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 2015  settembre 16 Mercoledì calendario

L’IMPERO MULTIMILIARDARIO DEL CALCIO

Una réclame degli anni ’80 sosteneva che “per dipingere una grande parete non serve un pennello grande ma un grande pennello”. Lo slogan, che scomodava ingenuamente le teorie avanzate da fine Ottocento dai classici del pensiero politico-economico su marginalità ed economie di scala, ritrova oggi una sua allure quasi premonitrice. La globalizzazione delle produzioni e l’interconnessione dei mercati stanno indirizzando quasi tutti i settori merceologici verso concentrazioni idonee ad incrementare fatturato e utili. E il calcio degli anni Duemila non fa eccezione. Anzi, le Corporation stanno fiorendo sia dentro il rettangolo di gioco che fuori. Se alcuni club hanno già raggiunto autonomamente dimensioni da multinazionale, con fatturati di oltre 500 milioni, altre società si stanno trasformando in holding, creando veri e propri conglomerati. Collegamenti tra squadre di prima fascia e club satelliti non sono mai mancati, naturalmente, ma la valenza industriale che ha assunto questo tipo di governance calcistica ha spinto alla creazione di Gruppi di club, uniti da cordoni giuridici, con una sola “testa” pensante e un unico quartier generale deputato a coordinare la gestione di un parco giocatori sempre più fungibile e politiche commerciali integrate. Con tutti i pericoli di incroci/conflitti di interesse che si possono intuire. A fare da argine a questa espansione c’è, infatti, solo un generico divieto di un’identica proprietà per team che partecipino alla stessa competizione continentale (Champions o Europa league) o nazionale. In mezzo, scorre l’immenso fiume di denaro che si riversa annualmente nel letto del calcio rischiando di travolgerne, alla prima tempesta, le fragili barriere. Oggi la principale multinazionale calcistica è il City Football Group dello sceicco Al Mansour. Già proprietario dell’Al-Jazira, club di Abu Dhabi, lo sceicco nel 2008 acquisisce il Manchester City, sul cui potenziamento investe in poche stagioni circa un miliardo di euro, avviando contemporaneamente un processo di espansione intercontinentale. Nel maggio 2013, infatti, fonda il New York City FC, ventesima franchigia dell’ambiziosissima Major league Soccer. Il club Usa è per l’80% nelle mani del CF Group, mentre il 20% appartiene alla storica franchigia di baseball dei New York Yankees. La squadra ha esordito nella Mls 2015, sponsorizzata da Etihad e Heineken ed ha come Chairman Ferran Soriano, uno dei più preparati dirigenti calcistici in circolazione, che dopo aver contribuito alla rinascita del Barcellona negli anni Novanta è stato chiamato alla corte di Mansour per dar vita a questo nuovo modello di corporation calcistica. Dopo il New York City Fc, in cui militano due stelle come Frank Lampard e Andrea Pirlo, nel gennaio 2014 viene acquisito l’80% del Melbourne City FC, squadra della A-League australiana, per 12 milioni di dollari. L’affare è realizzato insieme a un gruppo di imprenditori locali già associati al club rugbistico Melbourne Storm, a cui va il restante 20%. Lo sponsor è sempre Etihad, compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti con sede ad Abu Dhabi, che ne approfitta per aumentare al 10% la sua partecipazione nella Virgin Australia, seconda compagnia area del Paese. Sempre nel 2014 il CF Group compra inoltre una quota di minoranza (circa 20%) dei Yokohama F. Marinos, uno dei team più celebri della J-League giapponese, nato come emanazione della Nissan Motors con cui, non a caso, viene anche stretta un’alleanza planetaria: Nissan diventa così il partner automobilistico dell’intero gruppo per cinque anni. L’operazione con i Yokohama Marinos rappresenta il primo investimento straniero nel campionato nipponico. Il commento di Soriano è un mix di orgoglio e di lungimiranza: «Intendiamo offrire un modello di integrazione allo sviluppo calcistico, mediatico e commerciale per tutti i club appartenenti alla famiglia del City» (cedendo il copyright del City agli altri club del Gruppo il Manchester mette a bilancio un attivo di 30 milioni di euro...).
Altro impero del football è quello della Red Bull. La multinazionale austriaca fondata da Dietrich Mateschitz, ex dirigente della Unilever e di Blendax che deve la sua fortuna alla scoperta durante un viaggio in Thailandia del Krating Daeng, una specie di sciroppo contro il jet lag, oggi vende la sua bevanda in 166 paesi ed ha un fatturato di 5 miliardi all’anno. Con un patrimonio personale di 9 miliardi Mateschitz, patron dell’omonima scuderia di Formula 1, nel 2005 debutta nel calcio rilevando l’Austria Salisburgo. Ne cambia il nome in Red Bull Salisburgo, i colori sociali e la denominazione dello stadio (da Stadion Wals-Siezenheim in Red Bull Arena), generando un certo malcontento nella tifoseria che però dopo cinque campionati vinti sembra molto più accondiscendente. Nel 2006 Mateschitz sbarca nella Grande Mela divenendo proprietario dei New York Red Bulls (gli ex MetroStars) con investimenti notevoli, specie se si considera la storia ancora tutta da scrivere del campionato Usa: 30 milioni di dollari per la squadra e una settantina per metà della proprietà del nuovo stadio costruito ad Harrison, nel New Jersey e per i diritti di denominazione di quest’ultimo. «Negli Usa – dice presentandosi a New York – ben 18 milioni di persone praticano il soccer. E oltre 60 milioni seguono le partite ogni weekend. Devo aggiungere altro per spiegare perché ho comprato i MetroStars?». Un anno dopo la Red Bull GmbH costituisce a Campinas, nello stato di São Paulo, la Red Bull Brasil, e nel 2009 s’impossessa di una quarta squadra: il Lipsia. Viste però le restrizioni della normativa tedesca che vieta che il nome dello sponsor sia incluso in quello del team, la Red Bull la rinomina Rb (RasenBallsport) Leipzig. In cinque anni ottiene tre promozioni e oggi è in Bundesliga 2. Nel 2008 vengono costituti in Africa i Red Bull Ghana e un’accademia, a Sogakope, nel distretto di Tongu Sud, poi abbandonati perché poco redditizi. L’approccio della Red Bull GmbH non è certo ispirato alla filantropia.
Il record delle compartecipazioni fino a pochi mesi fa apparteneva al belga Roland Duchatelet. Ingegnere civile e fondatore di un partito politico dalla brevissima durata il Banaan, dà vita a un gruppo mitteleuropeo di sei club, tutti controllati dalla sua famiglia. Nel 2004 salva il Saint Truiden (Belgio) dal fallimento, dopo esserne stato sponsor dal 1999, e nel 2011 fa il salto di qualità acquistando lo Standard Liegi (e lasciando il Saint Truiden alla moglie che ancora oggi lo presiede). Qualche mese dopo, Duchatelet preleva il 94% dell’Ujpest in Ungheria affidandolo alle cure del figlio. Nel dicembre 2013, acquista il 95% del pacchetto azionario di un club di quarta divisione tedesca, il Carl-Zeiss Jena e nello stesso mese diventa proprietario del Charlton, in Inghilterra. Ne acquista il 95% delle quote per 17 milioni di euro, “importando” una serie di giocatori di sua proprietà dallo Standard Liegi. E nel gennaio 2014 si appropria dell’Alcorcon, squadra della serie B spagnola, a quanto pare in vista di alcuni progetti edilizi da portare avanti nella città iberica, tra cui una sorta di “Eurovegas”. Il recordman delle multiproprietà tuttavia a fine giugno 2015 ha deciso di lasciare lo Standard Liegi. Da tempo osteggiato dalla tifoseria per i suoi interessi in altri club e per la cessione in massa di giocatori nel corso degli ultimi anni ha annunciato però la sua volontà di mettersi in gioco in altri campionati: «Resterò nel calcio, ma non in quello belga», ha dichiarato, ufficializzando la cessione del 100% delle quote a Bruno Venanzi, già vicepresidente del club e cofondatore di Lampiris (azienda belga che opera nel settore dell’energia green), per una cifra attorno ai 30 milioni di euro. A geografia variabile è il gruppo calcistico messo insieme da Vincent Tan. Nel maggio 2010 un consorzio malese guidato da Dato Chan Tien Ghee preleva il 36% del Cardiff City per 6 milioni di sterline e Vincent Tan ne diventa presidente. Tan, in seguito si accaparra il 51% delle azioni del club gallese, e dal dicembre 2013 diventa anche proprietario del Sarajevo, con cui avvia una cooperazione per costruire un’accademia giovanile nella capitale bosniaca. Un investimento da poco meno di cinque milioni di euro. Con la stessa somma il miliardario malese, che già detiene una quota di minoranza nei Los Angeles Fc, nel maggio 2015 fa suo il KV Kortrijk, compagine della Juplier League belga. Anche l’Italia non si è sottratta al nuovo trend. In passato Tanzi e la Parmalat hanno controllato per otto anni il Palmeiras in Brasile. Attualmente sono tre i club che vantano partnership estere. La famiglia Pozzo, proprietaria dell’Udinese (la cui holding di controllo ha base in Lussemburgo), è stata la prima a lanciarsi in grande stile in questo business, rilevando il club spagnolo della Liga, il Granada, e il Watford in Inghilterra. Un affare straordinario, quest’ultimo. Acquisito tre anni fa per circa 25 milioni di euro, il Watford nella stagione 2015/16 disputerà la Premier League avendo colto una meritata promozione. Il club inglese si è così assicurato un assegno da 150 milioni di euro (a parte gli introiti da stadio e dall’area commerciale). Anzitutto beneficerà del ricco contratto tv che assegna equanimemente ai team della massima serie un minimo pari a 90 milioni di euro. E, inoltre, se dovesse retrocedere potrà contare su un bonus (il cosiddetto paracadute) di circa 70 milioni di euro. Niente male, considerando che l’Udinese ha ricavi strutturali (indipendenti dalle plusvalenze da calciomercato) di 65-70 milioni a stagione. È legata alla persona di Erick Thohir, invece, l’alleanza tra Inter e DC United, franchigia della Mls di cui l’indonesiano è azionista di maggioranza dal 2012, un anno prima del suo ingresso nel club nerazzurro. I Della Valle proprietari della Fiorentina, infine, fanno parte del novero di imprenditori che hanno scommesso sulla neonata Indian Super League acquisendo il 15% del Pune Fc. E in più occasioni anche il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, e il patron del Napoli, Aurelio De Laurentiis, hanno espresso l’interesse per l’acquisizione di piccoli club-consociati. Il business del calcio sembra insomma non avere proprio più confini.