Carla Bardelli, Vanity Fair 17/ 9/2015, 17 settembre 2015
IO SCELGO L’ODIO
[Intervista a Jinan Badel] –
Jinan Badel è una donna forte e coraggiosa. La sua forza la capisci da come ti guarda dritto negli occhi. Il suo coraggio lo raccontano gli ultimi tre anni di una vita che ne conta ancora solo diciannove, tutta vissuta in quella parte del mondo che si trova ai piedi del monte Sinjar, nel nord-ovest dell’Iraq, dove Jinan – che fa parte della comunità degli Yazidi, seguaci di un’antica religione preislamica – è nata e cresciuta senza istruzione, lavorando nei campi.
Appena sedicenne, Jinan ha rischiato di fare la fine di una sua amica e coetanea – lapidata dai familiari dopo aver rifiutato il marito che le imponevano – per dire no a un matrimonio combinato e fuggire con Walid, l’uomo che segretamente amava. E appena diciottenne, nell’agosto del 2014, Jinan è stata catturata, violentata, massacrata con una spranga d’acciaio, costretta a bere da un catino in cui galleggiavano topi morti, torturata con le scosse elettriche. E poi, sopravvissuta a tre mesi di schiavitù e sevizie, è riuscita a fuggire. Piena di ferite aperte, a piedi nudi, convalescente per una gravissima infezione renale. Eppure, con un telefonino e una bottiglia d’acqua, ce l’ha fatta. Ha raggiunto le forze curde e si è salvata dai peggiori carcerieri: le belve dell’Isis.
A Parigi, di fronte ai giornalisti di tutto il mondo e a François Hollande che l’ha ricevuta all’Eliseo, questa giovane ribelle si tiene dritta e fiera, anche se a volte, mentre risponde alle domande, le sfuggono le lacrime, che si asciuga con la manica del golfino. Jinan non chiede asilo politico, ma solo aiuto per il suo popolo. E vuole tornare al più presto nella sua terra, «per sentirne il profumo».
La sua esperienza la racconta nel libro Jinan, esclave de Daech (Daech è l’acronimo arabo dell’Isis), che esce in questi giorni in Francia. È la prima volta che una donna testimonia dopo essere stata ridotta in schiavitù dagli aguzzini dello Stato Islamico.
Pagina dopo pagina, descrive senza pudori il suo calvario di ragazza venduta come «merce avariata» (per l’infezione, appunto, che già aveva al momento della cattura) e le mille astuzie che l’hanno salvata: dalla «mancanza di igiene, che mi aveva trasformata in un animale puzzolente», alle smorfie che «facevo senza sosta per sembrare disturbata di mente».
«Stavo sempre accovacciata vicino alle latrine, talmente sporche che nessuno osava avvicinarmi: la paura di essere violentata a oltranza da quei cani era più forte di tutto», mi racconta, torcendosi le mani. «Essere schiava nell’inferno dell’Isis è una condizione difficile da immaginare. Quando sento dire che i governi occidentali non osano bombardare le loro postazioni per non uccidere i prigionieri come me, sorrido. Diecimila volte meglio morta che nelle mani di questi mostri, pazzi che non hanno niente di umano».
Testimoniare quello che ha vissuto mette in pericolo di morte lei e la sua famiglia. Non ha paura?
«Niente può essere peggio di quello che ho passato. Aspetto un figlio, concepito con mio marito dopo la mia liberazione. Per lui, e per tutti i bambini del mondo, voglio lottare contro lo Stato Islamico. Tutti dobbiamo sparare, e mi auguro che la mia parola sia più potente di un’arma».
È stata venduta per otto dollari al mercato delle schiave, a Mossul.
«Ti guardano i denti: dicono che gli Yazidi sono come i pesci, che cominciano a marcire dalla testa, dunque se hai la fortuna di avere molte carie, vieni spesso scartata. Gli occhi chiari, i grossi seni e la giovane età fanno il prezzo. Le bambine di 12 anni sono le più richieste come schiave sessuali, dopo i 20 sei buona solo per i lavori di fatica e il costo scende. Le schiave partono verso molte direzioni, compresi i Paesi ricchi del Golfo».
Racconta di essere stata comprata, con altre cinque ragazze, da «due odiosi pezzi di lardo», Abu Omar e Abu Anas, un ex poliziotto e un imam.
«Ci hanno portate in una grande casa, poco distante da Mossul. Pur di convertirci all’Islam – la loro missione – ci hanno torturate in tutti i modi. I fili elettrici attaccati al corpo. Legate per interminabili ore, tre a tre, le mani dietro la schiena, sul selciato incandescente nelle ore più calde dell’estate. Le violenze sessuali di gruppo. Non sono riusciti a ucciderci. Ma è l’umiliazione il danno da cui non ci si riprende».
Dopo la fuga ha incontrato la guida spirituale di voi Yazidi, Baba Sheikh, e l’ha convinto ad abolire la vecchia regola per cui le donne violentate dovevano essere allontanate per sempre dalla comunità, e sostanzialmente costrette al suicidio.
«Gli Yazidi hanno subito 72 genocidi, quasi tutti durante l’occupazione ottomana. Ma quello in corso, il settantatreesimo, a opera dell’Isis, è il più terribile, e potrebbe sterminare il nostro popolo. Saluto con ammirazione il coraggio di Baba Sheikh, ma se quell’uomo santo non avesse trasformato le donne torturate e violentate in eroine degne di rispetto, ci avrebbe di fatto condannato all’estinzione».
Le donne dell’Isis, le mogli e le madri, non hanno pietà delle altre donne?
«Al contrario, sono peggio degli uomini, gelose, ci considerano rivali e, quando possono, infieriscono con violenze e sadismo. Non c’è umanità in quel mondo, da parte di nessuno».
Che cosa si può fare per aiutare il suo popolo?
«Fare donazioni all’Alto commissario per i rifugiati (www.unhcr.it/dona). La loro ambasciatrice, Angelina Jolie, qualche mese fa ha fatto visita al nostro campo profughi».
Lei potrebbe facilmente ottenere asilo politico e rimanere in Europa. Perché vuole tornare nella sua terra?
«Magari ci potessi tornare davvero: sto per partire per un campo profughi nel nord dell’Iraq, vicino a Erbil. Al momento è impossibile tornare nella mia terra, ma nel campo almeno starò con la mia gente. Non critico chi fugge, le tantissime persone che affollano le frontiere dell’Europa meritano rispetto, ma io voglio lottare per un futuro nel posto dove sono nata e cresciuta, e prego tutti di aiutarci, a casa nostra, a distruggere l’Isis».
Come pensa di guarire le cicatrici del trauma che ha vissuto?
«Molte donne yazide uscite vive da situazioni di prigionia sono in cura nei campi profughi o in un centro in Germania, dove è stata ricoverata anche mia cognata Amina, che ha solo 12 anni. Io però non me la sono sentita di fare quella scelta, perché il percorso terapeutico passa attraverso il perdono degli aguzzini. E io non voglio smettere di odiarli. Se potessi, li ammazzerei tutti. Non conosco il perdono».
Non c’è amore nel suo futuro?
«Certo che c’è. Quello per Walid, quello per il nostro bambino, che nascerà tra sei mesi in un campo profughi. Spero che conoscerà un mondo migliore».
Ci salutiamo, suo marito entra nella stanza, mi stringe la mano e la prende fra le braccia, accogliendo il suo pianto sommesso.