Martin Wolf, Il Sole 24 Ore 17/9/2015, 17 settembre 2015
IL MONDO SULL’ORLO DI UNA CRISI DI CRESCITA
Una recessione economica globale è probabile? E se sì, cosa potrebbe scatenarla? Willem Buiter, economista capo del Citigroup ed ex responsabile del blog Maverecon del Financial Times, risponde «Sì» alla prima domanda e «Cina» alla seconda. La sua tesi è verosimile: non significa che dobbiamo aspettarci per forza una recessione, ma è un’ipotesi che dev’essere considerata plausibile.
Buiter non sta pronosticando un calo del prodotto mondiale: qui si parla di un rallentamento della crescita, cioè un periodo di crescita nettamente al di sotto del tasso potenziale del 3 per cento circa. Possiamo immaginare il 2 per cento o meno. Buiter stima le probabilità di uno scenario di questo tipo al 40 per cento.
Tutto comincerebbe con la Cina. Come molti altri, Buiter è convinto che le statistiche ufficiali sovrastimino la crescita cinese, e che il tasso reale potrebbe non essere superiore al 4 per cento. È plausibile, anche se non universalmente accettato.
Le cose potrebbero andare ancora peggio. Per cominciare, una quota di investimenti pari al 46 per cento del prodotto interno lordo sarebbe eccessiva in un’economia che cresce al 7 per cento, figuriamoci al 4. In secondo luogo, questo eccesso di investimenti è stato accompagnato da un’enorme espansione del debito, spesso di qualità dubbia: ma a questi livelli, anche solo per mantenere i livelli di investimenti correnti servirebbe molto più debito. Infine, il Governo centrale, il solo ad avere i conti in ordine, non è detto che sia disposto a compensare un rallentamento degli investimenti; e la quota delle famiglie in reddito nazionale e consumi nell Pil è troppo bassa per farlo.
Supponiamo allora che gli investimenti si contraggano drasticamente, e che i vincoli di domanda e di bilancio si facciano sentire. Quali potrebbero essere gli effetti sull’economia mondiale?
Un canale sarebbe un calo delle importazioni di beni strumentali. Considerando che circa un terzo degli investimenti globali (a prezzi di mercato) riguarda la Cina, l’impatto potrebbe essere importante. Giappone, Corea del Sud e Germania ne risentirebbero negativamente.
Un canale più importante è rappresentato dal commercio di materie prime. I prezzi delle materie prime sono scesi, ma sono ancora lontani dai minimi storici (cfr. grafico). Anche ai livelli di prezzo attuali, gli esportatori di materie prime sono in sofferenza: fra questi figurano Paesi come l’Australia, il Brasile, il Canada, gli Stati del Golfo, il Kazakistan, la Russia e il Venezuela. Contestualmente, i Paesi importatori, come l’India e la maggior parte dei Paesi europei, ci stanno guadagnando.
Gli shock commerciarli interagiscono con la finanza. Molte aziende colpite negativamente sono fortemente indebitate. Le tensioni finanziare che ne risultano costringono queste aziende a ridurre l’indebitamento e la spesa, indebolendo in modo diretto le economie. Le variazioni delle condizioni finanziarie aggravano le pressioni: fra le variazioni più importanti, in questo senso, figurano i movimenti dei tassi di interesse e dei tassi di cambio, e i cambiamenti nella percezione della solidità dei debitori, Stati sovrani inclusi. In questo momento, la variazione più importante sarebbe una decisione da parte della Federal Reserve di alzare i tassi di interesse.
Come diceva Warren Buffett: «Puoi scoprire chi sta nuotando nudo solo quando la marea si ritira». Secondo la Banca dei regolamenti internazionali, il credito verso mutuatari non bancari fuori dagli Stati Uniti ammontava complessivamente, a fine marzo, a 9.600 miliardi di dollari. Un dollaro forte rende costoso qualsiasi disallineamento valutario: inizialmente a risentirne sarebbero i bilanci delle grandi imprese non finanziarie, ma l’impatto delle loro perdite si trasmetterebbe successivamente a banche e Governi. L’inversione di tendenza dei carry trades, finanziati con il credito a buon mercato, potrebbe seminare il caos.
Un cambiamento visibile è il calo delle riserve valutarie, spinto dal deterioramento dei termini di scambio, dalla fuga di capitali e dal ritiro dei precedenti afflussi di capitali. Tutto questo potrebbe innescare una «restrizione quantitativa», con le Banche centrali che vendono le loro riserve di obbligazioni sicure a più lunga scadenza. È una delle potenziali vie di trasmissione di questi shock ai Paesi ad alto reddito, perfino agli Stati Uniti. Ma dipende anche da cosa faranno i detentori dei soldi con i fondi ritirati e dalle politiche che applicheranno le Banche centrali interessate.
Potremmo assistere, perciò, a una serie di concatenamenti reali e finanziari: un calo degli investimenti e della produzione in Cina, una situazione di debolezza nelle economie che dipendono dagli acquisti della Cina o dai prezzi determinati da tali acquisti e un’inversione dei carry trades e variazioni dei tassi di cambio e dei premi di rischio che metterebbero pressione sui bilanci.
Come potrebbero reagire i policymakers? La Cina sicuramente lascerà andare la sua valuta piuttosto che continuare a perdere riserve, non da ultimo perché le riserve utilizzabili sono più limitate dei numeri ufficiali, che includono investimenti infrastrutturali, in Africa e altrove, che non è possibile vendere in tempi rapidi. Lo spazio di manovra per le autorità di altre economie emergenti è maggiore che in passato, ma non illimitato. Saranno costrette ad adeguarsi a questi shock, invece di contrastarli.
Nel frattempo, le scelte di politica economica dei Paesi ad alto reddito sono limitate: la politica ha escluso, quasi ovunque, un’espansione della spesa pubblica, i tassi di riferimento delle Banche centrali sono prossimi allo zero e in molte economie ad alto reddito l’indebitamento del settore privato è ancora piuttosto elevato. Se il rallentamento economico fosse di modeste dimensioni, non sarebbe possibile fare molto di più. La risposta migliore a un rallentamento importante potrebbe essere la creazione di moneta da parte della Banca centrale per stimolare la spesa. Ma appare improbabile che venga usato questo strumento: l’approccio convenzionale la fa da padrone.
Insomma, l’ipotesi di un rallentamento «made in China» della crescita è perfettamente plausibile. Se dovesse avvenire, una decisione della Fed di restringere ora la politica monetaria assumerebbe i contorni della follia pura e semplice. Non stiamo certo parlando del genere di disastri che accompagnano una crisi finanziaria globale, ma l’economia mondiale rimarrà vulnerabile alle avversità fino a quando la Cina non avrà completato la sua transizione verso un percorso di crescita più equilibrato e le economie ad alto reddito non si saranno riprese dalle loro crisi. E non siamo ancora a questo punto.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
©The Financial Times Limited 2015