Angelo De Mattia, MilanoFinanza 15/9/2015, 15 settembre 2015
LA YELLEN PUÒ ANCHE RINVIARE L’AUMENTO, MA NON PER MOLTO
Domani si riunisce il Federal open market Committee della Federal Reserve per le mai tanto attese decisioni in materia di tassi di interesse, fermi dal 2008 tra lo 0 e lo 0,25%. È da mesi che si avanzano previsioni su ciò che la Fed potrà decidere, con particolare riferimento ai dati della crescita e dell’occupazione, oltreché dell’inflazione, di volta in volta pubblicati. Nelle ultime settimane, il quadro si è complicato per la crisi della Cina e per i gravi problemi dei paesi emergenti, in specie del Brasile, il rating sul cui debito pubblico è stato abbassato a livello di titoli spazzatura. In questi giorni si sono lette dichiarazioni di questo o quel componente del suddetto Comitato a favore o contro un aumento dei tassi; alcuni dei favorevoli non hanno, tuttavia, in questa tornata diritto di voto. Prima, Stanley Fischer, vicepresidente della Fed, si era espresso, in diverse circostanze, in maniera ambivalente, precisando, tuttavia, che un eventuale aumento del costo del denaro dello 0,25% non sarebbe da considerare un’operazione sostanzialmente restrittiva e, poi, aggiungendo che la Fed non aspetterà che l’inflazione superi l’obiettivo-vincolo del 2% per intervenire, evidentemente alzando i tassi. Fischer ha sempre detto tuttavia, nei suoi interventi, che gli interlocutori non lo avrebbero mai costretto a pronunciarsi sulle prossime decisioni perché egli avrebbe taciuto rigorosamente. A ben vedere, però, alcune affermazioni il vicepresidente le ha fatte e sono di un certo rilievo, anche se poi sono bilanciate da altre di segno quasi opposto. Janet Yellen, invece, non ha parlato in queste settimane e ha fatto a meno di prendere parte a incontri nei quali poteva comunque essere costretta a parlare. L’articolazione delle posizioni nella Fed e l’oggettiva difficoltà di un intervento, quale che esso sia, hanno consigliato alla presidente di tacere per ora. Tuttavia, qualcuno sostiene che le diverse tesi espresse, pur in una forma assai cauta, da parte di coloro che avranno la possibilità di interloquire sulla decisione che dovrà essere adottata, di per sé hanno oggettivamente costituito un indirizzo che, ancorché non da tradurre immediatamente nell’ipotesi dell’aumento dei tassi, indica tuttavia questa strada che, prima o poi – più prima che poi – dovrà essere percorsa. Ma si tratterebbe pur sempre di una sorta di confusa «forward guidance» che, in quanto tale, non avrebbe gli effetti eventualmente sperati, anche perché, se ci si limita al fatto che i tassi dovranno risalire senza indicare quantità, tempi e modi, allora non vi è bisogno del succedersi di dichiarazioni di singoli esponenti per dedurne che, comunque, una risalita vi sarà, senza indicare il quando e il quantum. D’altro canto, il miglioramento dei dati dell’economia, rilevati nel secondo semestre – con il successo eccezionale del tasso di disoccupazione sceso al 5,1% – non è ancora stabilizzato per poter fondare su di esso un innalzamento dei tassi in questo mese, a poca distanza dalla conoscenza dei dati stessi, pur avendo già abbandonato il quantitative easing per chiudere una fase o forse proprio a motivo di questo abbandono che già di per sé è un segnale. Potrebbe risultarne un effetto doccia fredda, sia pure in dimensione ridotta perché l’aumento, se vi dovesse essere, al più potrebbe portare i tassi allo 0,50%. La valutazione dell’incremento sarebbe dipendente prevalentemente dalla situazione interna e dai rischi, tutti però da approfondire, di un surriscaldamento dell’economia, facendo astrazione dal contesto internazionale e dalle difficili situazioni sopra menzionate, di fronte alle quali gli Usa non vivono in una condizione di terzietà, perché i riflessi di queste crisi ben si potrebbero esplicare sulla stessa economia americana, aggravati da una restrizione monetaria della Fed. Un giudizio complessivo, che tenga conto anche dei rischi geopolitici e, prima ancora, dall’andamento dei prezzi delle materie prime e del petrolio, in funzione prognostica, considerati i pro e i contra delle varie scelte possibili, porta a dare la prevalenza a una decisione, il 17, che soprassieda all’aumento. Semmai, questa scelta potrà essere accompagnata o da qualche misura collaterale di politica monetaria che faccia intendere che l’aumento non è lontano ovvero da una comunicazione, questa volta univoca perché governata ed espressa direttamente dalla Yellen, che orienti con maggiore precisione e impegno verso l’incremento del costo del denaro, se continua il quadro interno delineatosi a giugno. Ciò significa che una tale decisione potrebbe sopravvenire anche prima di dicembre, se risultasse necessario e, in ogni caso, sarà assunta entro la fine dell’anno. Il 17 sarà, comunque, la giornata del chiarimento. Resta il fatto che, ancora una volta, si manifesta la grave carenza del coordinamento tra le principali banche centrali. L’Italia e, prima ancora, l’Europa non possono solo stare alla finestra, ma debbono essere pronte a considerare le azioni da porre eventualmente in campo di fronte a un eventuale processo di risalita dei tassi a livello internazionale; e la cosa non riguarda solo la Bce, ma anche i governi. Non si trascurino pure gli sviluppi della situazione in Grecia che il 20 affronta la prova elettorale. L’esecutivo italiano, da parte sua, si accinge ad esaminare e approvare, venerdì prossimo, la nota di aggiornamento del Def e non potrà non tener conto del contesto internazionale.
Angelo De Mattia, MilanoFinanza 15/9/2015