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 2015  settembre 09 Mercoledì calendario

I VAMPIRI SUCCHIANO IL SANGUE ALL’ITALIA


Marco Bellocchio, dopo il mancato Leone d’oro a Bella addormentata nel 2012 (se pensiamo che al posto suo vinse Pietà di Kim Ki-Duk ancora ci vengono i brividi), aveva giurato che non sarebbe più venuto a Venezia. Ma, si sa: solo i morti e gli stupidi non cambiano mai idea. E tre anni dopo, rieccolo in competizione con Sangue del mio sangue. Sarà la volta buona? Chi lo sa? E, in fondo, che importa? Gli artisti sono a volte (giustamente) competitivi e un Leone risarcirebbe Marco di molte delusioni, ma Sangue del mio sangue è un’opera talmente libera e sentita che saperla in gara con certe schifezze viste in questi giorni quasi quasi ci offende.
Il film ci ha lasciato con una grande domanda: sarà proprio indispensabile, per apprezzarlo, sapere di Bellocchio alcune cose che potrebbero sembrare private ma che ormai fanno parte integrante del suo cinema? Fin dai tempi di I pugni in tasca, capolavoro giovanile che in questo 2015 ha compiuto mezzo secolo, il regista ha non solo raccontato storie personali (il che, scava scava, è vero di ogni autentico artista). Ha messo nei film parenti, amici, ambienti. La casa avita di I pugni in tasca era proprio casa sua, a Bobbio, la località in provincia di Piacenza dove Marco è nato. E Bobbio è diventata una costante della sua opera, oltre che della sua vita. Vi dirige un festival dove si tengono laboratori che, negli anni, hanno dato vita prima a cortometraggi e poi a veri e propri film. Nel suo cinema esiste un filone in cui finzione e documentario si mescolano in modo inestricabile, per defluire in film che sono tra i più liberi e originali del nostro tempo: Vacanze in Val Trebbia, Sorelle Mai e ora appunto Sangue del mio sangue.
Un film stranissimo, girato nel corso del tempo, costruito su due “movimenti” diversissimi fra loro, ma sottilmente legati. Un film la cui genesi, da Bellocchio, è raccontata così: «Nasce dai corsi di Bobbio, dove ogni anno realizzavamo dei corti a bassissimo costo, e da una scoperta di alcuni anni fa: delle prigioni abbandonate all’interno del convento di San Colombano, un ambiente diroccato e affascinante nel quale sei anni fa abbiamo girato un corto ispirato alla Monaca di Monza. Non abbiamo ‘trascritto’ Manzoni: abbiamo inventato una storia in cui la Monaca veniva murata viva e poi liberata, anni dopo, dallo stesso cardinale che l’aveva condannata; e nel momento in cui la donna veniva per così dire ‘smurata’, usciva da quella stanza di tortura più bella che mai. Tempo dopo, mi sono chiesto: perché quella donna era finita lì? Perché il cardinale l’aveva presa di mira? Le risposte a queste domande sono diventate il primo episodio in cui il cardinale, da giovane, è un guerriero del ‘600 che perseguita la donna perché costei, pur essendo una suora, ha provocato il suicidio per amore del suo gemello. E poi si sono riverberate sulla parte contemporanea, che nasce da un soggetto a suo tempo intitolato L’ultimo vampiro: si immagina che nelle carceri viva, mentre tutti lo credono morto, un vecchio conte-vampiro cattolico che insieme ai suoi sodali trama contro la possibile vendita dell’edificio a un miliardario russo».


LA FAMIGLIA BELLOCCHIO
Abbiamo approfittato della descrizione di Bellocchio per offrirvi un racconto “d’autore” della trama. In realtà, l’episodio moderno e più complesso e ricco di personaggi: il mediatore che aiuta l’oligarca russo nell’acquisto si chiama Federico Mai come il cardinale/guerriero della prima parte, e come quello è interpretato da Piergiorgio Bellocchio... che, oltre ad essere un attore qui particolarmente ispirato, è figlio del regista. Nella sequenza dello ‘smuramento’ della Monaca, il cardinale ormai anziano è Alberto Bellocchio, fratello di Marco. Nella parte moderna, una delle persone che ballano freneticamente assieme al “pazzo” interpretato da Filippo Timi è Francesca Calvelli, montatrice del film e moglie del regista. C’è una parte importante anche per Elena Bellocchio, altra figlia di Marco – e naturalmente c’è il mitico Gianni Schicchi, l’amico fedele che bestemmiava sonoramente in L’ora di religione. La dimensione familiare del film è indiscutibile, ma guai a chi pensa ad una forma di nepotismo: fin dal titolo, in Sangue del mio sangue la famiglia “è” il film. Il suicidio del gemello di Federico rimanda a un’identica tragedia che Marco ha vissuto da giovane, e che ha più volte raccontato in film e interviste. Queste sono, come dicevamo in apertura, le “cose” che si dovrebbero sapere per penetrare alcuni segreti del film: ma pur raccontandovele speriamo vivamente che non siano indispensabili, e che il film sia fruibile anche da parte di chi le ignora – a cominciare dai giurati... Se la parte antica è solenne e bellissima, una messinscena mirabile di un processo per stregoneria (e Lidya Liberman, la Monaca, è stupenda), la parte moderna è quella in cui Bellocchio si prende le maggiori libertà e non mancherà di sconcertare qualche spettatore.


VAMPIRISMO PAESANO
Qui, da Manzoni, si passa a Gogol’. La struttura è quella di L’ispettore generale: in città arriva uno sconosciuto (anzi due, il mediatore Federico e l’oligarca Rikalkov) e tutti sembrano avere qualche conto da regolare. Filippo Timi è un pazzo sorprendentemente edotto nella burocrazia statale, Patrizia Bettini è la moglie del conte vampiro convinta che sia ancora vivo... e mentre la città si interroga sulla reale solvibilità del russo, dentro le prigioni il conte (Roberto Herlitzka) trama per conservare i privilegi suoi e della sua cricca. Qui Bellocchio si diverte a raccontare un gruppo di vecchi vampiri in cui spicca un luciferino dentista mirabilmente interpretato da Toni Bertorelli. «Rappresentano un vampirismo paesano che è un po’ un apologo sull’Italia di oggi – dice Bellocchio –. Semplifico: se nel ‘600 il dominio della chiesa cattolica era totale, nella Bobbio di oggi si trasforma in quel pacioso dominio democristiano che ha regalato benessere ma ha anche succhiato il sangue ad ogni prospettiva di cambiamento. I vampiri, nel film, sono due: il cardinale e il conte. Alla fine quest’ultimo deve dire addio al suo stile di vita, e morire di fronte al trionfo della bellezza e della gioventù... esattamente come il cardinale». E sull’oggi aggiunge: «Abbiamo un Papa più a sinistra della sinistra, ma non fatemi passare per un convertito, non lo sono. Parlar male della Chiesa ora non mi viene naturale: anche se su tante cose sono in disaccordo in tema di famiglia, apprezzo i cambiamenti di Francesco, i suoi gesti pubblici».


GUARDANDO BUNUEL
La seconda parte di Sangue del mio sangue è una sorta di opera buffa, un trionfo del grottesco e del surreale nel quale forse Bellocchio raggiunge definitivamente quello che è – nostro personalissimo parere – il suo vero punto di riferimento almeno da L’ora di religione in poi: Luis Bunuel. Nel sommo genio spagnolo il surrealismo era dichiarato, in Bellocchio è sotterraneo, ma in certi momenti di Sangue del mio sangue viene alla luce, splendido ed enigmatico come la monaca che esce giovane e smagliante dalla stanza dove era stata murata decenni prima. Ieri un collega ha detto che quella scena gli ha ricordato la “fuga” di Moro dalla prigione delle Br in Buongiorno notte, altro momento (ahimè) surreale. «I critici a volte sono utilissimi perché ti spiegano cose a cui tu non avevi pensato», ha risposto Bellocchio. Grazie Marco, a nome della categoria.