(Traduzione di Giovanna Minardi)
© Mario Vargas Llosa 2015