Mattia Feltri, La Stampa 16/9/2015, 16 settembre 2015
IL NUOVO INNO DEL M5S, DAGLI ANTICHI VALORI AI JINGLE NEOMELODICI
Almeno i cinque stelle le canzoni se le scrivono. Altri no, le prendono in prestito, non le hanno nemmeno sentite bene e poi saltano fuori cose come quelle capitate a Pierluigi Bersani che per il congresso del Pd del 2009 scelse “Un senso a questa storia” di Vasco Rossi. Per l’intero congresso non si fece altro che cantare la seconda strofa – “anche se questa storia un senso non ce l’ha” - e Bersani aveva un bel dire che sotto sotto il significato era un altro. Poi Bersani è pure simpatico e spiritoso, ma quando si tratta di musica dovrebbe lasciar perdere: andò a Sanremo e indicò la sua canzone per il Pd, “Siamo solo noi”, sempre di Vasco, e lì fu proprio tragedia, «siamo solo noi / quelli che ormai non credono più a niente / e vi fregano sempre... Siamo solo noi / quelli che non han voglia di far niente / rubano sempre...». Strofa, ritornello e martellata sulle dita. A sinistra è una costumanza, Ignazio Marino affrontò le primarie del 2009, poi vinte proprio di Bersani, accompagnato da “Viva la vida” dei Coldplay, praticamente una profezia: «Le persone non riuscivano a capacitarsi di cos’ero diventato / I rivoluzionari aspettano / di ottenere la mia testa su un piatto d’argento». Poi arriveremo anche ai cinque stelle, ma su questo terreno, quello della divinazione, il fuoriclasse assoluto era Romano Prodi. Vinse le politiche del 2006 accompagnato da Ligabue, “Una vita da mediano”: «Una vita da mediano / da uno che si brucia presto / perché quando hai dato troppo / devi andare e fare posto...». Gli era già successo una volta di bruciarsi presto e fare posto, dieci anni prima, dopo la famosa campagna elettorale con la “Canzone popolare” di Ivano Fossati, la vittoria, la caduta e l’esilio in Europa prima che l’Ulivo diventasse l’Unione, tutto preannunciato in rima: «Sono io oppure sei tu / che hanno mandato più lontano / per poi giocargli il ritorno / sempre all’ultima mano...». Non si combinano tanti disastri da quando sono fuori moda gli inni, e per darsi il tono degli uomini di mondo si prende a prestito dal pop. Il primo, almeno a certi livelli, fu Bettino Craxi che salì su un palco socialista accompagnato da “Viva l’Italia” di Francesco De Gregori e da lì fu il diluvio. Dario Franceschini sceglieva Bruce Springsteen («Questi sono giorni migliori, bimba...»), Walter Veltroni impegnava Jovanotti molto prima di Matteo Renzi («Mi fido di te»), Rino Gaetano col suo «cielo sempre più blu» è passato da destra a sinistra come neanche Clemente Mastella. Così un applauso, almeno alle intenzioni, ai cinque stelle che in fatto di inni hanno una prolificità rara. Ora è uscito il terzo, se non si è perso il conto, i precedenti erano di Fedez («Caro Napolitano / te lo dico con il cuore / o vai a testimoniare / oppure passi il testimone... Dalla marcia su Roma / fino al marcio su Roma / c’è solo un MoVimento / che va avanti all’infinito») e prima ancora di Supa («Non siamo un partito / non siamo una casta / siamo cittadini punto e basta! / Ognuno vale uno, ognuno vale uno...») visioni programmatiche e questioni contingenti in perfetta assonanza, nessuna sorpresa a meno che non lo sia, nel testo ultimo, la scomparsa del grande tema della democrazia diretta. E se i grillini non si offendono, almeno questo lo hanno preso da Forza Italia che all’hit parade ha sempre preferito il jingle, agli esordi si cantava «Forza Italia / è tempo di credere / dài Forza Italia / che siamo tantissimi / e abbiamo tutti un fuoco dentro al cuore / un cuore grande che sincero e libero / batte forte per te...». Vaghi accenti new age su sfondi azzurrini da dépliant di agenzia di viaggi, temi ripresi con “Azzurra libertà” («Dammi la mano, dài / e canta insieme a me / il cielo è dentro noi / azzurro più che mai») nel frattempo che aveva spopolato quel capolavoro nordcoreano di “Meno male che Silvio c’è”, coro del Pdl che faceva venire i brividi al povero Gianfranco Fini: s’arrampicava sugli specchi e diceva che non era per Silvio qui e Silvio là, piuttosto «non c’è bisogno di un inno in un’epoca post-ideologica». Verissimo: a lui da giovane missino era toccato di sgolarsi al “Canto degli italiani”, «siamo nati in un cupo tramonto / di rinuncia, vergogna, dolore / siamo nati in un atto d’onore / riscattando l’altrui disonor...».