Riccardo Ruggeri, ItaliaOggi 18/9/2015, 18 settembre 2015
Sono affascinato dalla mostruosa capacità di lobbying che hanno sviluppato i grandi Gruppi, di internet, bancari, automobilistici, farmaceutici, dell’energia
Sono affascinato dalla mostruosa capacità di lobbying che hanno sviluppato i grandi Gruppi, di internet, bancari, automobilistici, farmaceutici, dell’energia. Al contempo, i media di ogni tipo sono appiattiti su di loro, la sudditanza intellettuale e psicologica verso i CEO di questi Gruppi è talmente diffusa-ottusa che qualsiasi decisione prendano, anche la più idiota, viene esaltata come una genialata. Cito solo l’ultimo di un’infinita serie di esempi possibili, la trasformazione di Google in Alphabet. Immediata corsa a chi la sparava più grossa, la mossa è stata descritta persino come un “dono per il mercato” che avrebbe aumentato la trasparenza delle loro strategie. E’ noto che in tutte le aziende di internet strategie e conti sono opachi per definizione, così mai viene sottolineata, come asset vincente, la loro capacità di non pagare le tasse e non rispettare le norme e le leggi (è parte integrante del loro business model). Anzi alcuni di loro, le leggi le sfidano proprio. Per questo investono cifre impressionanti in lobbying e in spese legali, tipico delle “Mafie”. Pochi, fuori dal coro, ho letto del sociologo olandese Ben Caudron, del nostro Sergio Luciano, di pochi altri, di certo Àpoti. Primo, in termini di strategia organizzativa il passaggio da un modello “centralizzato” a uno “divisionalizzato”, con una Holding industriale (Alphabet) potrebbe avere la motivazione di separare i business storici (quelli che fanno profitti, nella fattispecie uno solo, il “motore”) dai business cosiddetti del futuro (quelli che assorbono capitali e perdono quattrini, cioè tutti, i “Google flop”, che i colti chiamano chissà perché “l’universo visionario”). Quindi un segnale debole che il “mercato” avrebbe dovuto interpretare semmai all’incontrario, come scommessa-minaccia. L’unica azienda al mondo che ha saputo governare la divisionalizzazione, questo complicato modello organizzativo, costoso e dai difficili equilibri manageriali, è stata General Electric, con però un presupposto di business serio e radicale: il prodotto/mercato di ogni Divisione GE deve occupare il primo o il secondo posto, al mondo, in termini di quote/redditività (sic!). In altri termini, una “sommatoria” di business tutti di successo. Non certo il caso di Google: un prodotto mito e tanti flop (per ora). Secondo, una minaccia potrebbe essere che il modello unitario e centralizzato non fosse stato più in grado di dare “spazi” ai nuovi talenti nel frattempo cresciuti (un nome su tutti, l’indiano Sundar Pichai), così si moltiplicano ruoli e titoli (e bonus) che gratificano il management, facendo però aumentare a dismisura i costi. Poi, appena la redditività della Divisione “ricca” dovesse ridursi si aprirebbero lotte intestine per farsi assegnare risorse. Quando ciò succede, la soluzione è quella classica, ritorno alle origini, via la Holding, via i rami secchi, ritorno al modello centralizzato, ricomparsa della frase mito “concentrarsi sul core business”. Curiosamente, i media applaudono questi CEO sia “all’andata che al ritorno” dell’idiota percorso. Terzo, la divisionalizzazione è una mossa chiaramente difensiva per scaricare responsabilità, oltre che per complicare i processi (giudiziari) quando si teme l’intervento della magistratura (sarebbe ora), tenerne così fuori i due padri-padroni, astutamente assisisi nella holding Alphablet, e protetti da deleghe e codicilli di governance concepiti dai più geniali avvocati d’America. Nel frattempo, seppur con colpevole ritardo, in Europa gli euro burocrati (quelli che spadroneggiano sul formaggio senza latte o sul vino senza uva) sono ancora agli studi preliminari per definire quello che da sempre è sotto gli occhi di tutti: c’è un solo motore di ricerca che penalizza la concorrenza con sistemi asimmetrici che favoriscono, un solo esempio dei tanti possibili, i propri “shop-on-line” a scapito di quelli forniti da altri. Una notazione personale di un comune cittadino che è sul “mercato” da oltre quarant’anni, e quindi conosce alcuni trucchi dei CEO birbanti (in realtà sono poi tre: eludere le tasse, fottere concorrenti e fornitori, gabbare gli azionisti, usando ogni mezzo per non finire nelle grinfie dell’unica persona seria del parterre del business, il magistrato capace e onesto). Mai ho creduto allo storytelling ufficiale delle singole aziende, che ben si guardano dall’indicare l’effettiva business idea. Da vecchio analista di periferia, provo a scriverla io: “Essere e apparire pervasive (diffusa) ed essere ma non apparire invasive (invadente)”. Fino a quando ci saranno, nei luoghi topici del potere politico, della UE, dei Parlamenti, dell’amministrazione statale, della magistratura, dei media, degli allocchi che credono ciò che sostengono Sergey Brin e Larry Page, cioè che la loro creatura sia sì pervasive ma mai e poi mai invasive, i cittadini-consumatori saranno sempre gabbati. E le persone perbene saranno inquiete, spesso terrorizzate. Come lo siamo il mio giovane amico Tommy e io che su questa minaccia globale della casta dei CEO, da anni stiamo riflettendo, prendendo appunti. Vedremo se, e quale pamphlet sapremo un giorno partorire. editore@grantorinolibri.it @editoreruggeri