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 2015  settembre 13 Domenica calendario

RENZI FA CORRERE ENRICO ROSSI, IL SUO AVVERSARIO DI FIDUCIA

Una vita da dalemiano, poi bersaniano e cuperliano, infine renziano. Una normale parabola post comunista, solo che Enrico Rossi, 57enne governatore della Toscana, ha deciso di coronarla con un indecifrabile carpiato: la candidatura a segretario del Pd con due anni di anticipo sulla scadenza del 2017, e contro Matteo Renzi del quale è acceso sostenitore. Perché si candida? In nome di chi e di che cosa? Il mistero è fitto. Rossi da qualche settimana occupa talk show e giornali con i suoi enigmi. “Nessuna azione concordata con Renzi”, dice per allontanare il sospetto di essere stato scelto come oppositore innocuo. Poi aggiunge: “Lo ringrazio però di aver dato l’ok alla mia candidatura”.
Conta su un unico sponsor, Carlo De Benedetti, che però ha già fulminato Occhetto, Rutelli, Veltroni e Bersani. In più adesso è renziano, e non conoscendo i dettagli della politica toscana l’anno scorso ha caldeggiato Rossi per una poltrona di ministro.
I naturali sostenitori di una sfida a Renzi l’hanno sbrigativamente liquidato. Il presidente del partito Matteo Orfini, che sta strutturando la corrente dei renziani sdegnosetti, l’ha bollato come caso umano: “La sua candidatura è solo personale”. Pier Luigi Bersani è bonario come sempre: “Con tutta la stima e l’affetto dico che non è il tempo di aprire un dibattito congressuale”. In bersanese, stima e affetto salutano i fendenti dell’ex sostenitore che ha accusato lui e Massimo D’Alema di “aver spianato la storia della sinistra”. Ma Rossi è fatto così. La frase “non sono né renziano né antirenziano” fotografa la sua sgangherata ambizione.
Originario di Bientina come il tangentiere Chicchi Pacini Battaglia, Rossi è stato allevato dalla federazione del Pci di Pisa (culla politica di D’Alema e Fabio Mussi) mentre prendeva la laurea in filosofia. Il partito lo ha lanciato rapidamente. Assessore e poi sindaco a 32 anni di Pontedera, la città della Piaggio, nel 2000 è diventato assessore regionale alla Sanità. Un’avventura che gli ha portato quasi unanimi riconoscimenti ma anche un problema giudiziario con il crac della Asl di Massa. Durante il suo mandato la struttura ha accumulato un buco di 420 milioni. Lui stesso ha denunciato alla magistratura il direttore generale Antonio Delvino, che però è stato assolto dall’accusa di aver truccato i conti. Nelle motivazioni della sentenza si legge: “Appare difficile immaginare che i vertici della giunta regionale ignorassero le anomalie di bilancio e le perdite accumulate negli anni”. Rossi è indagato per falso ideologico.
Ma non è la seccatura giudiziaria il suo problema. La vera disgrazia si chiama Renzi. Nell’estate 2010, quando il sindaco di Firenze lancia la parola d’ordine della “rottamazione”, Rossi è appena diventato governatore. Per una brevissima stagione si illude di poter cavalcare il rinnovamento renziano per sorpassarlo a sinistra. È ancora convinto che nel Pd non ci sia futuro per gli ex democristiani. Fa lo spiritoso, ricorda a Walter Veltroni la promessa di andare in Africa, dà del “puttaniere” a Berlusconi, e riserva a Renzi parole sprezzanti. Mentre lo sottovaluta e studia le mosse con lentezza da vecchio comunista, il giovane sindaco prende il potere. In soli tre anni il giovanotto di Rignano sull’Arno fa strike. Rossi annaspa.
A settembre 2013, mentre entra nel vivo la sfida Renzi-Cuperlo per la successione a Bersani alla guida del partito, i magistrati fiorentini arrestano la dalemiana storica Maria Rita Lorenzetti, ex governatrice dell’Umbria, per la vicenda del tunnel dell’alta velocità sotto Firenze. L’accusa è di aver favorito, come presidente della Italferr, società delle Fs che funge da stazione appaltante, la rossa Coopsette. Rossi non fa una bella figura. C’era un dirigente della Regione, Fabio Zita, che si ostinava a classificare come “rifiuti speciali” (e non come terra pulita) i materiali di scavo del tunnel. Una sfumatura che comportava per il costruttore maggiori costi di smaltimento per decine di milioni. I magistrati intercettano la Lorenzetti che definisce Zita “mascalzone”, “terrorista” e anche “stronzo”. Nelle stesse ore Rossi provvede a rimuovere Zita. Scrive il gip Angelo Pezzuti : “Si comprende come la vicenda della rimozione di Zita sia stata concordata su richieste e pressioni della Lorenzetti e con decisione personalmente assunta dal presidente della Regione Toscana, il quale, indipendentemente dalla buona fede, ha di fatto consentito alla associazione criminale di escludere un funzionario pubblico scomodo”.
Rossi incassa la brutta figura ma non immagina che Renzi gli presenterà il conto. A novembre azzecca la profezia: “Mi viene voglia di telefonare a Enrico Letta e metterlo in guardia: se tanto mi dà tanto cosa potrà accadere al governo Letta dopo l’8 dicembre qualora dovesse vincere Renzi?”. Solo che il Royal Baby prima di Letta sistema l’Enrico minore. Va a Firenze sabato 11 gennaio 2014, e sacrifica parte del suo trentanovesimo compleanno per andargli a dire che se non si mette in riga può scordarsi il secondo mandato. Nel frattempo il nuovo segretario regionale Pd Dario Parrini, renzianissimo, chiede a Rossi di candidarsi alle europee, cioè di liberare il posto di governatore. Lui capisce la minaccia e si inginocchia.
Il 17 febbraio, mentre Giorgio Napolitano incarica Renzi di formare il governo, il governatore licenzia in tronco la vicepresidente della giunta Stella Targetti, imprenditrice prestata alla politica, per nominare al suo posto il vicesindaco di Firenze Stefania Saccardi. Rossi è nel panico e si fa sfuggire una verità poco istituzionale: “Il riordino della mia giunta dipende certamente dalla necessità di aiutare Renzi, segretario del mio partito e incaricato premier del Paese, a risolvere i problemi del Comune di Firenze e lasciare a Dario Nardella il ruolo di vicesindaco reggente e candidato sindaco”. La Targetti segnala di aver appreso dalla tv di essere stata fatta fuori.
Da quel momento il governatore sembra teleguidato. Il presidente dell’aeroporto di Firenze, Marco Carrai, amico del cuore di Renzi, decide di aiutare il socio l’argentino Eduardo Eurnekian a scalare l’aeroporto di Pisa. Rossi, che detiene il pacchetto decisivo, aderisce all’Offerta pubblica di acquisto mandando in bestia i compagni pisani che gliela giurano. Da lì è un crescendo. Renzi fa la mossa degli 80 euro e Rossi twitta: “Bravo Matteo!”. Si fa piacere la riforma della Costituzione e il Jobs Act. Sembra innamorato: “Renzi si presenta come rinnovatore ed è messo a dura prova e per questo credo che ogni uomo di buona volontà non può che mettersi in una condizione di collaborazione e supporto”. Estenuato da tanto affetto, Renzi gli concede la ricandidatura senza primarie, ma con briglie cortissime. Quando Rossi viene rieletto offre allo storico dell’arte Tomaso Montanari di fare l’assessore alla Cultura ma dopo un’ora ritira la proposta. Ha scoperto che Montanari ha fatto il liceo con Renzi, scrive articoli di fuoco sulla sua ignoranza e quindi gli sta altamente sulle palle. Scatta il veto, Rossi è sull’attenti, Montanari sghignazza in pubblico. E adesso che è partito l’attacco a Renzi l’accusa più dura è che “non deve esaltare risultati che ancora non ci sono stati”. Il premier è già morto di paura.
Giorgio Meletti e Davide Vecchi, il Fatto Quotidiano 13/9/2015