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 2015  settembre 09 Mercoledì calendario

DETTORI, UN REGNO PER UN CAVALLO

Un volo infinito. Lungo centinaia di vittorie messe da parte sulle piste più popolari del galoppo internazionale. Lanfranco Dettori, classe 1970, milanese doc ma inglese d’adozione, è tra gli sportivi italiani più noti all’estero, dove raccoglie attestati di stima incondizionati da parte di appassionati e addetti ai lavori. Fa il fantino, “Frankie”, corre e vince. Da quando era giovanissimo e cercava di affermarsi in un Paese che non sentiva ancora suo. Dovevano essere sei mesi, sono passati trent’anni.
Lo scorso 5 luglio ha staccato il tagliando dei 538 Gran premi vinti ed è considerato, ormai da tempo, uno dei migliori fantini di sempre. Dove vuole arrivare?
«I numeri fanno piacere perché rappresentano le tappe di un percorso sul quale ho investito tutta la mia vita professionale. Non ho un traguardo preciso da raggiungere, ma sono innamorato del mio mestiere e sarei felice di fare il fantino ad alti livelli almeno fino ai 50 anni. Da quel momento, ogni anno in più sarà una grandissima vittoria. Confido nella buona sorte che mi preservi dalle brutte cadute»
In Inghilterra è popolare come una rockstar, ma in Italia è famoso solo fra gli appassionati di equitazione e pochi altri. Come spiegarlo a chi non frequenta gli ippodromi?
«Le dico la verità: mi fa molto piacere non essere un personaggio famoso in Italia. Perché ho la possibilità di muovermi più liberamente, senza problemi di alcun tipo. In Inghilterra, invece, sono riconosciuto da tutti. Il gioco dei cavalli fa parte della cultura britannica e io che ne sono uno dei protagonisti più noti faccio fatica a passeggiare per strada senza essere fermato dall’appassionato di turno».
Tra gli ultimi suoi trionfi da copertina, la cinquantesima vittoria al Royal Ascot, il meeting più prestigioso al mondo. Su quella pista, il 28 settembre del 1996, è entrato nella storia.
«Quel giorno fui baciato dalla fortuna, nemmeno io so come sia stato possibile. Volevo fortissimamente vincere il gran premio nella terza gara e arrivai a quell’appuntamento con in tasca il primo posto nelle prime due. Mi andò bene, tripletta. Della quarta e della quinta corsa non ho un ricordo preciso. Probabilmen- te, perché ero felice per la conquista del gran premio in gara 3. Alla sesta prova, ho avvertito la paura. Sapevo che se l’avessi vinta avrei eguagliato il primato precedente. Vinsi quella e pure la settima, una dopo l’altra. Sono stato il primo in trecento anni di corse a vincere sette gare su sette. Al momento non mi sono reso conto di quanto ero riuscito a fare. L’ho capito il giorno dopo, leggendo i giornali e guardando la tv. Un’emozione unica, grandissima».
Quando ha preso coscienza di essere diventato un campione?
«A 20 anni sapevo che sarei diventato molto bravo. Dopo aver vinto le sette gare al Royal Ascot ho capito che avevo fatto il definitivo salto di qualità».
Narrano le cronache che sia stato suo papà Gianfranco, anch’egli fantino di successo, a convincerla a trasferirsi in Inghilterra da giovanissimo. Una decisione che le ha rivoluzionato la vita.
«Avevo 14 anni, non avevo alcuna intenzione di lasciare l’Italia. C’erano i miei amici, i miei famigliari, la mia storia. E poi, parliamoci chiaro, trent’anni fa fare un viaggio del genere era come andare sulla Luna: tutto era diverso, tutto era distante da quello che avevo imparato a conoscere. Mio padre riuscì tuttavia a convincermi a trasferirmi in Inghilterra per sei mesi, con l’obiettivo di imparare il mestiere e cominciare a confrontarmi con i fantini più promettenti. L’ambientamento in Inghilterra non fu facilissimo. Non sapevo una parola d’inglese e non mi piaceva né il cibo né il clima. Insomma, un altro mondo. Ma il tempo è passato e mi sono inventato una nuova vita: sei mesi sono diventati trent’anni».
Nei mesi scorsi, le corse di cavalli Made in Italy hanno rischiato seriamente di finire nel baule dei ricordi. Tutta colpa della crisi economica o c’è di più?
«La crisi certo non ha aiutato, ma la colpa è anche nostra. Siamo stati pigri, non siamo intervenuti quando avremmo potuto e dovuto farlo. Sia chiaro, è colpevole il Governo, che non ha compreso appieno le ragioni del nostro movimento, ma lo sono anche tutti coloro che sono vicini al mondo dell’ippica. Dovevamo fare di più. Negli anni Settanta le cose andavano benissimo. Poi, gli altri sport sono riusciti a vendersi bene e noi siamo rimasti al palo, convinti che non fosse necessario migliorarci e crescere. Quando ci siamo accorti che in ballo c’era l’esistenza stessa del nostro sport era troppo tardi per intervenire con misure drastiche e risolutive. Ripeto, colpa nostra».
Negli ultimi vent’anni di carriera, ha prestato servizio per due sceicchi. Allora è vero, l’equitazione è uno sport per ricchi.
«Per le persone più abbienti, le corse dei cavalli sono un hobby. Nulla di più e nulla di meno rispetto a quanto avviene nel calcio. I proprietari delle squadre di pallone più importanti al mondo non investono montagne di denaro con l’obiettivo principale di ricavare un utile a fine anno. Lo fanno per divertimento. Lo stesso accade per l’ippica. I proprietari delle scuderie più grandi, che ormai da tempo sono sceicchi, ragionano nello stesso modo. Diverso è, invece, l’approccio di chi gareggia, di chi partecipa alle gare. Io faccio il fantino perché non avrei i mezzi culturali per fare un altro mestiere. Ma non è vero che soltanto i ricchi possono iniziare a fare questo lavoro. Se c’è il talento e la passione, si può arrivare lontano».
Nel 2012 ha spiegato la squalifica di sei mesi per cocaina dicendo di voler «essere sempre il numero 1, non il secondo. Dentro di me ero felice, per questo ho abbassato la guardia e ho fatto un errore». Ora ha imparato a essere felice in un altro modo?
«Ho attraversato un periodo difficilissimo. Sentivo di non essere più accettato dalla mia squadra e questo mi ha provocato uno stress non indifferente. Certo, ho fatto un errore, la peggiore risposta possibile a quanto stavo vivendo, ma sono felice di esserne uscito più forte di prima».
Alla fine degli anni Novanta ha fatto notizia una sua intervista alla Bbc in cui rivelava il severo regime di privazioni al quale si sottoponeva per tenere il peso sotto controllo. Fantini come modelle anoressiche: l’unica strada possibile, ieri come oggi?
«Quando ho iniziato io, non c’era la conoscenza medica che c’è oggi. Da allora, è cambiato tutto. Non è più necessario sottoporsi a diete massacranti per perdere il peso superfluo. Gli atleti fanno gli atleti, non hanno più bisogno di mettere a repentaglio la propria salute con soluzioni che poco o nulla hanno a che vedere con lo sport».
Ha vinto tutto e pure di più. Ha paura del momento in cui si spegneranno le luci dei riflettori?
«Sì, non lo nego. Mi aggrappo agli ultimi anni di carriera che mi rimangono come il bambino si aggrappa alla mamma. Ho paura del giorno in cui dovrò farmi da parte. Ho fatto il fantino per tutta la vita, cosa sarò dopo? Spero di rimanere nell’ambiente, magari come opinionista televisivo, chissà».