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 2015  settembre 14 Lunedì calendario

SUDAFRICA, L’ORO NON BRILLA PIÙ LA CRISI CINESE È IL COLPO DI GRAZIA

All’inizio c’era la Cina. Con il suo bisogno ossessivo di materie prime per sostenere il ritmo della produzione industriale. Con le sue squadre di operai e specialisti spediti in Africa a fare quello che le vecchie colonie avevano fatto e poi disfatto. Con le sue profferte di scambi commerciali, di infrastrutture da realizzare, di aiuti in campo sanitario e scolastico. Fu un’invasione silenziosa, senza eccessi e inutili clamori. Mentre il Vecchio Continente liberava i territori conquistati secoli prima con l’accortezza di accompagnare le lotte di indipendenza con sostegni economici per evitare, dove si poteva, un bagno di sangue, Pechino occupava gli spazi lasciati vuoti realizzando opere pratiche e razionali. Nell’ultimo decennio del secolo scorso, l’intera Africa è stata punteggiata da decine di migliaia di cantieri che costruivano strade, ponti, case, ospedali, scuole, fabbriche. La scelta dei luoghi non fu casuale: la Cina aveva bisogno di materie prime e puntò su quei paesi i cui sottosuoli erano ricchi di rame, ferro, alluminio, carbone, coltan (la “sabbia nera” del Congo usata in metallurgia per elevare la temperatura di fusione e difendere la lega metallica dalla corrosione), bauxite, zinco, piombo, e via dicendo.
Sfruttando il suo pragmatismo e l’abilità nelle trattative, la Cina riuscì a conquistarsi la fiducia dei governi giovani appena usciti dalla lunga dominazione coloniale. Governi e inesperti che tentavano la difficile strada delle democrazia. Non tutti ci riuscirono. Molti furono di nuovo vittime dei dittatori di turno che dopo tante promesse si rivelavano peggiori di chi li aveva scelti per gestire la nuova fase. La diffidenza divenne una costante. Per le tante fregature che avevano ricevuto e con cui adesso le intelligenze politiche emergenti si trovavano a fare i conti. Tra desiderio di riscatto e il nuovo orgoglio nazionalista che infiammava l’Africa, la Cina seppe cogliere il giusto equilibrio e si impose come il Grande paese che manteneva le sue promesse. Un partner affidabile. Non offriva denaro, come avevano fatto per decenni e ancora spesso fanno molti. La corruzione era un’arma spuntata. Troppo diffusa. Meglio offrire qualcosa. Magari infrastrutture. Creare ciò che mancava, di cui il paese aveva disperato bisogno. In cambio di generosi contratti a lungo termine per le estrazioni dei minerali. Il meccanismo ha funzionato per anni. In Africa orientale e in parte di quella occidentale. La Francia, il Belgio, l’Inghilterra, gli stessi Usa, fino a quel momento dominanti sui mercati africani, sono stati presto soppiantati. A favore di Pechino. Come nel film “The batterfly effect” di Eric Bress, l’idillio è crollato quando anche la Cina è stata avvolta dalla sua bolla produttiva e finanziaria. E’ bastato il crollo dell’economia di Pechino per provocare un effetto domino su quelle dei paesi africani legate al colosso cinese. L’effetto più vistoso si è avvertito in Sudafrica. Considerata la più forte economia di tutto il continente, quella sudafricana ha visto crollare il suo Pil, proiettato ancora dall’Fmi ottimisticamente verso un recupero quest’anno e il prossimo che tutti sanno che sarà illusorio. Il crollo delle Borse asiatiche ha avuto immediati riflessi sui titoli delle grandi compagnie minerarie, ma già l’oro era in crisi da tempo per motivi di mercato e perché le miniere si stanno esaurendo. Ma ora tutti i prezzi delle materie prime sono precipitati perché la Cina ha rallentato la produzione industriale e ha fortemente diminuito le richieste. Giganti come Anglomaerican e Anglo Rustenburg, già afflitte dall’aumento dei costi di produzione, dalla richiesta di aumenti di salari e da una crescente conflittualità sindacale, hanno annunciato la vendita di alcune importanti miniere di platino. La riduzione dell’attività di estrazione ha aumentato anche l’esposizione finanziaria delle multinazionali. Molte hanno venduto quote di altre consociate in altre zone del mondo (Sudamerica soprattutto) per concentrare le risorse su un territorio che ha ancora enormi riserve. Si calcola che il Sudafrica conservi l’80 per cento di alluminio nel mondo. Anche il mercato ha subito il contraccolpo. Gli investitori sono allarmati. Perché oltre al calo delle richieste cinesi, c’è la diminuzione generalizzata dei prezzi delle materie prime: l’alluminio ha raggiunto quello più basso degli ultimi sei anni. La crisi ha finito per ripercuotersi sui consumi interni e la svalutazione della moneta (rand) sudafricana ha prodotto effetti negativi sul potere d’acquisto dei salari. Le già difficili condizioni di lavoro che avevano portato a prolungate e violentissime battaglie dei minatori sono peggiorate. Sono scattati nuovi scioperi, con altri blocchi e altre minacce di chiusura dei pozzi. Molte società hanno subito pensato a raffiche di licenziamenti. Ma hanno dovuto fare i conti con le rigide leggi governative a difesa dei posti di lavoro che seguendo un apartheid al contrario favorisce soprattutto i neri a scapito dei bianchi e dei meticci. Imporre tre assunzioni di colore ogni bianca in virtù di un preteso equilibrio razziale che rispecchierebbe la realtà etnica del paese ha creato una disparità spesso intollerabile.
Daniele Mastrogiacomo, Affari&Finanza – La Repubblica 14/9/2015