Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 13 Domenica calendario

LE DIMENSIONI NON FINISCO MAI

Soffia un vento di ribellione «contro la tracotanza che vorrebbe limitare le dimensioni a due o tre o a qualsiasi numero che non sia infinito». Esclama così il protagonista di Flatlandia (1884), «racconto a più dimensioni» dovuto alla fantasia del versatile reverendo Edwin Abbott (1838-1925). L’eroe della storia (disponibile in italiano in tre edizioni: Adelphi, a cura di Masolino d’Amico; Bollati Boringhieri, a cura di Michele Emmer; Einaudi, a cura di Claudio Bartocci) è un Quadrato, che invita i lettori a «immaginare un enorme foglio di carta in cui Linee Rette, Triangoli, Quadrati, Pentagoni, Esagoni e altre figure si muovono liberamente per tutta la superficie, senza però avere il potere di elevarsi al di sopra di essa o sconfinare al di sotto». A lungo, non diversamente dai suoi compatrioti, questo Quadrato pensante ha ritenuto che Flatlandia coincidesse con l’intero universo. Un giorno l’incontro con un essere tridimensionale, una Sfera che ha attraversato quella superficie piana, lo ha costretto ad ammettere che nel cosmo ci sono più cose di quante ne sogni la misera filosofia del suo Paese. Lo «straniero» gli ha comunicato una sorta di «Vangelo delle tre dimensioni»; anzi, perché non ammetterne una quarta? E perché limitarsi a un numero finito? Con queste domande scandalizza la stessa Sfera che lo ha ammaestrato, per la quale dimensioni superiori a tre non sono che «passatempi mentali»! L’allegoria di Abbott diventa così — come scrive Bartocci — «un’opera plurivoca», che riunisce in sé conoscenza, politica e teologia.
Negli stessi anni in cui il racconto di Abbott veniva offerto al pubblico, i matematici avevano già cominciato a svincolare la geometria dalle ristrettezze dello spazio dell’esperienza quotidiana. Così Bernhard Riemann, nella dissertazione Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria (1854), aveva ridefinito la disciplina come lo studio dello spazio con un numero qualsiasi di dimensioni. Se i punti di un piano sono identificati da due numeri e i punti dell’usuale spazio tridimensionale da tre, «per analogia» i punti di uno «spazio a n dimensioni» sono identificati da n numeri; n è quella che oggi i matematici chiamano «dimensione topologica», perché una deformazione continua senza strappi e incollature (come si vuole in topologia) la lascia invariata.
La Quarta Dimensione era ancora considerata, alla fine dell’Ottocento, una regione ove potevano aggirarsi spettri e fantasmi — come sostenevano «spiritisti» tipo Alfred Russel Wallace, l’estroso concorrente di Darwin, o Arthur Conan Doyle, l’inventore del razionale Sherlock Holmes — o prendere forma le immaginarie escursioni della Macchina del tempo (1895) di H.G. Wells. Pochi anni dopo quella elusiva dimensione avrebbe fornito l’adeguato scenario per la relatività di Einstein. In una conferenza del 1908 Hermann Minkowski avrebbe proclamato che «lo spazio in sé e il tempo in sé erano destinati a svanire come pure ombre, e solo una forma di unione tra i due avrebbe conservato una realtà indipendente».
Non è stata questa l’unica modalità in cui sono proliferate varianti della nozione di dimensione. Il «fiocco di neve» ideato nel 1904 dallo svedese Helge von Koch è definito come il limite di una successione di curve ottenute iniziando con un triangolo equilatero e dividendo a ogni passo ciascuno dei lati in tre parti uguali, rimuovendo quindi le parti centrali e sostituendole con due segmenti di uguale lunghezza che vengono così a formare nuovi triangoli equilateri, rivolti verso l’esterno e più piccoli. Se dividiamo un oggetto geometrico in N parti, uguali per forma all’originale, ma rimpicciolite di un fattore r , possiamo definire una nuova dimensione data dal rapporto del logaritmo di N col logaritmo di r . Nel caso di una figura euclidea come il Quadrato di Abbott, questa dimensione coincide con quella topologica. Ma per la curva di Koch, essendo N =4 e r =3, il rapporto dei logaritmi risulta 1,26… e la nuova dimensione non è più un numero intero, ma un numero reale, opportunamente approssimato da una frazione. Per questo un oggetto del genere è detto frattale.

La realtà, ancora una volta, batte la fantasia: i frattali non sono pure astrazioni. Infatti, servendosi «di occhio, di mano, e poi del computer», il matematico Benoît Mandelbrot (1924-2010) ha trasformato le intuizioni di Koch e altri pionieri in una disciplina coerente e ha rivelato che i frattali (il termine è suo) sono davvero ubiqui. Oltre ai fiocchi di neve, sono tali le nuvole, i fulmini, le catene dei monti, gli alberi… e basta rivolgerci al nostro ortolano per un frattale di dimensione all’incirca 2,3: il cavolfiore.
Mandelbrot, che si è autodefinito (nell’autobiografia pubblicata postuma, edita in Italia nel 2014 da Rizzoli col titolo La formula della bellezza ) «un profugo dell’intelletto», potrebbe essere lui stesso il soggetto di un «racconto a più dimensioni». Come Flatlandia è solo un frammento del cosmo, anche il Paese elegante e semplice, ove le curve sono tutte «lisce», è solo una piccola regione del più complesso e più ricco mondo delle figure complicate e «rugose». Mandelbrot si è lamentato di non aver nemmeno subito un processo per «eretica sedizione»! Ma nel campo dell’invenzione matematica — come già intuiva Abbott — non esiste alcuna «ortodossia».