Walter Siti, la Repubblica 13/9/2015, 13 settembre 2015
RELITTI SENZA UN FINALE
Umili resti creaturiali, relitti di una vita troncata all’improvviso: questo ci restituiscono le due scatole di cartone con gli oggetti appartenuti a Pasolini e trovati sul luogo del delitto. Compresse per il mal di testa, una confezione di preservativi, la raccolta punti di un benzinaio; due pettinini per ravvivarsi i capelli in fretta, gli occhiali. L’ingenua vanteria (o forse snobistica noncuranza) di tenersi in macchina la statuetta di un premio minore; due libri appena usciti, un Nietzsche di Adelphi e l’antologia del Politecnico vittoriniano curata da Forti e Pautasso, ri-editata da Rizzoli nel 1975. Una morte evidentemente di sorpresa, tutt’altro che “programmata” come qualcuno negli anni ha voluto sostenere. In entrambi i libri si parla di scuola, in un modo che non poteva non interessare Pasolini (a giugno aveva smesso di pubblicare a puntate sul Mondo il trattatello pedagogico Gennariello, ma il piano dell’opera prevedeva altri capitoli e ci sarebbe senz’altro tornato sopra).
Tra i brani scelti del “Politecnico”, oltre all’asciutto pezzo di Caproni sulle borgate che avrà letto (o riletto) con nostalgia, uno di Concetto Marchesi auspicava una scuola non specializzata, capace di “allargare l’orizzonte delle cose finite e sperimentate”: vicino insomma all’impostazione semiologico-antropologica del trattatello pasoliniano. Quanto alle giovanili conferenze nicciane (un dialogo socratico che si svolge in un bosco), Pasolini sarà stato colpito dalla polemica contro i giornali che spingono a una cultura funzionale al sistema economico e mirano a uomini “correnti”, nel senso in cui si dice “moneta corrente”; Nietzsche se la piglia col “nesso tra intelligenza e possesso” e con l’omologazione che rende “malvista ogni cultura solitaria” — ma esalta nell’apprendimento l’obbedienza e la disciplina, come Pasolini in quel periodo.
In quell’auto a Ostia c’era un cervello che lavorava a pieno ritmo e pensava al futuro.
Poi ci sono i rimandi al delitto: il telegramma che allude al furto delle pizze di “Salò”, pizze che furono forse l’esca per attirarlo nella trappola. Il maglioncino di uno sconosciuto, un anello che Pelosi disse suo ma fu smentito. Ci sono i suoi jeans, la canottiera e la camicia, pronti a trasformarsi nell’icona del poeta assassinato se non quasi in una sindone omosessuale. La forza simbolica e fuorviante di quei segni ci ha distratto a lungo dalla cattiva conduzione del processo: indagini che ora non è più possibile fare sarebbero state possibili quarant’anni fa. Già allora il sospetto che Pelosi non fosse solo apparve più che fondato; testimonianze, baraccati che avevano visto e udito. Ora è tardi, i Ris non hanno trovato prove decisive; ma gli indizi restano molti, troppi — ritrattazioni, morti sospette (come l’incidente stradale che uccise nel 2010 il testimone Olimpio Mazzocchi, mentre Pelosi era alla guida), nuove risultanze su Cefis e Mattei. Che Pasolini sia morto perché alcuni magnaccia volevano “dargli una lezione”, o che avesse saputo qualcosa di compromettente, o che magari solo avesse rivolto domande imprudenti alle persone sbagliate, certo la versione vulgata all’epoca (il giovane marchettaro che si ribella a pratiche sessuali non previste) non regge più.
Cosa sia accaduto a Ostia quella notte non lo sapremo mai. Come finisce una vita dà sempre indicazioni sul senso di quella vita; l’archiviazione segna una doppia sconfitta, della magistratura e della conoscenza. Ma viviamo immersi in un tempo disinteressato ai finali.
Walter Siti, la Repubblica 13/9/2015