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 2015  settembre 16 Mercoledì calendario

SE I POLITICI FOSSERO TUTTI RUGBISTI

[Mauro Bergamasco]

Settembre e ottobre sono due mesi di grande rugby con le migliori squadre che si fronteggeranno a muso duro in Inghilterra per i Mondiali (18 settembre – 31 ottobre) e con l’Italia che, pur non avendo un cammino facile, promette di dare battaglia fino alla fine contro le “invincibili“ di sempre. E intanto il movimento cresce sempre di più, facendo breccia in un numero in continua crescita di appassionati. Forse perché gli uomini-guerrieri del rugby incarnano una filosofia di vita sempre più rara a trovarsi in altri contesti, non solo sportivi. Il rugby è uno sport tanto maschio quanto esemplare per rispetto delle regole e dell’avversario. Forse lo sport in assoluto più “cavalleresco”, fondato su un preciso codice d’onore, un inno al fair play e all’etica sportiva, dove le regole non sono regole ma leggi (impossibile vedere, per esempio, un rugbista polemizzare con l’arbitro!) e dove non esistono individualismi, ma solo un gruppo dal quale non si può prescindere se si vuole che la macchina non si inceppi. La fotocopia del calcio, insomma! Non è un caso, quindi, che venga preso a modello anche dal mondo aziendale nel lavoro di team building.
Nel rugby il “terzo tempo”, ci racconta Mauro Bergamasco, uno dei volti storici della nostra Nazionale che a 36 anni continua a essere fra i punti di forza della squadra, esiste davvero. Quel terzo tempo in cui, finita la partita, dopo essersele date di santa ragione in campo, ci si ritrova tutti insieme, magari al ristorante o in un pub, con le squadre e le tifoserie avversarie, per parlare della partita e rilassarsi un po’. Qualcosa di improponibile in molti altri sport più blasonati. Figuriamoci in politica, dove il rispetto degli avversari e in generale delle regole latita. Eccome se latita...

Mauro, partiamo da principio. Com’è avvenuto il tuo incontro con il rugby?
«Vengo da una famiglia di rugbisti (il padre Arturo, vanta quattro presenze in Nazionale negli anni 70 e anche il fratello Mirco è un rugbista come lui di fama internazionale, ndr), avevo cinque anni ed è stato allora che è scattata la molla».
Una “malattia” che non ti ha più abbandonato, visto che a 36 anni sei fra gli atleti in assoluto più longevi in circolazione! Cos’è per te il rugby?
«È diventato col tempo uno stile di vita. Occupa un grosso spazio nella mia quotidianità. anche quando non sono in campo o in allenamento. L’orologio della giornata è scandito fondamentalmente dalla palla ovale. Questo sport è sacrificio, fatica, ma anche tanto divertimento e passione, per cui ti si radica dentro e diventa parte inscindibile della tua vita».
Cosa ti aspetti da questa Coppa del mondo?
«Abbiamo degli obiettivi importanti. Innanzitutto creare un’aura positiva intorno alla nostra squadra e poi passare alla fase dei quarti di finale, rispetto alla quale ovviamente ci sono tanti obiettivi intermedi da perseguire con diligenza e rigore».
Qual è la tua giornata tipo per gli allenamenti?
«Quando siamo in ritiro per gli impegni con la Nazionale, mezza giornata la dedichiamo all’attività tecnico-fisica, mentre il pomeriggio alla palestra. Nei club ci si allena dalle quattro alle sei ore al giorno con i vari intervalli in mezzo».
Perché consiglieresti a un ragazzino di fare sport?
«Perché lo sport è un qualcosa che ti fa crescere fisicamente e mentalmente in un ambiente sano. Perché aiuta a conoscersi ancora meglio, nei propri limiti e nei propri pregi, e a sviluppare le proprie propensioni. Ovviamente il consiglio è sempre quello di fare sport con serietà ma anche e soprattutto divertendosi. Nello sport non devono mai mancare sorriso e divertimento, altrimenti neppure i risultati arrivano».
Quali sono le maggiori difficoltà e soddisfazioni legate al rugby?
«Al di là delle difficoltà tecnico-fisiche, per le quali c’è un allenamento continuo per aumentarle, è uno sport di squadra e, quindi, non è sempre facile e scontato riuscire a mettere assieme 35-40 teste per un obiettivo comune. Le soddisfazioni sono le vittorie che derivano solo da una reale dinamica fra compagni di squadra».
Perché è lo sport in assoluto più cavalleresco che esiste? Anche se a vederlo sembrerebbe il contrario...
«Il rugby ha un sacco di regole ed è un po’ come quando si gioca a casa con un gioco di società. Il gioco gira finché tutti rispettano il regolamento, altrimenti si blocca e non si riesce ad andare più avanti. Nel rugby si gioca solo attraverso le regole, anche perché una lieve infrazione delle regole può provocare infortuni molto seri. Nel momento in cui anche solo uno dei giocatori trasgredisce una regola, tutto si ferma. Credo ci sia un forte parallelismo fra la vita e il gioco, il che vuol dire rispettare i regolamenti e le istituzioni. Non con riverenza, ma appunto con rispetto».
Se mandassimo i nostri politici a lezioni di rugby forse ce la passeremmo tutti un po’ meglio...
«Oggi come oggi le cose sono talmente palesi a tutti, che indubbiamente ci vuole una svolta. Comunque, anche se la maggior parte dei politici ha le sue pecche, è anche vero che noi cittadini dovremmo essere più attivi. Lo sport principale oggi in Italia è lamentarsi, mentre dovremmo essere tutti più partecipi e propositivi, imparando innanzitutto a rispettare di più le regole nel nostro piccolo e soprattutto a porci obiettivi comuni, che vanno al di là di quelli personali. Ecco, in questo il rugby può insegnare davvero tanto, visto che si regge completamente sulla condivisione e il gioco di squadra. Non è, dunque, un caso che il nostro sport venga preso a modello, per esempio, dal mondo aziendale per lavorare sul team building».
È per questo che nel rugby esiste il “terzo tempo”?
«Indubbiamente. E credo sia qualcosa di unico nel panorama sportivo generale, un’usanza inespugnabile del rugby. Alla fine della partita, nel momento in cui si è finito di “darsele” di santa ragione sul campo, c’è questa esigenza di condivisione e di scambio con i tifosi e le squadre. Così ci si ritrova tutti insieme, anche con gli avversari, per parlare della partita, divertirsi, farsi una birra o un panino in compagnia. Le tensioni, la cattiveria, l’agonismo vengono canalizzati tutti nel gioco, non fuori, e si esauriscono sul campo di gioco».
Perché la figura del rugbista di per sé stuzzica così tanto l’immaginario femminile? Tu peraltro sei fra i più apprezzati dal pubblico delle donne...
«Forse perché la figura del rugbista che deve difendere la palla, conquistarla, trattarla come se fosse un figlio, richiama alla mente la figura paterna, di un uomo in grado di proteggere. A questo bisogna aggiungere che ci sono in giro sui campi da rugby tanti bei ragazzi con gran bei fisici (ride)!».
Forse anche perché è percepito come uno sport per uomini duri!
«Fino a dieci anni fa il rugbista era l’uomo rude sempre nel fango, con i calli, un po’ asociale. E anche se di fatto non è mai stato così, la percezione che se n’è avuta è stata sempre un po’ quella. Oggi tutto ciò è cambiato e noi rugbisti abbiamo conquistato anche la parola, grazie ad attività collaterali: calendari, una maggiore apertura ai media e alla pubblicità, una più attenta cura dell’immagine. Questo ha modificato un bel po’ l’immaginario che ruota intorno al rugby».
Delle rugbiste cosa mi dici? Come si sposa un sport come questo con la femminilità?
«Beh, darsi mazzate per 80 minuti non è di certo molto femminile, però c’è uno spirito, intendo la capacità di divertirsi e collaborare all’interno di una squadra per un obiettivo comune, che rende queste ragazze, che magari di giorno lavorano e la sera si allenano duramente, davvero irresistibili. Le ammiro moltissimo e penso ci sia veramente molto da imparare da loro».
Sesso e sport in che rapporto stanno? Ci sono diverse scuole di pensiero e qualcuno sostiene, per esempio, che avere rapporti sessuali prima di una performance sportiva migliori le prestazioni in campo. Il sesso fa bene allo sport insomma?
«Penso che dipenda molto dal singolo atleta e dalle sue abitudini e che non ci siano regole che valgono per tutti. Personalmente ho sempre evitato e, visto come stanno andando le cose, continuo così!».
Anche sul discorso famiglia e figli ci sono diverse scuole di pensiero. Nel tennis, per esempio, abbiamo due casi lampanti – Novak Djokovic e Roger Federer – di come metter su famiglia possa giovare al proprio gioco...
«La tranquillità, la serenità dell’atleta sono fondamentali per le performance, per cui avere una famiglia o dei figli può dare maggiore equilibrio. Ma anche qui si tratta di questioni molto personali che possono cambiare da atleta ad atleta».