Fabrizio Gabrielli, 11 9/2015, 1 settembre 2015
CLASSE NOVANTA – ALESSIO ROMAGNOLI ’95
Domenico Vocale, che lo ha allenato quando era un ragazzino che frequentava il campetto del San Giorgio Nettuno, ha raccontato di avergli fatto giocare, una volta, una partita particolare: solo contro cinque avversari. Alessio aveva raccolto la sfida di difendere la sua porta. Nessuno era riuscito a segnare. Quando l’ho visto al suo esordio con la maglia del Milan, in un derby estivo, fermare un tiro a botta sicura di Marcelo Brozovic con la naturalezza e l’aplomb con cui si caccia un’ape o si rifiuta un invito alla rissa, ho immaginato Alessio Romagnoli, come quindici anni prima, simile a un Bruce Lee che schiva o para i colpi di una masnada nemica senza dare l’impressione di soffrirne il carico emotivo, senza avvertirne la pericolosità.
L’atipicità di Romagnoli non risiede nel prezzo che la Roma ha imposto al Milan per il suo cartellino, ma in un certo qual modo ne è, al contempo, causa ed effetto. In Italia non sembrano esserci, tra le nuove leve nate a metà anni Novanta, difensori centrali così tatticamente e tecnicamente maturi, eccezion fatta per Rugani: la mancanza di offerta per un mercato dall’ampia domanda genera quindi il primo livello di atipicità di Romagnoli, che è il suo prezzo – assurdo se ponderato sulla scorta dell’esperienza, anche in campo; meno assurdo nell’ottica di un investimento a lunga gittata.
Dal fatto che i rossoneri abbiano pagato così tanto per assicurarsi i suoi servigi, a sua volta, muove i passi il secondo livello di atipicità di Romagnoli, vale a dire l’hype – anche volutamente, è il marketing bellezza – creato attorno al suo nome, al numero che ha scelto (il 13 che fu di Nesta), al futuro che gli abbiamo già immaginato srotolarsi sotto i piedi (come Nesta? Meglio di Nesta? Miha ha già detto che è addirittura «più tecnico»).
È vero che lo abbiamo visto in campo, praticamente, per una sola stagione, quella passata alla Sampdoria. Una stagione, però, monstre in cui i doriani hanno incassato solo 42 reti in 38 partite, un risultato che ne fa la quinta difesa più solida di tutti i tempi in Serie A: e se il capitano Gastaldello è stato spinto a lasciare la Genova blucerchiata perché chiuso da uno di dieci anni più giovane un motivo deve pur esserci. Romagnoli, per quanto acerbo (sebbene l’anagrafe sia un ufficio snobbato dal talento), ha la personalità di chi sa leggere le situazioni difensive: quella che ingaggia con gli attaccanti, che controlla sempre dalle spalle, faccia alla porta avversaria, è una sfida di psiche prima che di muscoli; di scelta minuziosa del tempo d’intervento, di chirurgia nel tocco che manda fuori fase la punta, di anticipi secchi. Senza contare l’abilità che ha nella gestione delle seconde palle, forte anche di un passato da centrocampista centrale, background che gli ha lasciato in eredità una tecnica mediamente più elevata dei suoi colleghi di reparto. Ha una predilezione per il tackle, che intraprende con impeto ma pure misuratezza: in ogni partita che gli ho visto giocare, quando affonda in scivolata il cronista sottolinea il rischio dell’intervento, anche se poi quella che finisce per regalare è la sensazione di non stare mai davvero per rischiare qualcosa. Difendere, per Romagnoli, è una vocazione trasformatasi in passione, più che il contrario: per questo non gli piaceva giocare terzino sinistro, come era solito impiegarlo Rudi Garcia, perché «si attacca di più ma si giocano meno palloni».
Per averlo il Milan voleva pagarlo quanto le fragole ma ha dovuto accontentarsi del prezzo delle ostriche: ora sta a Romagnoli bloccare palloni, e incamerare elogi e detrazioni nella sua cavità palleale; dimostrare insomma di celare, dietro le braccia tatuate e la faccia da ragazzino, una perla.
Fabrizio Gabrielli