Simona Coppa, Grazia 17/9/2015, 17 settembre 2015
SONO UN’ANOMALIA
[Malika Ayane]
Sono bastati dieci minuti perché il viso di Malika Ayane fosse a posto per il servizio fotografico. Il truccatore si guarda intorno, quasi deluso. «Tutto merito della mia nonna marocchina. Da lei ho ereditato gli zigomi alti e la pelle liscia. Una botta di fortuna», mi dice scherzando.
È un momento molto felice per la cantautrice milanese. Ha conquistato il disco di platino e oltre 15 milioni di visualizzazioni su YouTube con il brano Senza fare sul serio. In questi giorni è uscito il terzo singolo dell’album Naif che si intitola Tempesta. Il videoclip è diretto da suo marito, il regista Federico Brugia. E Malika ora si sta preparando per la tournée che la porterà nei principali teatri d’Italia: prima tappa, Milano, la sua città, al Teatro Nazionale il 12 e 13 ottobre. «Cantare davanti a un vasto pubblico è una cosa che so fare, mi galvanizza, mentre sorridere di fronte all’obiettivo di una macchina fotografica, al contrario, mi paralizza», racconta prima di iniziare il servizio per Grazia.
Di timidezza non si guarisce mai?
«Forse no. Ma ho superato tante sfide, ce la farò anche questa volta».
Qual è stata la sua prima grande sfida?
«Liberarmi dell’immagine di sfigata. A scuola sono sempre stata quella strana. Alle elementari ero la figlia del marocchino. Parliamo degli Anni 90, l’epoca del primo flusso migratorio, quando il termine “marocchino” era denigratorio e aveva sostituito quello storico di “terrone”. Mentre frequentavo le medie, cantavo nel coro delle voci bianche del Teatro alla Scala. E nel periodo del liceo, ho cominciato a studiare violoncello al Conservatorio. Insomma, in un modo o nell’altro restavo quella che non c’entrava niente. Ne ho sofferto, non è facile essere un’anomalia. Poi, dentro di me è scattato qualcosa, ho cominciato a pensare che essere diversa non fosse per forza un dato negativo. Mi sono detta che non sarei più stata una vittima e avrei fatto di tutto per convincere gli altri che valevo qualcosa anch’io».
Pensa di esserci riuscita?
«Dipende. Da adulti, la vera sfida è godersi la vita e difendere il diritto alla felicità. Ovunque ti giri c’è qualcuno o qualcosa che minaccia la tua serenità».
Ha avuto sua figlia Mia quando aveva soltanto 21 anni, dieci anni fa. Molto presto rispetto alle sue coetanee.
«Ero felicissima della gravidanza, ma la gente mi guardava come se fossi una poveretta. Se resti incinta a 20 anni sei una sgualdrina, oppure una sprovveduta, comunque non concluderai più niente nella vita. Dicono che noi donne possiamo fare
tutto, come gli uomini: è una bugia. Avevo in tasca il diploma di maturità del liceo linguistico, ma la mia conoscenza delle lingue straniere non contava niente. I miei colloqui di lavoro terminavano nell’esatto momento in cui mi chiedevano: “Lei vuole avere dei bambini?”. Io una figlia ce l’avevo già e il discorso era chiuso. Il caso ha voluto che avessi una femmina e questo mi ha reso ancora più determinata a dimostrare che si può essere madri, precoci o tardive non importa, e realizzarsi nel lavoro. Lo devo a me stessa e a mia figlia».
Nel rapporto con suo marito, il regista Federico Brugia, c’è par condicio? Vi dividete equamente i compiti?
«Mio marito ha due figlie, Ludovica, 12 anni, e Matilde, 10, io una (Mia, 10 anni, ndr). Se Federico sta via per lavoro 15 giorni e faccio i salti mortali per occuparmi di tutte tre, io faccio il mio dovere e lui è un bravo papà perché, quando torna, porta un regalino alle piccole. Se, invece, a partire sono io, magari solo per un paio di giorni, lui è un santo perché si presta a fare il babysitter. Il babysitter, non il padre, capisce? Anche se due terzi dei figli sono suoi».
Eppure la famiglia allargata è il sogno di molte persone separate.
«È bello, ma complicato. Al di là del romanticismo, in una famiglia allargata entrano in gioco tantissime variabili. Io e mio marito viviamo insieme soprattutto con Mia, che passa due fine settimana al mese con il padre. Le due figlie di Federico, allo
stesso modo, passano un po’ di tempo con lui e un po’ con la madre. Noi cerchiamo di averle tutte e tre insieme, ma non è così scontato che le ragazze siano sempre contente. Attraversano continuamente realtà diverse: hanno la vita con un genitore, la vita con l’altro e la vita allargata. Bisogna andare tutti d’accordo, avere molto rispetto dei piccoli, dei grandi e soprattutto degli ex compagni».
Sua figlia come vive il fatto di avere una mamma famosa?
«Prega sempre che il mio nome salti fuori il più tardi possibile. Non sa mai quanto i ragazzini vogliano stare con lei e quanto, invece, siano interessati a biglietti di concerti, dischi, autografi. O più semplicemente vogliano vantarsi di avere un’amica con la madre famosa. A10 anni conoscono già la malizia e l’opportunismo. Crescere è complicatissimo, questa è la verità. Che tu sia grasso, che tu sia brutto, che tu abbia problemi in famiglia, se c’è un modo per rovinarti la vita gli altri bambini lo trovano sempre».
Come si organizzerà con la bambina ora che comincia la tournée?
«Finché le tappe del tour sono abbastanza vicine a Milano, diciamo fino a Firenze, torno a casa a dormire. Cerco di essere il più presente possibile, magari rientro alle 5 del mattino e alle 7 sto preparando la prima colazione per tutti. Comincio a pianificare le date dei concerti a gennaio proprio per riuscire a organizzarmi al meglio. Detto questo, quando mi sposto più lontano, mia figlia ha sempre suo padre».
Lei sembra proprio una donna tosta: il titolo del suo nuovo singolo, Tempesta, si riferisce a lei?
«No, rispecchia la mia visione dei sentimenti: non importa quanto dura, purché sia “tempesta”. Ciò che conta è che tu viva qualcosa di forte, bello, coinvolgente che ti renda felice. L’importanza del presente è il filone di tutto l’album. Bisogna tenere alto il valore di quello che stai facendo, ora. Io ci credo fermamente».
L’ultima domanda è una curiosità: ma lei si mangia le unghie?
«È tutta colpa di Venezia, non lo facevo più dai tempi del liceo. L’idea di sfilare sul red carpet mi ha messo un’ansia pazzesca. Mi ha fregato il tappeto rosso».
Ci salutiamo con un abbraccio e mentre mi allontano penso alla prima risposta che Malika Ayane mi ha dato: in realtà no, di timidezza non si guarisce mai.