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 2015  settembre 13 Domenica calendario

GRAZIA CHERCHI IL MESTIERE DELL’EDITOR

È statauna protagonista della cultura italiana, ha diretto riviste importanti e scoperto talenti, ma il suo nome è come sommerso, scivolato in un limbo nascosto dove sono finiti tanti suoi simili. Di Grazia Cherchi non si parla più, ma sarebbe ipocrita chiedersi il perché. Se ne potrebbe tracciare il profilo per contrari, alla maniera dei futuristi. Prendere il circo equestre contemporaneo — l’editoria di plastica, il narcisismo parossistico, l’intellettuale imbonitore, gli autori «uguali come i tortellini fatti in casa» — capovolgere il tutto e forse cominciare a capire che tipo era. «Intelligenza del cuore». «Integrità morale». «L’editing come esercizio degli affetti». «La ricerca di alleanze destinate a creare le frontiere del valore». «Il sospetto per il successo facile». Bastano poche parole, a lei dedicate dagli scrittori dell’officina Cherchi, per essere catapultati in un’altra civiltà.
A condurci in questo viaggio, nel ventennale della morte, è un affettuoso e partecipe racconto della trentenne Michela Monferrini che si è messa all’ascolto della Cherchi e della sua strana gente. Un collage di voci e frammenti irregolari che restituiscono la irregolarità di questa «romantica donna emiliana» estranea al suo tempo. Dell’attuale egemonia del marketing aveva cominciato ad avvertire le avvisaglie negli anni Ottanta, con la trasformazione dei «funzionari editoriali in procuratori di calcio». Ma eccentrica lo era stata anche vent’anni prima, quando neolaureata incontra a Milano Piergiorgio Bellocchio, anche lui di Piacenza, e insieme decidono di dar vita ai Quaderni Piacentini. Una rivista fatta a tavola, durante il pranzo. Prima solo lei e Bellocchio, che vi investì l’eredità paterna (il resto andò a Pugni in tasca del fratello Marco). Poi divennero in tre con Goffredo Fofi, che pubblicò sui Quaderni l’inchiesta sulla Fiat rifiutata da Einaudi.
“Essere seri senza essere noiosi”, il motto della rivista che fustigava anche con eccesso di severità “l’imbestiamento collettivo” minacciato dal progresso neocapitalistico e dalla nascente industria culturale. Sei anni dopo sarebbe arrivato il Sessantotto che la rivista in parte anticipò. Tutti oggi la ricordano per la rubrica “Libri da leggere e libri da non leggere”. Nella lista dei libri da non leggere finirono pure Moravia, Eco e Pasolini, tra scandali e zuffe. Ma ben presto giunsero in redazione le lettere rabbiose di chi si sentiva escluso: non solo dai libri da leggere ma anche da quelli da non leggere. Segno che bisognava smettere.
Lo spirito del gruppo in una didascalia (corretta). Una foto di una stagione successiva la ritrae vezzosa, la testa inclinata sulla spalla di Fofi, Bellocchio sorridente accanto.
«Complicità e amore», annota Lalla Romano, sua grande amica. «Complicità e tenerezza», corregge lei. Un fatto di precisione.
L’editing fu l’altra sua grande passione, esercitata con gusto e sentimento. Lavorava sul testo per sottrazione e con umiltà, proponendo le sue correzioni a matita. A casa sua sono passati giovani e meno giovani. Benni, Baricco, Maggiani.
E ancora Carlotto, Petrignani, Sereni, Onofri. E poi i giornalisti Deaglio e Lerner, Pivetta e Riotta, Enrico Franceschini. Dei suoi autori curava l’editing non solo del lavoro ma anche della vita.
Ne sorvegliava il patrimonio lessicale ma anche le provviste in frigorifero. Tifava per la felicità nelle storie d’amore, anche se forse della sua felicità s’è curata poco. E di scrittori come Volponi si domandava: chissà com’era con gli amici. «Il lavoro degli affetti là dove si muove l’intelligenza del mondo», sintetizza Alberto Rollo, editor che le fu vicino. Una bella faccia dai lineamenti decisi, in fotografia spesso diventa una silhouette scura, un profilo d’ombra. Comparire doveva sembrarle una volgarità. Figuriamoci comparire oggi. «Attenzione a fingere di essere felici», una delle ultime cose che ha scritto.
Simonetta Fiori, la Repubblica 13/9/2015

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E POI HO SCRITTO “OCEANO MARE” –
Credo mi abbia insegnato, più che altro, un certo modo di stare al mondo. Il “come” si scriveva era una conseguenza. E poi il coraggio, direi. Mi ricordo che dopo “Castelli di rabbia” le dissi che volevo fare, come secondo libro, un libro di mare, ma proprio un libro di mare come quelli che si facevano una volta, avventura, naufragi, pirati. Le raccontai la trama. Era un po’ imbarazzante, perché ero un quasi esordiente e mi gettavo a fare un libro alla Conrad, alla Melville, insomma era come girare un western dopo che lo avevano fatto tutti i grandi americani e in più Sergio Leone. C’era qualcosa che poteva sembrare stupidamente ambizioso. Ma lei mi disse: fregatene, se è quello il libro che vuoi fare, fallo. E allora io ho scritto “Oceano mare”.
Alessandro Baricco, la Repubblica 13/9/2015

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SICURO CHE NON SAI FARE DI MEGLIO? –
In generale credo amasse le scritture “irregolari”, non l’accademia, non il seriale. Ma leggeva anche quello che non amava, perché come critico era severo, si informava, studiava. Il suo consiglio era sempre quello di riscrivere, di non fermarsi alle prime stesure. Se da tempo io ritorno anche cinquanta volte su una pagina è perché sento la voce di Grazia che mi dice: siamo sicuri che non possiamo fare meglio? È qualcosa che più che nei libri resta nel cuore, è la spinta a non arrendersi mai allo scontato. Credo che Goffredo Fofi abbia molto della cultura, della passione (e del caratteraccio) di Grazia. Quanto a me, io lei la ritrovo in tutte le mie donne coraggiose. In Pantera, per esempio, o in Lisa.
Stefano Benni, la Repubblica 13/9/2015

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C’ERA UN PUNTO FERMO TRA PIACENZA E IL MONDO –
Lavorare con grazia era un continuo confronto su libri, film, avvenimenti, persone. Eravamo tutti e due mattinieri e ricordo con particolare nostalgia le telefonate dell’alba, quasi quotidiane, per anni, in cui ci si “aggiornava” e confrontava su tutto. Poi c’erano i viaggi, tutti e tre insieme sulla macchina di Giorgio (Piergiorgio Bellocchio, ndr), nelle varie città dove c’erano collaboratori preziosi (di “Quaderni Piacentini”, ndr) che spesso incontravamo a pranzo (con invidia di Perry Anderson, direttore della “New Left Review” che ci invidiava questo “fare la rivista” in modo conviviale). Grazia era il punto fermo di tutti questi legami.
Aveva un’attenzione a volte quasi eccessiva. Diciamo che io, più eclettico e onnivoro, le servivo come segnalatore di film, autori, persone di cui lei diventava spesso amica e confidente quanto me (ad esempio la Morante), e lei mi ricompensava regalandomi camicie, trovandomi lavori e lavoretti (fu lei a introdurmi a Garzanti quando la Feltrinelli si sbarazzò malamente di molti collaboratori). Era molto esigente, nei rapporti più intimi, anche troppo. La sua vena era quella del ritratto ironico, del racconto breve con sottofondo malinconico; una sorta di Dorothy Parker italiana.
Goffredo Fofi, la Repubblica 13/9/2015

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CINQUE CORREZIONI, NON DI PIÙ –
Lavorammo insieme a un mio libro, “Il coraggio del pettirosso”. Arrivava con pacchi di fogli pieni di foglietti e note, e puntualmente litigavamo perché io per principio accettavo cinque correzioni ogni dieci proposte, non di più. Eravamo due brutti caratteri messi assieme, ma lei era la mia terza zia, la zia che mi mancava, la zia che aveva studiato — vengo da una famiglia di contadini, sono stato il primo a laurearmi. Ho esordito tardi, avevo quarantatre anni, non mi lasciavo dire da nessuno cosa potevo o non potevo fare, neanche nella scrittura, ma il mio stile è nato grazie a lei e al suo lavoro sul mio libro. Io sono un aggettivatore scatenato: per ogni sostantivo mettevo sempre tre aggettivi, e lei chiedeva di toglierne due, ma io ne toglievo soltanto uno. È nato così, il mio stile, e forse con il senno di poi avrei fatto bene ad accettare tutti i suoi consigli, ma in fondo no, in fondo è meglio così, perché così nei miei libri ci siamo dentro tutti e due.
Lei era bizzosa, ma aveva quell’autorità e quell’autorevolezza che oggi non ha più nessuno, come nessuno ha la sua disciplina, la sua coerenza, i principi, una forza di lavoro inimmaginabile che non la faceva staccare mai, che la faceva pensare solo al dovere anche se veniva pagata una miseria. Gli intellettuali di quella generazione venivano dalla guerra, dall’irreparabile, e avevano sentito il dovere morale di cambiare le cose, di mostrare l’irreparabile come riparabile. Lei a un testo chiedeva questo: non voleva imporre il suo pensiero, ma voleva ritrovarvi applicata la sua idea di coerenza, voleva coerenza trasformata in scrittura; voleva che il testo giungesse alla migliore e massima rifinitura possibile, che fosse — come si dice — a “regola d’arte”.
Era una vera intellettuale come non ce ne sono più, con una disciplina da milizia popolare, ma poi leziosa nell’uso di una parrucca sfolgorante negli ultimi tempi della malattia.
Maurizio Maggiani, la Repubblica 13/9/2015