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 2015  settembre 13 Domenica calendario

«Un solo rimpianto dopo Totò. Pochi Scola e troppi film inutili». Parla Isa Barzizza

[Intervista a Isa Barzizza] –
Il compromesso, dice Isa Barzizza: “Fu ridicolo. Mio padre Pippo, noto direttore d’orchestra, non voleva che suonassi le corde dello spettacolo. L’idea che facessi l’attrice lo inquietava, ma bussando a casa sua era venuto a chiederglielo il grande Erminio Macario in persona e a Macario, un uomo di polso molto autoritario che teneva la compagnia con il pugno di ferro, un uomo che sapeva convincere, dire no era difficile. Allora, anche grazie a mia nonna che per estorcergli l’approvazione lo tormentò per settimane, papà capitolò e ci trovammo a metà strada ‘Puoi recitare in Follie di Amleto con Macario, ma se non sei in grado torni subito a casa’. Ma ero minorenne, all’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni e mio padre mi mise una governante tra i piedi, una sorta di tutrice che controllava qualunque cosa facessi e che, beffa delle beffe, dovevo anche pagare di tasca mia. Durò tre anni. Andavamo a cena a Milano all’Orologio o al Santa Lucia e io avevo il gendarme a controllarmi l’ora d’aria. Ero l’unica soubrette italiana dell’epoca con la badante. Ma quell’avventura era troppo importante e così, con il poliziotto in gonnella al seguito, nonostante amassi la libertà come nient’altro, partii”.
Negli occhi di Isa Barzizza, a quasi 86 anni, c’è ancora il lampo che fece innamorare milioni di connazionali nell’immediato dopoguerra: “I film che facevo erano semplici. Sciatti, girati in fretta, scritti con i piedi e spesso bruttissimi, ma incontravano il desiderio di leggerezza e di ottimismo che chiunque voleva respirare dopo anni di guerra. Quando giravamo con le compagnie teatrali, dormivamo spesso in alberghi senza acqua corrente, con la bacinella ai piedi del letto e la carta al posto dei vetri alle finestre della stanza. Eravamo felici. Ricominciare a vivere senza rifugi, allarmi e bombardamenti, ti faceva ignorare le crepe di un contesto in cui non c’era cosa che non andasse ricostruita da zero”.
Con il cinema di evasione, fianco a fianco con il principe De Curtis, Barzizza divenne l’ambita e bellissima regina che tra castità e provocazione fumava sdraiata nella vasca da bagno, faceva intravedere la silhouette fidiaca dal chiaroscuro di un separé o parlava con cognizione di motori, bolidi e candele nella notte del Gianicolo con Aldo Fabrizi. Più di trenta film interpretati tra il 1947 e il 1955, undici solo con Totò. Poi, l’improvviso addio alle scene: “In un incidente stradale sull’Aurelia, nel 1960, morì mio marito Carlo Alberto Chiesa, uno degli uomini che inventò la televisione italiana. Avevamo una figlia di tre anni e senza alcuno sforzo né rimpianto, decisi di interrompere all’istante la professione per dedicarmi a lei. Mi trasferii da Torino a Roma, aprii uno studio di doppiaggio, mi allontanai dalle scene”. La richiamò in servizio Ettore Scola, nel 1974, per C’eravamo tanto amati. Infuriata tenutaria della pensione in cui Stefania Sandrelli vagheggiava il suicidio, perché Isa Barzizza, nella realtà e nella finzione, la vita l’ha sempre amata: “I vecchi tendono a pensare sempre al passato, a ricordare, a guardarsi indietro. Non l’ho mai fatto. Sono curiosa, ho a che fare con i giovani, saltello ancora in teatro. Se la salute regge, spero di continuare fino a quando non dovrò andarmene anch’io”.
Ricorda il primo film?
I due orfanelli di Mario Mattoli, un uomo di cinema molto capace e molto spiritoso. Mi volle per interpretare Matilde, una figlia di nessuno innamorata di Galeazzo Benti. Era la mia prima volta sul grande schermo, ma avevo recitato fin da bambina apprendendo i rudimenti del palcoscenico a otto anni. Un amico di mio padre, regista radiofonico all’Eiar, aveva bisogno di una ragazzina che accompagnasse in scena Elsa Merlini, grande attrice dell’epoca, in La signora Morli, uno e due di Pirandello.
Come mai pensò a lei?
All’epoca, per i piccoli ruoli, i ragazzini si trovavano nelle piazze. Le compagnie passavano da Torino, dove vivevo, e quando cercavano comparse, anche per ruoli piccolissimi, si affollavano centinaia di persone. C’era la fame. Era tutto diverso, a partire dai corpi femminili. Le ballerine, per dire, erano grassotelle, pingui, abbondanti di misura perché l’immaginario del rinnovato benessere così le pretendeva.
Erano anche brave?
Ma scherzate? Se sapevano fare tre passi di danza in croce era già un miracolo. La gran grossa, nel dopoguerra, era una seconda religione. Non si andava tanto per il sottile.
Sul palco se la cavò fin da bambina?
Ero disinvolta e anche un po’ esibizionista. Ma non mi biasimo, non c’è attore che non lo sia. Se vi dicono il contrario, non ci credete.
L’incontro che le cambiò la prospettiva fu quello con Totò.
Pensare che non sapevo chi fosse. Recitava da anni, con grande successo, nei teatri del Sud. Ma alla fine degli Anni 40 il Sud era un’astrazione. Vivevo in Piemonte. Dell’Italia meridionale sapevo poco. Di Totò ancora meno.
Imparò a conoscerlo.
Con Totò feci prima C’era una volta il mondo e poi Bada che ti mangio di Galdieri. .
Poi arrivò il cinema.
Quando Mattoli mi propose di partecipare a I due orfanelli non titubai. Il cinema mi sembrava un’idea meravigliosa, meno faticosa ed estenuante del teatro. Le compagnie di giro vagavano lungo l’Italia per mesi e mesi. Partivamo in piena notte. Io dormivo in terza classe, sulle reti dei bagagli, comodissime. Il cinema, certo, aveva agi maggiori. E, scoprii con il tempo, era anche più rapido da ogni punto di vista.
Che ricordo ha di Antonio De Curtis?
Era un uomo gentile, un vero signore dal talento immenso. In teatro poi era un genio. Riusciva a mettersi in sintonia con le reazioni del pubblico anticipandone i desideri. Sapeva far ridere anche senza aprire bocca.
“Le sei mogli di Barbablù”, “Fifa e Arena”, “Totò al Giro d’Italia”, “I pompieri di Viggiù”, “Totò a colori”. La lista dei film in cui avete duettato è lunghissima.
Credo si fidasse di me. Ero una spalla perfetta. C’era uno sparito con i toni giusti e nella melodia generale, io non stonavo. Tra noi sapevamo darci i tempi con naturalezza. Non discutevamo né litigavamo mai. Ora che ci penso, la pace con Totò non era un mio esclusivo privilegio. Credo di non averlo mai visto arrabbiato con nessuno in vita mia.
Vi frequentavate anche fuori dal palcoscenico?
Totò era riservatissimo. Aveva una scissione totale, quasi patologica tra l’uomo di palcoscenico e la vita privata. In scena sapeva trasformarsi, fuori spariva, si nascondeva, si chiudeva in camerino a dormire per ore sulla sua chaise longue.
Con lei era protettivo?
Non era protettivo né paterno con nessuno. Arrivava in teatro, in doppio petto, con la cravatta fissata da una spilla d’oro. Allungava le gag, lavorava sul testo, ricreava la realtà partendo da un’intuizione.
Dallo sketch teatrale di “Bada che ti mangio”, nacque la memorabile scena del vagone letto in Totò a colori.
Quando debuttammo al Teatro Nuovo di Milano durava pochi minuti, pochi minuti che nel corso della tournée diventarono quasi cinquanta. Totò portava ogni sera un lampo nuovo, un’elaborazione e Mario Castellani, che gli faceva da spalla, era rapidissimo a intuirne le intenzioni. In scena era come se Totò godesse a riappropriarsi di qualcosa. Qualcosa che sul palcoscenico poteva permettersi e che al cinema gli era negato.
Negato in che senso?
Alcuni suoi film erano perfetti, molti altri erano tirati via, ma pochi sono belli in senso cinematografico. Totò, va detto, ne ha interpretati anche di modestissimi però anche in quelli brutti, ci sono almeno un paio di momenti eccezionali. Il graffio ce l’ha sempre avuto come dono di natura. Era un personaggio un po’ speciale.
Speciale in quale accezione?
Lo pagavano molto bene e lui accettava di recitare senza aver magari neanche aver letto il copione. Non gli serviva. Improvvisava. Una lezione che derivava dal mondo del varietà. A Napoli, in quell’ambito, a diventare una stella di prima grandezza aveva impiegato un attimo. Dopo la proiezione del film di turno saliva sul palco e tra un giocoliere e una cantante, incantava la platea. Saper far ridere come ho visto fare a Totò con semplicità estrema è un dono. Una dote che o hai o non hai.
Si dice che fosse geloso di sua moglie e molto generoso.
Credo fosse molto innamorato della moglie. Raccontavano che era solito mettere un’invisibile striscia di borotalco davanti alla porta di casa per vedere quante e quali impronte avessero violato il talamo e che sopra la porta della stanza appoggiasse un piccolo foglio invisibile incastrato nello stipite. Non ho mai saputo se si trattasse di leggende o meno, so però che sul lavoro, in un microcosmo in cui l’invidia e la cattiveria hanno un posto al sole, Totò non conosceva gelosie. Era un signore. Lo era con chi portava il caffè, con il regista e con l’ultimo dei macchinisti. Poi sì, era anche generoso. Aiutava i nullatenenti e amava i cani, penso ne accudisse più di cento. Siete delusi?
Da cosa signora Barzizza?
Mi rendo conto che non ho quelle storie magnifiche di ripicche, tranelli e cattiverie che i giornali amano pubblicare. Ma Totò sul tema, a differenza di un Renato Rascel, non dava soddisfazione. Non era una vedette. E non aveva quell’atteggiamento di superiorità cretina che chi ha ottenuto il suo successo, una volta scalata la montagna, non riesce a sopprimere. Non conosceva nevrosi, il mio Totò.
Ci diceva di Rascel con cui recitò in “Figaro qua, Figaro là”.
Rascel, forse anche per motivi anagrafici, era il contrario di Totò. Non conosceva leggerezza, faceva pesare il proprio ruolo, era arcigno, difficile da gestire, a volte sprezzante.
Nel 1954 incontrò Garinei e Giovannini.
Gran Baldoria rappresentò una parentesi magica. Mi innamorai per la prima volta di un uomo che poi sarebbe diventato mio marito, Carlo Alberto Chiesa, mi emozionai a dividere scena, notti e responsabilità con le Bluebell, il Quartetto Cetra, Gorni Kramer, Mario Riva. C’era aria di Broadway su quel palco. Accennavo persino a uno spogliarello, proprio come le dive americane.
Lei è stata molto amica di Walter Chiari.
Così amica che quando provammo a immaginare qualcosa di serio dopo un mezzo flirt, ci venne da ridere. Non ho conosciuto molte persone spiritose come Walter. Con lui l’orologio non lo controllavi. Non ti annoiavi mai.
Carlo Dapporto?
Ottimo attore, ma diverso. Dapporto era di Sanremo come me. Due concittadini che si conoscevano anche per vincoli familiari, ma certo la confidenza che avevo con Walter Chiari, con Dapporto me la sognavo.
Quando nel 1960 morì suo marito, lei lasciò le scene.
Me ne ero già allontanata nel 1957, dopo la nascita di mia figlia. Pensavo fosse una pausa temporanea, ma la tragedia la rese definitiva. Pur di stare con lui rinunciavo a ogni cosa. Era così lieto, il tempo insieme. Come vi dicevo prima, Carlo Alberto è stato uno dei grandi sperimentatori della tv italiana. All’epoca succedeva di tutto, anche che nella messa in onda di un telegiornale all’improvviso apparissero dal nulla dei meccanici in studio ripresi in primo piano durante la diretta.
Tornò con Scola, nel ’74.
L’idea di C’eravamo tanto amati era così bella che dire no sarebbe stato da dementi. Sapete qual è il mio vero rimpianto? Il mio cruccio?
Quale signora Barzizza?
Di aver fatto troppi pochi Scola e troppi film inutili. Scola, Age e Scarpelli li frequentavo sempre, ma ormai era da un’altra parte e non potevo cancellare tutti i lavori che avevo affrontato in precedenza. Fanno parte del mio curriculum pieno di personaggi senza nessun senso e senza nessuno spessore. Avrebbe potuto essere diverso il mio percorso, ma insomma, è andata così. Sono comunque in pace con me stessa.
Da molti anni ha ricominciato a recitare. In teatro e al cinema per Fausto Brizzi, Pupi Avati, Massimiliano Bruno.
Da quando ho ripreso non mi sono più fermata. Ogni tanto incontro un critico distratto che si sorprende. “L’inatteso ritorno sulle scene di Isa Barzizza” scrivono. E invece sono qui da venticinque anni. È come se in questo periodo non avessi fatto niente, ma ho imparato a riderne. Che mi importa dell’approvazione della critica? Mi diverto troppo. Ve l’ho detto, finché sto in piedi, è in teatro che voglio stare.
I primi a richiamarla in palcoscenico dopo la lunga pausa furono Gigi Proietti e Mario Monicelli.
Gigi incontrò Pelos La Capria, il mio compagno di allora, e dal nulla tirò fuori la proposta: “Ma perché Isa non torna a recitare?”. È un uomo adorabile e un attore strepitoso, Gigi. Ma Mario Monicelli non era da meno: “Siate soavi”, diceva, e indicava una filosofia, uno stato dell’anima, un’attitudine che andava molto al di là del testo da recitare. Più che dire “si fa così o colà”, Mario sapeva creare l’atmosfera.
Pelos La Capria, l’ispiratore di uno dei personaggi di “Ferito a morte”, Raffaele, lo scrittore era suo fratello.
Pensate che aveva conosciuto prima mio marito a fine Anni 50. Carlo Alberto girava l’Italia con un programma sui giovani dall’avvenire luminoso e si era fermato a Positano passando con lui due giorni: “Devi incontrarlo un giorno o l’altro, è straordinario” diceva di Pelos.
Poi avvenne.
Molti anni dopo, nell’80. L’idea che lui e Carlo Alberto si fossero già incontrati era romantica. Pelos era fantastico. Da giovane ne aveva fatte di tutti i colori. Nella maturità aveva mantenuto ironia e gusto per il divertimento fino all’ultimo.
Signora Barzizza, non ci ha parlato male quasi di nessuno.
È grave? Devo fare ammenda? Che posso dirvi? Guardare il lato positivo della vita mi ha sempre consolato. I nevrotici mi spaventavano e a dire il vero, mi spaventano anche adesso.
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, il Fatto Quotidiano 13/9/2015