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 2015  settembre 13 Domenica calendario

DALLA PUGLIA FINO ALLO SLAM. IL SOGNO DI FLAVIA E ROBERTA

Chi non segue con regolarità il tennis può faticare a comprenderlo appieno, ma di questo si tratta: una delle più grandi sorprese nella storia dello sport. La finale agli Us Open tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci resterà nella storia come qualcosa di meravigliosamente inspiegabile. Nessuno poteva non tanto prevederlo, quanto e soprattutto immaginarlo. È qualcosa che oltrepassa perfino la Majoli che, al Roland Garros, toglie l’unico tassello mancante a Martina Hingis per completare nel ’97 un Grande Slam che nel tennis femminile manca dal 1988 (Steffi Graf). Serena Williams era a un passo dal realizzarlo e le due partite rimanenti a questo Us Open sembravano una formalità. E invece no. Se proprio un paragone va cercato, torna alla mente Chang che conduce al rincoglionimento il sommamente intifabile Lendl al Roland Garros: Robertina non ha battuto da sotto, come fece Chang con sfrontatezza divina, ma quel suo “Non vi sento, applaudite anche me cazzo!” non risulterà ai posteri meno gradito.
L’impresa della Vinci, che prima di questo torneo era 43 al mondo e come singolarista pareva al crepuscolo, è un “maracanazo” reso meno drammatico solo dal fatto che gli statunitensi non hanno la teatralità dei brasiliani e – soprattutto – il tennis non è il calcio. Chi sono Pennetta e Vinci e come sono arrivate a giocarsi ieri lo Slam meno vicino al tennis italico, notoriamente terraiolo e rossocentrico? Brindisina Flavia, tarantina Roberta, 33 anni e 32. Amiche da sempre. Nel 1997 vinsero in doppio il Torneo dell’Avvenire, un anno dopo il doppio juniores al Roland Garros.
Si incrociano fin da quando avevano 12 anni. Vinceva sempre Robertina, perché – ricorda lei – “al tempo Flavia era isterica”. E adesso? “Adesso siamo donne anziane”, scherza lei, e nel farlo non ha certo dimenticato i quarti di finale agli Us Open di due anni fa, quando perse con Flavia. Proprio come, l’anno prima e ancora ai quarti, accadde a New York contro Sara Errani. Una sorta di allergia ai derby che contano. Nel 2013 la Pennetta era reduce da un lungo stop per un polso fuori uso e dopo Wimbledon pensò di ritirarsi. La Vinci, quell’anno, raggiunse un best ranking straordinario e al contempo agrodolce: 11 al mondo. A un passo dalle top ten: la fotografia di una carriera che, in singolare, spesso poteva essere e non è stata. C’entrano anche gli esordi. La Pennetta, neanche diciottenne, volò in Spagna e raggiunse con relativa facilità le prime 50 in classifica singolare. La Vinci è sbocciata con molta meno fretta.
Paradossalmente le furono fatali le due semifinali Slam in doppio con la Testud a inizio carriera (nel 2001). Si convinse, e la convinsero, che era più doppista che singolarista: diagnosi comprensibile, considerando che la casa della Vinci è la rete. Gioca un tennis antico e anacronistico, che l’avrebbe resa una rivale temibile delle Navratilova e Novotna, ma che la fa risultare oggi una campionessa fuori tempo, spesso troppo leggera per le sparapalle stolide e noiosissime alla Sharapova. Nel 2005 deliziò i palati fini nel torneo su erba di Eastbourne. Gianni Clerici, feticista del gesto bianco, trasecolò di beatitudine. Lui come tanti. Robertina parve fermarsi lì. Si è invece ripresa, contro ogni pronostico, sfiorando la top ten in singolare a trent’anni, vincendo 4 Fed Cup e trionfando in doppio in tutti gli Slam, fianco a fianco con una che a prima vista col doppio non sembra entrarci nulla: Sara Errani, con cui poi si è lasciata un anno fa non senza polemiche.
La Vinci è l’unica tennista italiana ad aver vinto almeno un torneo in ogni superficie, ma è sempre stata vista come quella “bellina” ma mai veramente vincente. C’era sempre qualcuno che le rubava la scena: Francesca Schiavone, imprevedibile (quasi) come lei ma assai più respingente; la Errani, emblema di volontà e abnegazione; e la Pennetta. Pure lei grande doppista (semifinalista quest’anno agli Us Open) e pure lei sottovalutata, benché prima italiana a entrare nelle top ten (10 nel 2009).
Spesso, e non per colpa sua, hanno parlato di lei per l’avvenenza: per il fidanzamento lontano con Moya, per quello attuale con Fognini. E il suo stesso tennis, senza difetti – da maestrina impeccabile – ma anche privo di colpi pienamente accecanti, ne ha nascosto un po’ il talento. Ieri, dopo un lungo viaggio, due campionesse autentiche – e felicemente atipiche – hanno coronato una carriera di ricami intarsiati e smorzate eretiche. Una volta tanto, è lecito il lieto fine.
Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 13/9/2015