Enrico Remmert, Icon 9/2015, 17 settembre 2015
IL TALENTO DI COLTIVARE UNA PASSIONE. E UNA MADRE MOLTO SPECIALE
[Claudio Marchisio]
«Per andare agli allenamenti ogni giorno dovevo farmi settanta chilometri in macchina: mia madre aveva lasciato il lavoro perseguirmi». Claudio Marchisio abbassa per un istante lo sguardo poi alza gli occhi, azzurri e limpidi come l’acqua, e continua: «Per certi versi era normale: siccome eravamo piccoli, avevamo tutti un genitore che ci accompagnava. Ma quando pioveva o arrivava l’inverno non è che rimanevano lì a guardarci, giustamente se ne stavano tutti al caldo del bar. Tutti tranne uno: mia madre. Poteva diluviare, nevicare, potevano esserci dieci gradi sotto zero ma quando io alzavo gli occhi lei era lì. Da sola, sotto l’ombrello, con la neve. Lei stava lì».
Due decenni dopo quel bambino entrato nella Juventus all’età di sette anni, e incoraggiato come solo una madre sa fare, è diventato un uomo. Oggi Claudio Marchisio ha ventinove anni e gli appassionati di calcio lo considerano uno dei più forti centrocampisti del mondo: ha tecnica, tiro, visione di gioco e personalità. I tifosi bianconeri lo adorano, gli avversari lo ammirano, perché non si risparmia mai.
Come si arriva così in alto?
«È un concorso di tante cose. C’è la fortuna, o meglio il non avere sfortuna: perché se da giovane ti capita un brutto infortunio, o un problema famigliare grave, finisce che magari abbandoni tutto anche se sei un campione. Però, come diceva un mio vecchio allenatore, la fortuna devi andartela a prendere. Ed è vero: se desideri veramente una cosa non puoi rimanere seduto ad aspettarla sperando che ti cada addosso come la pioggia».
Ti è mai capitato di giocare con talenti su cui avresti scommesso tutto e invece poi si sono persi per strada?
«Sì, è naturale, ma credo che succeda in qualsiasi ambito, non solo nello sport. Credo che succeda a scuola, all’università, nel lavoro...».
E qual è il fattore che cambia le cose?
«È qualcosa che devi avere dentro. Io sono convinto di essere arrivato qui perché in tutti gli episodi che si vanno a collegare nel libro della mia vita c’è qualcosa che ho dentro e che non è né il talento, né il carattere né l’intelligenza: è il fatto di volere qualcosa veramente. Quando da bambino mi chiedevano cosa vuoi fare da grande e io rispondevo il calciatore, tutti sorridevano. Ma io lo volevo veramente. E ogni volta che scendevo in campo mi dicevo: so che io voglio andare lì, so che io farò quello nella vita».
Il talento è un dono e il successo un lavoro. Secondo te è vero?
«Magari non per tutti ma per me sì. Il talento ce l’hai dalla nascita ma se non ci lavori sopra magari non vai da nessuna parte. Mentre invece, anche quando arrivi a livelli importanti, il lavoro è quello che paga. Puoi avere 20 anni come 38, ma se giochi ancora e giochi bene è perché ti impegni e ti alleni come si deve tutti i giorni, con concentrazione e determinazione».
Non c’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare?
«Ne parlo spesso con i miei compagni e tutti, chi più chi meno, quel momento lo hanno vissuto, in genere verso i 14, 15 anni. Gli allenamenti ti tolgono tanto, sono un vero sacrificio e a un certo punto a quell’età hai voglia di uscire con gli amici, le ragazze, andare in giro, fare esperienze... Perciò una sera che tornavamo dagli allenamenti dissi a mia madre che il calcio stava diventando un peso e volevo mollare. E lei semplicemente disse: “Guarda, adesso facciamo passare un mesetto: tu continua ad allenarti, ma intanto pensi su. Se poi, tra un mese, non ce la fai e per te è importante, vedremo cosa fare”. In pratica aveva rigirato la palla a me, ero io il responsabile, io che dovevo dare la risposta. Così ho detto, va bene e ho continuato per un mese. Non mi sono più fermato. Ed è andata bene».
Direi di sì, sei uno dei calciatori italiani più amati in assoluto. Su Facebook ti seguono in due milioni. Che effetto fa?
«All’inizio ero molto scettico, ci andavo cauto, mentre adesso sono abbastanza ottimista. Vedo nei social un lato positivo, possiamo tutti comunicare, trovarci, parlare insieme. Però dobbiamo anche stare attenti, evitare comportamenti assurdi, perché si rischia di perdere cose importanti, anche solo il dialogo che stiamo facendo io e te. In generale su Facebook cerco di dare il buon esempio: sento che abbiamo un compito fondamentale, quello di far capire a chi ci segue che ogni cosa va fatta per uno scopo ben preciso e non per essere guardati dagli altri».
Non è che di calcio si parla troppo?
«Se ti interessa, sì (ride). Alla fin fine sul televisore abbiamo novecento canali: basta che non schiacci determinati numeri e di calcio non senti parlare neanche per un secondo».
Tu segui qualche altro sport?
«Mi piace molto il tennis. Anche perché mia moglie giocava a tennis e arriva da una famiglia di maestri di tennis. Perciò gioco: non con mia moglie, che mi batte, ma gioco. Il tennis ha quello che ovviamente manca a uno sport di squadra: e cioè che ogni punto è merito tuo, e ogni errore è colpa tua, non te la puoi prendere con nessun altro all’infuori di te».
So che ami le macchine.
«Moltissimo. Da piccolino era la mia vera passione, diventavo matto per la Formula I, super tifoso di Ayrton Senna. Quando lui morì ci rimasi così male che non riuscì più a seguire le corse, staccai proprio. Però la passione per le auto mi è rimasta, è un po’ una malattia».
Quante ne possiedi?
«Tre: una Ferrari GTO edizione limitata, una Lamborghini Aventador e una Audi RS6. Mi piace guidare, ma senza fare il matto: ho fatto parecchi corsi di guida sicura, cerco sempre di divertirmi ma con criterio. In generale ho sempre tenuto tantissimo a tutte le auto che ho avuto. Ogni volta che vendo una macchina mi fanno sempre i complimenti per come le ho tenute. E certo: le lavo a mano, mi metto lì e mi piace tantissimo, le curo in prima persona».
A proposito di curare le cose: i tifosi ti chiamano Principino, è un soprannome che ti piace?
«È partito tutto da Balzaretti. Un giorno, era estate, arrivai al campo in camicia e giacca mentre tutti erano in tuta e in bermuda. E da quel momento hanno cominciato a chiamarmi Principino, che alla fine è rimasto negli anni. A me non dispiace, e poi Principino mi fa anche più giovane, perciò va bene».
Ma l’attenzione per la moda e il vestire bene ha una radice precisa?
«Mia moglie. Quando l’ho conosciuta ero impresentabile, andavo in giro con una scarpa di un colore e una di un altro, mi mettevo l’orecchino lungo... Poi piano piano, grazie anche ai suoi consigli, mi sono avvicinato al mondo della moda, con la fortuna del mio lavoro che mi può permettere di non stare troppo a guardare i prezzi».
Qual è la tenuta in cui ti senti più a posto?
«In abito, non ho dubbi. Ne discuto sempre con i miei compagni, soprattutto gli stranieri, perché bisogna dire che per noi italiani la moda è qualcosa di più sentito. E allora magari dobbiamo salire in autobus fa caldo e loro sono in jeans attillati e quando mi vedono mi dicono: ma cosa fai? Non sudi? Non ti senti scomodo? E io cerco di spiegare loro che tra un paio di jeans attillati e un abito si sta meglio nell’abito: è più comodo, più morbido, più facile da portare, no? Poi vedo che in certe città sono tutti più attenti alla moda, per esempio a Milano è un po’ diverso da Torino».
Ma ti piace Torino?
«Tantissimo. È vivibilissima, verde, con musei importanti e una bella vita notturna. E poi sei vicino a tutto: un’ora e sei al mare, mezz’ora e sei a sciare: per me è difficile trovarle un difetto. Poi magari ai torinesi dicono che sono chiusi: ma non è vero, quando li conosci davvero sono amabili e aperti. Però devi dare loro il tempo».
Dove ti vedi tra dieci anni?
«Fino a qualche tempo fa mi facevo spesso questa domanda, ma da due o tre anni a questa parte non ci penso più: sto vivendo un momento straordinario, vinciamo tanto e le vittorie bisogna assaporarle secondo per secondo. Perciò adesso mi interessa solo godermi quello che ho in tranquillità e fare bene le cose. E so che se sono tranquillo le farò ancora meglio».