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 2015  settembre 16 Mercoledì calendario

LA MATURITÀ DI MARCO VERRATTI

Non sappiamo quasi niente di Marco Verratti. Un po’ perché è andato all’estero prima ancora di esordire in Serie A, passando direttamente dallo stato di “giovane promessa di provincia” al nuovo Paris Saint-Germain di proprietà del fondo sovrano di investimenti qatariota (come uno dei primi acquisti, mentre in Italia si parlava di come e dove sarebbe potuto crescere senza troppe pressioni). Un po’ perché di Verratti non ci sono abbastanza interviste, perché non lo vediamo spesso in tv. Fatto sta che a noi sembra sempre uguale a quando se ne è andato, a quelle interviste nello spogliatoio del Pescara post-promozione in cui diceva di non voler pensare al futuro.
Lo capisco quando lo vedo posare in uno studio fotografico del XVII arrondissement di Parigi. Inizialmente, quando sorride, Verratti sembra uno di quei bambini vestiti e pettinati dalle madri per la foto di famiglia. Ma quando il fotografo gli chiede di guardare in camera senza sorridere il suo sguardo si fa maturo e, se non duro, determinato. Il passaggio da una posa all’altra è sorprendente e significativo perché riflette quello descritto sopra: Verratti è al tempo stesso il ragazzino di paese che dribbla al limite della propria area e fa stare gli allenatori col fiato sospeso, e la mezzala titolare di una delle squadre più ricche del mondo, che ha già giocato tre quarti di finale di Champions League e un Mondiale prima di compiere ventitré anni.
«Io il calcio lo vedo ancora come un divertimento», risponde Verratti quando gli chiedo come si sente cambiato. «È giusto avere un’organizzazione di squadra, però poi in mezzo al campo penso che ognuno di noi deve mettere qualcosa di suo. Penso che se uno fa bene a livello individuale aiuta anche la squadra nel collettivo. Per me il calcio è ancora un divertimento, mi piace molto vedere una giocata, anche di uno che gioca contro di me».

PARIS, ABRUZZO
Verratti è passato nel giro di pochi mesi da Manoppello, il paese di settemila anime in cui è cresciuto, a Parigi. Vive a Neuilly-sur-Seine, banlieue ricca e residenziale di cui è stato sindaco Nicolas Sarkozy prima di diventare Presidente della Repubblica. «Un quartiere molto tranquillo. Io sto con la famiglia, in dieci minuti siamo al centro di Parigi, in venti al campo di allenamento». Ha cambiato casa quattro volte in tre anni ma sempre tra i borghesi di Neuilly. La prima non andava bene perché non gli lasciavano mettere la parabola e lui voleva seguire il Pescara. Adesso ha una griglia in cui rigira gli arrosticini di agnello: «Io ho una tradizione, quando qualcuno mi viene a trovare mi porta gli arrosticini. Ho anche degli altri amici di Pescara, che lavorano qui a Parigi, con cui ci ritroviamo per fare delle cene abruzzesi».
In un’intervista di qualche tempo fa a So Foot, Verratti ha detto che si è ambientato così bene che gli piace la pasta scotta e scondita che a Parigi servono come contorno alla carne. «Le cose belle dell’Italia me le sono portate dietro e resteranno per sempre. Ma dopo tre anni qualche abitudine la prendi. Mi piace anche provare cose nuove, da quando sto qui mi piacciono i ristoranti thailandesi, cinesi, giapponesi».
Delle difficoltà iniziali dice: «Se non parli bene la lingua è veramente difficile. E io non ho studiato francese, l’ho imparato vivendo. Ma ho avuto fortuna, perché giocando a calcio la gente mi conosce, le persone sono più gentili. All’inizio però, quando ancora non mi conoscevano, ho fatto fatica. In Italia puoi restare un giorno a parlare con una persona che non conosci, qui non succederà mai una cosa del genere. Forse solo questo mi manca». Gli dico che in giro per la città le magliette che si vedono di più sono la sua e quella di Ibrahimovic: «Sono cose che fanno piacere. Non lo so perché scelgono me. Sono arrivato che ero veramente piccolo, nessuno mi conosceva, in una campagna acquisti dove avevano preso tutti giocatori importanti. Forse si sono affezionati a me per questo, è come se fossi cresciuto qui, e comunque il calcio che conta ho iniziato a giocarlo qui. Diciamo che mi hanno preso come loro mascotte».

CALCIO DI STRADA
Una delle ragioni per cui Verratti è amato è perché sembra giocare davanti ai quasi cinquantamila spettatori del Parc des Princes come se fosse ancora sotto casa a Manoppello. «Giocavamo molto nelle piazze, con una fontana in mezzo, e bisognava fare il giro della fontana per andare a fare gol. Magari sono cose che restano, ma non penso sia uno degli aspetti principali del mio gioco».
La sua sicurezza sembra quella del debuttante che non ha niente da perdere, quando dribbla con tre uomini addosso può passare persino da provocatore. E in questo si possono rispecchiare tutti i ragazzi che giocano ancora nel loro paese d’origine o in periferia a Parigi, magari proprio con la maglia di Verratti. Gli chiedo se prova gusto a cacciarsi in brutte situazioni solo per poi mostrarsi capace di uscirne. «Ho giocato con la squadra del mio paese fino a tredici anni. Quando incontravamo squadre come il Pescara perdevamo sempre, però con la mia squadra riuscimmo a vincere il campionato di Abruzzo, e non era mai successo al Manoppello. In quel periodo i compagni davano sempre la palla a me, e avevo tre o quattro avversari addosso perché sapevano che annullando me avrebbero avuto un grande vantaggio». Per quanto possa sembrare assurdo, quindi, i suoi dribbling sono almeno in parte frutto della sua esperienza: «Me la dovevo cavare da solo e mi è rimasta questa cosa qui. Per questo preferisco perdere qualche pallone ma giocare alla mia maniera».

INFANZIA FELICE
Resta inspiegabile come per Verratti sia stato naturale passare da un contesto praticamente privo di pressioni a quello in cui si trova adesso. «Ricordo che quando avevo tre, quattro anni guardavo la Coppa d’Africa. Ero innamorato di Del Piero, perché in quel periodo era un giocatore che faceva la differenza, ma guardavo di tutto e ogni volta vedevo un giocatore diverso che mi piaceva. Ma lo facevo per passione, non ho mai pensato che un giorno avrei giocato in una grande squadra». Eppure il talento era tale che a otto anni era in squadra con il fratello, che ne aveva tredici. Negli articoli usciti su di lui nei giornali locali c’è un aneddoto di quel periodo, che lui conferma: «Giocavo veramente poco, anche perché il Mister temeva mi facessero male. Però è vero che una volta mentre un avversario passava vicino alla panchina io mi sono alzato e gli ho fatto lo sgambetto per fermare il contropiede. Ci siamo fatti quattro risate, ma insomma ero proprio piccolissimo».
Dai quindici ai diciassette anni ha giocato in Lega Pro, con gente che ne aveva più di trenta. Una ventina di partite in tutto tra campionato e coppa, partite intere e spezzoni. «Forse quelli sono stati i due anni più emozionanti della mia vita, parlando di calcio. Il passaggio da quando giochi ancora con i tuoi amici, al giorno in cui esordisci in un campionato professionistico, forse mi ha emozionato più di quanto mi emoziona vincere un campionato oggi. Ricordo ancora quando il Mister mi faceva entrare per due minuti nello stadio del Pescara, o fare il riscaldamento là dentro per me era una grande cosa. Sono momenti che ti fanno capire che sei sulla strada giusta e devi continuare a crescere. È stato il momento in cui ho capito che volevo fare questo da grande. Sapevo che stavo facendo bene, ma non avrei immaginato di arrivare dove sono oggi.
Poi, quando entri nel mondo del calcio, le cose vanno veloci e non riesci a pensare. Come capita a me, che non riesco a pensare neanche a cosa ho fatto ieri. Devi avere sempre obiettivi nuovi, ogni giorno devi dimostrare qualcosa. Puoi fare bene due anni, poi magari sbagli due partite importanti consecutive e puoi rischiarti una carriera. La cosa bella e brutta del calcio è che non puoi fermarti un attimo a pensare a quello che hai fatto, devi sempre pensare a fare qualcosa di meglio».

DIFFIDENZA
La carriera di Verratti è quella del bambino prodigio ma, al tempo stesso, tutti gli allenatori che ha avuto ci hanno messo un po’ a dargli fiducia. Persino Zeman lo ha tolto dopo solo un tempo della prima partita della stagione. «Ma a me è capitato sempre. Anche il primo anno a Parigi, o il secondo. È sempre stato così. Però questo è uno dei miei punti di forza: nessuno mi ha regalato mai niente. Potevo non giocare una, due, tre, quattro partite, io davo la colpa a me stesso. Non cercavo scuse come magari fanno in tanti dicendo: No, è colpa del Mister. Non mi sono fermato alle prime difficoltà e una volta arrivato non ho pensato: Ok, ho guadagnato il posto, adesso giocherò per sempre. Mi dicevo che tenere il posto sarebbe stato ancora più difficile».
Anche l’incertezza sul suo ruolo in campo riflette una certa difficoltà nel gestirlo. Ha iniziato come trequartista o seconda punta e il primo a metterlo a centrocampo è stato Di Francesco che, però, specie nei secondi tempi, lo riportava in avanti. Zeman è stato importante perché non lo ha mai tolto da davanti alla difesa. «Mi aveva messo lì e non c’erano altri ruoli, o giocavo o non giocavo, anche se entravo dalla panchina era sempre in quella posizione. In quella stagione ho capito bene che tipo di ruolo dovevo ricoprire». Ad esempio, ha dovuto imparare a difendere. «Non avrei immaginato che mi sarebbe piaciuto, invece adesso anche recuperare il pallone e far ripartire il nostro gioco mi piace molto. Nel calcio di oggi se non difendi o sei Maradona... o sei Messi».
Bisogna essere pazzi per affidargli il centrocampo di una squadra come il PSG, ma è difficile trovare qualcuno migliore di lui. Carlo Ancelotti dopo un’espulsione lo ha rimproverato pubblicamente mentre usciva dal campo, e Laurent Blanc, lo scorso febbraio, lo ha criticato perché prende troppi cartellini gialli (in Ligue 1 la passata stagione è stato il giocatore che ne ha presi di più: 12). E la tendenza a correre rischi, a volte anche molto vicino alla sua porta, gli ha causato problemi anche con i compagni. In questo, però, sembra aver avuto la meglio lui: «Sì all’inizio in mezzo al campo non ci capivamo molto bene, ma adesso succede il contrario: a volte se butto una palla mi dicono Oh, ma perché l’hai buttata? Se l’ho data a te è perché non la buttassi. Ormai anche Blanc non mi dice più niente perché ha capito che quello è il mio modo di giocare. E comunque se devo cambiare modo di giocare tanto vale che comprino un altro giocatore e lo mettano al mio posto. Secondo me devo solo capire meglio quando è il momento di correre un rischio e quando no».

LA SOLA VOLTA IN CUI VERRATTI NON È STATO SE STESSO
Dei tre quarti di finale di Champions League giocati finora quello che ricorda più intensamente è il primo, contro il Barcellona, perché quella volta sono andati davvero vicini a passare il turno. Verratti non aveva giocato l’andata ma era in campo al ritorno, quando il PSG è andato in vantaggio al Camp Nou nel secondo tempo. L’azione del gol del vantaggio l’ha iniziata lui, recuperando una palla intercettata al limite dell’area e verticalizzando immediatamente sui piedi di Ibra, che ha mandato in porta Pastore. Ma quando glielo dico Verratti risponde: «Ah, sì?».
Ricorda benissimo, invece, di aver perso la palla che ha portato al gol del pareggio di Pedro, con un lancio verso l’attacco quando nessuno lo stava pressando. «Sì, me lo ricordo bene perché è una delle poche palle che ho buttato via così, senza motivo. È una cosa che mi è rimasta in testa perché da allora sono ancora di più della convinzione che quando butti la palla senza motivo a volte ti può andare bene, ma ti può andare anche male. Per questo preferisco cercare sempre e comunque di uscire dal pressing con un’idea. Poi, giusta o sbagliata che sia, è importante avere un’idea».

ITALIA SI, ITALIA NO
Se si guardano le presenze di Verratti con il PSG (133, adesso che scrivo) e con la Nazionale (12) sembrerebbe che la più grande diffidenza l’abbia trovata proprio nel suo Paese di origine. Gli chiedo secondo lui cosa sarebbe successo se, come si diceva all’epoca, avesse scelto di restare in Italia, alla Juventus: «Non lo so come sarebbero potute andare le cose. Di sicuro i giovani all’estero hanno più libertà, più possibilità. In Italia se sei giovane e sbagli due volte non ti danno una terza possibilità. Poi ci sono casi diversi, Pogba è arrivato dal campionato inglese dove non giocava e in Italia... dipende dal giovane, anche. A volte è anche colpa nostra, magari firmi con un club importante e pensi di essere arrivato, che sia finito tutto». Tra Verratti e l’Italia c’è un rapporto strano, testimoniato anche dal fatto che la sua prima partita (non amichevole) con la Nazionale è stato l’esordio allo scorso Mondiale. Non sembra la mezzala ideale per il gioco di Conte, ma lo scorso marzo la Gazzetta dello Sport lo ha messo in prima pagina con la maglia del PSG titolando: “Il più forte giocatore italiano”. «Sicuramente quando torno in Italia mi sento cambiato agli occhi degli altri. Sono andato via da ragazzino, da giovane promessa. Fare tre anni qui, giocare ogni anno la Champions League, vincere ogni volta il campionato, anche se non è facile, sono cose che mi hanno fatto crescere e che fanno sì che quando torno in Italia venga visto in un’altra maniera. Mi sento migliorato, anche i compagni me lo fanno capire, e sono cose che fanno piacere. Però da qui a dire chi è il più forte italiano... io penso che ognuno ha una sua maniera di giocare».

IL RUOLO DI VERRATTI SECONDO VERRATTI
Così torniamo all’inizio: il problema è che noi non conosciamo davvero Marco Verratti. Ad esempio, c’è chi pensa che converrebbe farlo giocare più vicino alla porta avversaria. La mia impressione, invece, è che i suoi dribbling siano quasi tutti difensivi, che una cosa è sfruttare l’aggressività dell’avversario a proprio favore, un’altra provocare l’errore, sbilanciare un difensore.
«Sì, è diverso. Per me è più facile proteggere palla quando mi vengono a pressare, saltare l’uomo o cercare di vedere una giocata che forse un altro non riesce a vedere. Ma è difficile, quando punto una difesa, cercare di saltare l’uomo. In questo devo migliorare ancora e potrei fare molto di più. Anche quando giocavo trequartista avevo delle difficoltà, per questo penso che comunque la mia posizione preferita sia a centrocampo. Mezzala, o davanti alla difesa. Quando giochi trequartista nel calcio di oggi devi avere altre qualità che non ho. Io penso di riuscire a esprimermi meglio quando gioco a centrocampo.
Però penso anche che devo e posso migliorare in moltissime cose. Potrei giocare anche un po’ più avanti, cercare qualche gol in più, capire quando posso inserirmi e quando devo restare basso. Giocando mezzala va bene che inizi il gioco, ma devo anche finirlo».

INIESTA, PIRLO, MOTTA
A Verratti piace parlare degli altri calciatori. Ha conservato la passione del ragazzino di quattro anni che guarda la Coppa d’Africa, ma al tempo stesso le descrizioni di colleghi e avversari gli servono per pensare e dire qualcosa di nuovo su di se. «Con Iniesta in tre anni ci siamo incontrati davvero molte volte, in mezzo al campo ma anche fuori ci siamo parlati spesso e penso che sia una delle mezzale più forti di questo momento e di sempre. Un giocatore che può cambiare la partita in qualsiasi momento. E ha una caratteristica: sembra sempre che va piano, ma l’attimo in cui accelera può spezzare una squadra in due. Anche la scorsa stagione, il gol del Barcellona nella partita di ritorno è nato da una sua accelerazione». E Verratti, se si riguardano le immagini, prova a fermarlo in scivolata a metà campo ma non lo sfiora neanche. «Sì, sembra sempre che gli stai per prendere la palla. Poi quando accelera capisci che non lo riesci a prendere, ma ormai è troppo tardi. Ci sono tipi diversi di giocatori che possono fare un dribbling. Ci sono quelli velocissimi, che cerchi di capire prima la giocata o non lo prenderai mai, o quelli tipo Iniesta, che ti scartano perché non ti fanno capire dove vanno. È imprevedibile. Se devo dire una squadra che riflette il mio modo di vedere il calcio penso sia il Barcellona, e forse se mi devo ispirare a un giocatore è Iniesta. So che molte persone dicono di annoiarsi, ma penso che i giocatori del Barcellona si divertono in ogni partita, anche quando perdono, e per me questa è la cosa più importante».
Non ha neanche paura di confrontarsi con Pirlo. Il paragone non è assoluto, ma per contrasto definisce che tipo di centrocampista pensa di essere: «Pirlo, anche quando ci gioco vicino, lo vedo molto diverso da me. Anche nei pensieri che ha. Lui può creare un’occasione da gol dal limite della sua area perché ha un lancio fantastico. A lui piace il gioco lungo, perché vede più lungo e con un lancio preciso puoi saltare centrocampo e difesa. Io il gioco lungo lo vedo più dalla metà campo in poi, che magari non è un lancio ma un passaggio un po’ più forte. Prima però cerco sempre di uscire palla al piede o di giocare corto per poi andare sui lati. Pirlo, invece, ha questo primo passaggio che può già creare superiorità numerica».
Ma gli occhi di Verratti brillano più che in qualsiasi altro momento quando parla di Thiago Motta. Insieme hanno formato una coppia da duecento passaggi a partita, una delle più dominanti degli ultimi anni con la palla tra i piedi. «Io penso sia uno dei giocatori più sottovalutati che ci siano. Penso che tutti quelli che ci hanno giocato insieme conoscono l’importanza che ha sul gioco di squadra. Quando non c’è lui, la squadra cambia. È un giocatore con un’esperienza grandissima, che sa bene quando proporsi in avanti e quando no, che non ha mai paura di farsi dare il pallone. Uno dei pochi che sai che se dai la palla a lui puoi stare tranquillo. Per questo dico che è uno dei più sottovalutati, anche se ha fatto una grandissima carriera non è mai stato considerato come uno dei più grandi».

PATERNITÀ
Siamo abituati a calciatori che sono anche dei brand, se non addirittura dei prodotti dei brand, ma quando non lo stanno fotografando (o intervistando) Verratti va in giro per lo studio a chiedere cose come: «Dove te ne vai in vacanza?». Lo vedo in disparte con un addetto stampa ma tutto quello che riesco a sentire è: «A me quello che piace è l’odore dei pomodori». Sul suo profilo Instagram ci sono foto di vacanza con Lavezzi e suoi amici di Manoppello con le orecchie di Topolino in un negozio di Disneyland.
La mattina legge il Corriere della Sera e la Gazzetta dello sport, il tempo libero lo passa con suo figlio.
E, dato che è raro parlare con un ventitreenne che è anche padre di un bambino di un anno, prima di salutarlo parliamo di suo figlio. Dice che i primi tempi era la ragazza ad alzarsi la notte, per non farlo andare agli allenamenti stanco, e che lui recuperava nei giorni liberi passando tutto il giorno ad occuparsi del bambino. «La sola cosa che mi dispiace è che con il lavoro che faccio la sua adolescenza non sarà felice come la mia. Io sono molto attaccato agli amici e il distacco l’ho sofferto. I calciatori cambiano squadra, cambiano città e per lui sarebbe difficile cambiare scuola, cambiare amici. Questa è la cosa che un po’ mi preoccupa e dovrò trovare un rimedio. Magari facendogli un fratellino, con una distanza di anni che gli permetta di giocare insieme. Per lui sarebbe straordinario crescere a Parigi. Certo, io anche a quattro anni uscivo da solo con mia madre a casa, avevo molta più libertà... lui non lo potrò lasciare da solo in giro a Parigi a quattro anni».