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 2015  settembre 17 Giovedì calendario

ANTONIO COLOMBO – [IL PADRE FONDÒ LA COLUMBUS, LUI RILEVÒ LA CINELLI...]


Un ciuffo di capelli grigi, l’espressione che vira verso un’ironia incontenibile mentre percorre corridoi colmi di luce e di opere d’arte, solo all’apparenza molto lontane tra loro. Dipinti e telai. Quadri e manubri. La sintesi si trova alla destra della sua scrivania. Una bicicletta. Nome di battesimo: Laser. Un nome nobile, celebre, riverito. L’unica bici italiana vincitrice del Compasso d’Oro, vale a dire il massimo riconoscimento del design internazionale: 28 medaglie d’oro conquistate tra Olimpiadi e Campionati mondiali. Non basta: l’esemplare ostenta un supplemento di eccezione. È dipinto da Keith Haring. Elegantissimo, persino straniante rispetto all’uso dei colori tipico dell’artista americano scomparso nel 1990: «Fu una specie di baratto. Haring era spesso a Milano, nacque una bella amicizia. Volle una nostra mountain bike coloratissima e, in cambio, disegnò liberamente questa Laser. Mi aspettavo un intervento marcato o comunque più dominante. Invece si mosse nel rispetto, con sobrietà, firmando il telaio, lavorando sulle ruote lenticolari. I grandi artisti sono così: sempre capaci di sorprendere».
Antonio Colombo sa di cosa parla. Il problema, casomai, è parlare di lui, dato il curriculum, il cognome. Colombo significa “Columbus”, un’azienda fondata dal padre Aurelio Luigi nel 1919 che ha attraversato il Novecento a colpi di genio e regolatezza. Tubi. Tubi speciali, buoni per azzardare e conquistare su molti fronti, dal ciclismo all’aeronautica; dal motociclismo all’arredamento, all’automobilismo. Una storia che pare un’avventura leggendaria dentro la quale transitano aerei Caproni che sorvolano l’Atlantico con Italo Balbo ai comandi; moto Guzzi in piega; Ferrari e Maserati che vincono sulle piste del Mondiale, mobili come frutti del razionalismo. Non è tutto, ovviamente. Colombo significa Cinelli. Vale a dire Cino Cinelli, corridore e, soprattutto, precursore: primo manubrio in alluminio, prima sella con scafo in plastica, primi cinghietti fermapiede, primo pedale a sgancio rapido. Tutta roba sua. La Cinelli aveva trent’anni quando, nel 1977, venne rilevata da Antonio Colombo. Risultati? Una valanga, non semplicemente in termini di corse su strada: «L’agonismo per me è importante. Lo è sempre stato. È un limite sul quale misurarsi ed è decisivo per muoversi su un campo che dell’agonismo può anche fare a meno. Intendo l’universo della bicicletta, che è ampio, meraviglioso. Perché concede spazio alla fantasia e permette di affrontare avventure di ogni genere».
Per fornire i punti cardinali di questo ragazzo dai capelli grigi, serve addentrarsi in un altro fronte ancora. Alto ma compatibile. Antonio Colombo è titolare di una galleria d’arte, da considerare come uno specchio necessario. Prime pedalate, qui, anno 1998. Giovani artisti italiani, in origine, per poi aprire le sale e le pareti a interpreti internazionali. Questo per spiegare che esiste un filo robusto a collegare i capitoli di una storia fatta di personalità affini, capaci per tempi e metodi diversi di dare forma a una quantità di sogni: «È vero, c’è una capacità visionaria che pare una costante e che, magari, ha penalizzato la diffusione dei nostri prodotti. Lo dico perché spesso ci penso. Penso che avremmo meritato di più in termini di presenza sui mercati. Ma del resto ogni scelta compiuta ha avuto una ragione ed è vero che siamo riconosciuti come una realtà atipica e per certi versi unica. Però sono convinto che non ci sia nulla di geniale. Più semplicemente, abbiamo introdotto alcuni concetti atipici in un universo, quello del ciclismo, poco portato a osare, a cercare una strada nuova».
Ma sì, un marchio che è una icona, un lustro italiano inconfondibile. Un percorso segnato da svolte epocali. L’introduzione della mountain bike, con il modello Rampichino, 1985: un altro allungo perentorio, più di vent’anni dopo, 2009, con la produzione delle bici a scatto fisso, quelle usate dai bike messenger americani, nude e raffinatissime, pronte per conquistare ovunque i ciclisti urbani. Biciclette come parti essenziali di una cultura metropolitana. Oggetti d’arte immediatamente connessi alla street art, a una visione del mondo ruvida e veloce che ha animato, appunto, una quantità di artisti: «Vede, sono nato e cresciuto a Milano, con l’odore dell’acciaio nel naso. Con una serie di riferimenti forti, in arrivo dalla mia famiglia. Per questo credo sia eticamente giusto immaginare che ogni impresa debba produrre un utile. È un tema centrale e, se vogliamo, tipicamente lombardo. Poi c’è stato dell’altro. La possibilità di guardarmi attorno, di viaggiare, osservare ed elaborare. Di avere a che fare con una quantità di persone eccezionali. In questo senso, la bicicletta è diventata simile a un intreccio molto importante e ricco di suggestioni. Un oggetto che raccoglie su di sé la necessità di una performance, l’aspirazione a competere, il design, l’arte. Quindi, stiamo parlando della bicicletta come qualcosa che deve essere bello, ben fatto e utile a far contento chi la usa».
Poco fuori Milano ci sono gli uffici, c’è l’officina. Ventotto persone in tutto. Un capannone che condensa in pochi metri il fascino del Novecento, appunto: i tubi costruiti e trasportati sopra antichi carrelli Columbus: le bici a scatto fisso, magnifiche, modernissime; il contributo a un progetto del Politecnico per una bicicletta che utilizzi l’energia cinetica come forza propulsiva. Colori originali e vivissimi, accostati a foto in bianco e nero. Fausto Coppi vicino ad Alfred Bobé, origini portoricane, cresciuto a New York, messenger duro e puro, il re della Monster Track, una corsa – dura e pura anche lei – nel cuore della Grande Mela.
Antonio Colombo si muove in officina come dentro casa propria, come dentro la galleria d’arte, circondato da immagini che tengono insieme memoria e presente: «Sono valori custoditi ma anche stimoli per guardare avanti, per non fermarsi. Mi piacerebbe sistemare l’archivio della Columbus, avere tempo per stare di più in bici, pedalare in montagna con gli alveoli liberi». Lo dice ma si capisce che è preso, soddisfatto, capace di respirare il profumo di ciò che fa ogni giorno. Con Fabrizio Giussani, ingegnere e suo partner da sempre; con Alessandra Cusatelli, responsabile del design; con un manipolo di artigiani che continua a realizzare oggetti ambiti ovunque. Tecnologia, un pionierismo naturale: «Ma sì, è vero, anche se a fare i pionieri ci scappa talvolta una gamba fratturata». Lo dice ma pensa soprattutto ai territori esplorati e conquistati uscendone indenne. A Barry McGee e a Mike Giant che hanno contribuito a realizzare bici d’artista in numeri limitatissimi; a un cerchio che riesce a chiudere continuamente, trasferendo sulla bicicletta ispirazioni senza prezzo. Qualcosa che conquistò Fidel Castro, con tanto di copertina del Granma de Cuba, dedicata ad Antonio Colombo in occasione dei Giochi Panamericani del 1991; ribalta internazionale che portò Eric Clapton a richiedere una Supercorsa da consegnare nel Backstage di un concerto davanti a un distratto Sting; e che fece innamorare anche Steve Jobs, al quale venne consegnata una Supercorsa nera direttamente nel bel mezzo di una riunione. Interrotta immediatamente per pedalare lungo i corridoi della NeXT. «A quella bici Jobs era molto affezionato. È passata al figlio ed è diventata una vera e propria icona per la famiglia», ricorda.
Antonio Colombo sorride, minimizza. Passa una mano tra i capelli grigi e gli scappa un sorriso. Un orgoglio da ragazzino.