Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  settembre 13 Domenica calendario

IL CELIBATO È UNA FINZIONE: LA VITA SESSUALE DEI PRETI

Ho incontrato Ferdinando in un tiepido pomeriggio di fine agosto, in collina, a qualche chilometro da dove si sono svolti i fatti di cui parleremo per più di due ore. A darmi il benvenuto quando varco il cancello della sua bella casa sono le urla gioiose dei suoi tre bambini e il sorriso di Agata, la sua giovane moglie. Ferdinando comincia a raccontarmi la sua storia. Quella di un ragazzo che a diciotto anni, ammalato di idealismo, sente il desiderio fortissimo di diventare prete. Contro le aspettative della famiglia, che reagisce con stupore alla sua scelta e per realizzare gli ideali evangelici dell’amore, del dono di sé al prossimo e della giustizia, anche sociale, un valore ancora popolare trent’anni fa, quando appunto Ferdinando compie quella scelta.
Gli anni che trascorre in seminario sono per tanti versi fruttuosi. Tutto va bene, fuorché per un dettaglio: nel terzo anno di seminario, Ferdinando, poco più che ventenne, si innamora di una ragazza sua coetanea conosciuta in parrocchia. I due si frequentano, si dichiarano la propria passione, si amano anche fisicamente pur senza arrivare mai a un rapporto completo. Perché Ferdinando studia da prete e sa che se vuole continuare deve rimanere celibe.
“C’è di più – dice oggi – pensavo, nella mia ingenuità, che non dovevo negare la forza del sentimento per quella ragazza, ma che dovevo riversarla in un’amicizia, allontanandola dall’idea di un rapporto carnale. Per questo, ho continuato a frequentarla. Sentendomi un mezzo eroe. E compiendo naturalmente, ma lo capisco solo ora, una terribile violenza su me stesso, soffrendo per il terrore di dover assistere al suo fidanzamento con qualcun altro”. Superata quella crisi, Ferdinando viene ordinato sacerdote e mandato in una grossa parrocchia della diocesi a fare il viceparroco. In attesa di completare gli studi e di realizzare un sogno: andare in Africa come missionario.
Proprio in parrocchia Ferdinando conosce Agata. Di lei Ferdinando si innamora quasi subito, ricambiato. Ma a partire per l’Africa non vuole rinunciare. Però anche a migliaia di chilometri, Agata è il centro dei suoi pensieri. I due si scrivono centinaia di lettere. Quando poi, per un mese all’anno, Ferdinando torna in Italia è ad Agata che dedica, in gran segreto, la gran parte del suo tempo. Dopo due anni di questa vita Ferdinando, nella savana, ha perso definitivamente la pace interiore e il sonno. La decisione di rientrare è inevitabile e altrettanto inevitabile è quella di riferire tutto al suo parroco, un uomo comprensivo, che un giorno gli dice: “Ferdinando, non devi sentirti in colpa. Non hai fatto niente di male. Il celibato di noi preti è una gigantesca stronzata”. Ferdinando racconta tutto anche al vescovo che, al contrario, reagisce con disgusto: “Stai facendo prevalere la tua soggettività – gli dice prima di accordargli comunque un anno “sabbatico” di pausa dal sacerdozio – Ma nella Chiesa la libertà di coscienza non è la verità. La verità sta nell’obbedienza e nella rinuncia”. Parole pesanti che Ferdinando non potrà mai dimenticare e che gli sembrano così lontane dal cuore del Vangelo. Parole che invitano a condurre una vita falsa, priva di autenticità. O semmai una vita doppia, da censori dei vizi sull’altare e da uomini normali nel privato.
È incredibile constatare quante persone, ancora oggi, credenti e non credenti, attribuiscano valore al celibato obbligatorio dei preti. Quanti lo ritengano una regola ragionevole, per quanto severa. Quello che costoro dovrebbero sapere è che a rispettare quella norma non riesce quasi nessuno tra i circa 32.000 sacerdoti diocesani italiani (per non parlare di quelli di altri continenti, per i quali l’appartenenza al clero e il celibato sono spesso il comodo strumento per non assumersi la responsabilità di una relazione o di una gravidanza, per farsi spostare di diocesi quando combinano qualche guaio con una ragazza). Un buon numero di loro, qualcuno dice addirittura i tre quarti del totale, è omosessuale e usa il celibato come uno splendido alibi per non dover fornire giustificazioni del desiderio di non avere relazioni sentimentali con le donne e di non sposarsi.
Tra gli eterosessuali ve ne sono molti che hanno relazioni regolari e durature, anche con figli. Molti altri hanno solo relazioni occasionali, più o meno numerose. Una vita di assoluta castità non è comunque, anche per quei pochi under settanta che la praticano, sintomo di serenità spirituale o di pace interiore. Perché spesso dà luogo a fenomeni patologici, come l’alcolismo (molto diffuso) o altre forme di dipendenza, e si accompagna ad uno stato depressivo e di profonda infelicità. Anche una condotta sessuale attiva può essere dai preti in modi molto diversi: talvolta con terrificanti sensi di colpa, talaltra con la serenità di chi invece ha compreso di aver diritto a una vita affettiva autonoma dalle imposizioni dell’istituzione.
Il desiderio di autenticità e la rinuncia che hanno spinto Ferdinando a compiere la sua coraggiosa scelta di chiedere la dispensa e sposarsi non è limitata agli eterosessuali. Ho intervistato qualche tempo fa un prete gay che mi rivelò lo stesso desiderio: vivere il suo amore alla luce del sole. Oggi ha lasciato anche lui. L’idea che il celibato sia lo strumento principale per avere dei presbiteri completamente devoti alla loro comunità e che questa loro devozione soddisfi i bisogni affettivi dei sacerdoti, che li gratifichi come li gratificherebbe l’amore di una compagna o di un compagno e di una famiglia, è una menzogna assoluta.
Il celibato è in realtà la “regola di ingaggio” che consente alla Chiesa di disporre di funzionari a tempo pieno ad essa pienamente dedicati e ricattabili. Semplificando all’estremo, è come se l’istituzione dicesse al suo funzionario: “Tu sapevi quando hai accettato l’ingaggio che c’era questa regola. La puoi violare, ma ti sentirai in colpa e sarai comunque costretto a nasconderti. Perché, quando non rispetti il celibato, sentirai di aver tradito la fiducia del tuo gregge, al quale noi istituzione (con il tuo concorso!) abbiamo insegnato che tu devi essere puro e casto. Noi ti perdoneremo quando ignorerai il divieto. E ti copriremo anche se serve, ad esempio trasferendoti in un altro luogo se hai una donna che ti insegue o mandandoti in clinica invece di denunciarti se hai commesso qualche crimine legato alla sessualità.”
Il celibato diventa la premessa della sacralizzazione della figura asessuata del prete, la condizione della sua superiorità rispetto agli altri fedeli, il segno più tangibile che egli è più puro di loro e che la sua vita coincide con il suo ruolo pubblico. In questa metamorfosi si disumanizza, riducendosi a mero simbolo, privato del diritto ad avere una vita privata. Per qualche prete questo regime psichico è la premessa di un narcisismo incontenibile, della convinzione di essere più simile a Gesù che ai propri simili. E di avere un naturale diritto a comandare. Per altri, come Ferdinando, è una terribile camicia di forza che spinge verso il dolore e la morte interiore. “Oggi mi arrabbio quando vedo che nessuno nella Chiesa mi ascolta quando dico che sarei un pastore migliore da quando ho conosciuto Agata, la donna della mia vita, il mio unico amore, la madre dei miei figli che con me condivide la fede e una vita religiosa intensa e profonda, fatta non solo dei nostri bambini, ma di letture, conversazioni, esperienze spirituali e di frequentazioni comuni”. Io gli credo. E voi?
Marco Marzano, il Fatto Quotidiano 13/9/2015